Deliver Us from Evil (Joey) > Horace Jackson

Deliver Us from Evil (Joey)
regia di Horace Jackson (USA/1977)
recensione a cura di Leonardo Persia

Film tostissimo. Il protagonista Chris Townes è perennemente incazzato. Lo interpreta Danny Martin, tipico eroe/antieroe blaxploitation, quasi sempre con i pettorali esposti, o con camicia aperta davanti, o t-shirt che non ce la fa a coprirlo fino alla schiena. Identificazione dello spettatore nel sex appeal prima ancora che nella rabbia. Appena un attimo prima che partano i titoli di testa, ha fracassato i bellissimi vetri colorati di un set cinematografico dove lavora. E’ stato il tono supponente del boss bianco a infastidirlo, avendogli ordinato di pulire con attenzione i fragili oggetti. Sul rumore dei vetri infranti, e l’ «hey boy» rivoltogli dal superiore che lui ripete meccanicamente come un campionamento ante litteram, partono i titoli e, cambio di scena, l’uomo a contatto con uno psichiatra, nero anche lui. Colori psycho e psichedelici, ammicco delirante. Il ricoverato sghignazza per l’assurda condizione, lo strizzacervelli pure.

Black on Black, tema del film del 1975, il cui titolo, Deliver Us from Evil (il liberaci dal male del Pater Noster) allude soprattutto al male tra brothers, neri che non fanno la cosa giusta. «A movie that tells it like it is about blacks. The beautiful blacks. The evil blacks» spiega il trailer. Tutta la verità sui neri buoni (belli) e quelli cattivi. Nero è pure il cop del film, inseguitore di un gruppo di delinquenti, tutti neri tranne uno, che hanno appena massacrato di botte una ragazza debitrice, svegliandola da un sogno divenuto incubo (la locandina del film). Sono dealers che non scherzano, giovanissimi e senza scrupoli. Soprattutto non sanno, a differenza del film, distinguere tra bene e male, come si evince dalla scena in cui il genitore di uno di loro lo schiaffeggia chiendogli perchè. A sua volta l’altro risponde «Perché?, cosa ho fatto? l’importante è far soldi, no?» E dopo scatena un massacro.

Siamo nei quartieri middle class di Los Angeles, neorealismo della povertà di messinscena, con caldi colori anni ’70 pronti a esplodere. Il cop esplode a sua volta con un collega bianco, quando il perseguitato Chris Townes viene interrogato senza un motivo, «solo perché è nero?». Quest’ultimo è solitario oltremodo, non ha amici (lo dice la sua voce off che ogni tanto risponde senza rispondere agli interlocutori bianchi, flusso di coscienza rap), problemi con i lavori intermittenti, sfruttato e umiliato, sebbene abbia i muscoli mentre l’avversario white è o vecchio o flaccido o effeminato, epperò ha la pelle chiara e i soldi verdi. Da un cantiere viene licenziato, benché tosto, perché addirittura ordini perentori sono arrivati dall’alto.

Pare che il film dovesse far parte di una serie tv cristiana trasmessa la domenica mattina, Insight. Horace Jackson, nero anche lui, scrive, dirige e produce (per l’indipendentissima Dimension Pictures). Aveva già fatto altri due film con messaggio, The Bus is Coming (1971) e Tough (1974). Questo chiude la breve carriera, traballante e incongruente come i precedenti. Non ha pretese d’autore, ovvio. Il filmaker cavalca l’onda blax, ha un budget mini ma non si lascia intimidire. Persegue un’estetica black, violenta ma morale. Vuole parlare direttamente ai fratelli. Il tocco è esplicito, rozzo, pieno di irresistibili sensi ottusi, involontaria libertà espressiva. It’s only trash’n’roll, but I like it.

La scena del pestaggio della ragazza anticipa i tempi. La musica a palla invade lo schermo. E’ extradiegetica ma diegetica, elemento che fa parte del quadro. La soul band Enchantment suona a tutto volume Think About What You’re Doing to Me (And Know What You’re Doing to Yourself!), stile Four Tops post-Motown, quelli di Shaft in Africa (1973), testo che riproduce la tematica del film, sorta di trascinante coro greco r’n’b. Non si può negare l’efficacia e l’innovazione, ma la cosa viene ripetuta a ogni piè sospinto, e purtroppo lo score a disposizione è soltanto quello. Originalità e impatto si sfracellano come i vetri dell’incipit.

E tuttavia è interessante la solitudine priva di spiegazioni del protagonista, una strizzata d’occhio al pubblico (nero) che sa. Il suo scontento e, contemporaneamente, la sua bellezza. Mix incendiario. Arriva al punto, incazzato com’è, di dare un passaggio a una bella chick la cui macchina è andata in panne. e di spingere così tanto l’acceleratore da spaventare la malcapitata. Più lei protesta e implora di rallentare, più lui ci dà dentro.

La frustrazione è frustrazione e viene sfogata con la propria gente, di sesso opposto o di età inferiore, di questo il film parla. La piccola Mindy (la Marie O’Henry del coevo Dr. Black, Mr. Hyde, altro cult trash nero) riesce a stopparlo, poi lo schiaffeggia e fugge. Il dude fa violenta retromarcia, un testacoda così così, e la insegue, scoprendo che lei è un recreational director di una scuola nera di chiassosissimi bambini. Una sorella tosta pure lei. Accompagna uno di loro su una sedia a rotelle ed è preda continua di altri spacciatori che non esitano a malmenare persino il bimbo paraplegico. Un inferno, il cuore di lui ha un sussulto. E un sorriso, che distende il volto macho immusonito. Però, a sorpresa, si innamora dell’amica di lei, Michelle (Kandi Keith), visto che l’altra è sposata.

La ragazza appare dal nulla, nella stessa maniera in cui altri personaggi vengono inghiottiti dal nulla, dopo che avevano promesso un certo sviluppo di situazione puntualmente disattesa. Personaggi e rotondità del plot non sono il forte di Jackson. Il film perde i pezzi, sterza verso altre piste, si confonde. Michelle dà un appuntamento a Chris, lui va, lei non c’è. Poi si rincontrano, la ragazza chiede perché non si è presentato, l’uomo risponde che ha avuto un altro impegno. ????!!!!

A un certo punto vediamo persino una sista drogata e perseguitata dai suoi pusher che esigono il credito, ma sulla scena vediamo chiudersi il sipario, era una rappresentazione teatrale (fatta da chi e per chi?). Oltretutto riprende la situazione d’apertura dopo i titoli, con la ragazza picchiata. Stravaganza brechtiana? Della stessa situazione ritroviamo pure i picchiatori, spacciarsi adesso per divulgatori di una rivista black radical fuori dal portone di casa di Michelle: a che pro? E uno di loro, che inizialmente tuonava contro l’immoralità dell’attività, responsabile a suo avviso di far vittime tra bimbi delle elementari, è di nuovo lì col resto del clan, come niente fosse.

Infine, dopo una carneficina da parte dei cattivi (sorella e… madre?, non si capisce, del piccolo Joe, bimbo in carrozza, che giustificherebbe, ma non troppo, l’ulteriore titolo del film, Joey: in tutti i casi, è lui a recitare la preghiera da cui il titolo), si attende una vendetta tremenda da parte di Chris, che già ha avuto modo di affrontare i teppisti che perseguitavano Mindy e i suoi alunni. E invece.

L’eroe stanco ma volenteroso si gira verso lo schermo e urla, dopo un sermone sul degrado del neighbourhood e dei fratelli, a piena voce: «When will it end?». Quando finirà? Così il film si conclude, la battuta sul volto di lui, estensione creativa del consueto the end, e senza il punto interrogativo.

Leonardo Persia

 



Deliver Us from Evil (Joey)

regia, sceneggiatura: Horace Jackson
fotografia: Alfred Taylor
montaggio: Jeff Bushelman
casting: Ernestine McClendon
costumi: Heather Nelson
makeup: Candice Davis
suono: Gordon Davidson
cameraman: David Dans
produttore: Horace Jackson
co-produttore: Jeff Bushelman
produttore esecutivo: Clarence Avant, Lawrence Woolner
produttore associato: Wendell Franklin
interpreti: Marie O’Henry, Renny Roker, Chris Townes, Candi Keath, Cal Haynes, Mike Sims, Juanita Moore, Danny Martín, Little Joe, Tony Charles, Bill Conklin, Marc Hannibal, Maurice Williams, Nellie Mills, Hershell Walthall, Maurice Emanuel, Henry Oliver
casa di produzione: Dimension Pictures
paese: USA
anno: 1977
durata: 96′

 

 



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