«Un gruppo di donne che chiacchierano è l’origine di tutte le storie. […] Sono cresciuto e ho cominciato a scrivere ascoltando le donne parlare nel cortile di casa, al mio paese». (1)
Pedro Almodóvar Caballero
24 (o 29) Settembre 1949, Calzada de Calatrava, Ciudad Real, Spagna.
Pedro Almodóvar è uno dei maggiori cineasti del nostro tempo, e il suo nome, al pari di Luis Buñuel e Carlos Saura, rientra nel novero dei migliori registi spagnoli di sempre. Dopo la consacrazione avvenuta nel 2000 con l’Oscar per il miglior film straniero a Todo sobre mi madre il suo cinema si è fatto maturo, classico, raggiungendo una perfezione formale e stilistica degne dei più grandi maestri della settima arte, pur senza aver mai rinnegato gli eccessi degli esordi (La piel que habido). La sua è una carriera leggendaria, d’un uomo venuto dal nulla, di origini popolari, che ha saputo commuovere il mondo intero con uno stile unico che affonda le sue radici nel melodramma, nella rielaborazione delle strutture drammatiche di un genere cinematografico sfuggente e non omogeneo, mirabilmente definito nei suoi caratteri essenziali già nel 1922, da uno dei maestri del genere, Frank Borzage: «il vecchio melodramma che si designava come ‘genere per sartine’ non aveva qualità al di là della sua attitudine di suscitare l’emozione: non c’era caratterizzazione, salvo quella che veniva dalle situazioni stesse. Ma nei film di oggi noi abbiamo le stesse situazioni melodrammatiche alle quali sono adattate delle autentiche caratterizzazioni. I critici tendono a disprezzarle, ma sembrano non accorgersi che la vita è fatta in gran parte di melodramma» (2). Propri del melodramma sono gli estremismi emotivi dei protagonisti in scena e la perdurante presenza del genere, dalla nascita del cinema ai giorni nostri, e certamente a quelli futuri, «conferma l’intima natura melodrammatica del cinema» (3), come a dire che è sul corpo dell’attore che la narrazione cinematografica trova la propria essenza, la sua elegia, che ci fa patire con esso, come se noi che guardiamo fossimo quello stesso istante (dilatato) di «estremismo emotivo».
Come tutti i grandi ha probabilmente trasformato in cinema sempre la stessa storia, riuscendo, ogni volta, immancabilmente, a stupirci. Pedro Almodóvar è una lacrima di gioia che nasce da un infinito dolore, è colore, è un fuoco d’artificio che facendo alzare gli occhi al cielo per ammirare i suoi variopinti giochi ci fa incrociare lo sguardo con le stelle.
«Amo il cinema di Almodóvar perché mi dà emozioni. Perché fa reagire i due emisferi nei quali è diviso il nostro cervello, quello destro e quello sinistro, la parte in cui funziona la Ratio (la cosiddetta logica di tipo matematico) e la parte in cui funzionano le emozioni. Emozioni senza le quali, come ha spiegato un grande scienziato, il neurologo americano di origine portoghese Antonio Damasio (vedi in italiano L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995), la tanto celebrata logica, il pensiero razionale, il “Cogito ergo sum” di Descartes, sarebbe ben poca cosa: noi procederemmo a tentoni nella nostra implacabile logica, che avrebbe lo stesso meccanismo (e la stessa logica) se dovessimo applicarla sia a organizzare le nostre vacanze come a pianificare lo sterminio della nostra famiglia». (4)
La sua storia ha inizio nel 1949 a Calzada de Calatrava, un piccolo paesino agricolo della Mancha (lo stesso territorio messo in scena in Volver) in cui visse con la famiglia, padre viticoltore e madre casalinga, fino all’età di otto anni per poi trasferirsi nella cittadina di Madrigalejo, nella provincia di Cáceres in Extremadura, a seguito delle disavventure economiche del padre che lì si trasferì con l’intera famiglia ed incominciò a lavorare in una pompa di benzina.
«Ho imparato a leggere molto presto. Già a otto anni leggevo dei romanzi. Penso che la mia passione sia stata quella di raccontare storie. I miei giochi erano più verbali che fisici, inventavo molte storie che raccontavo alle mie sorelle e ai miei compagni. A poco a poco ho cominciato a mettere per iscritto. E poi, durante l’adolescenza, ho avuto voglia di raccontare queste storie attraverso delle immagini. Non mi sono rivolto alla letteratura perché non sono uno scrittore abbastanza bravo e ho più facilità con le immagini. La mia famiglia non è rimasta sempre nello stesso posto: io sono della Mancia, ma quando avevo otto anni i miei genitori hanno traslocato in Extremadura per cercare lavoro. Là ci siamo ritrovati ancora più in basso nella scala sociale, abitavamo nel quartiere più povero del villaggio, la gente era analfabeta. Siccome nessuno sapeva né leggere né scrivere nella nostra strada, mia madre, che è molto furba, aveva creato una specie di impresa: lei e io – ero molto maturo per la mia età – scrivevamo lettere per i vicini e gli leggevamo quelle che ricevevano. In seguito mia madre ha avuto un’idea ancora più sofisticata. Poiché ero così intelligente e visto che sapevo tante cose, mentre gli altri non sapevano nulla, mia madre aveva fatto di me una sorta di maestro. Così verso le nove di sera, dopo il lavoro nei campi, i ragazzi – che erano molto più grandi di me e avevano 15-20 anni – venivano a casa nostra, tirati a lucido come per andare dal dottore, e io gli insegnavo a leggere, a scrivere, a far di conto. Ma ai vicini non leggevamo semplicemente le lettere, mia madre inventava continuamente nuove cose: conosceva la vita dei vicini e gli raccontava quello che volevano sentire. Dopo le domandavo “Mamma, perché gli hai detto quelle cose?”. “Per fargli piacere…” (risate). Già in quel caso c’era un lavoro di finzione. È in quel periodo che mi sono messo a raccontare storie. E quando ho cominciato a vedere dei film, intorno ai dieci-undici anni, alla mie sorelle piaceva molto che io glieli raccontassi, anche se li avevamo visti insieme. A loro piaceva il mio modo di raccontarli. Sviluppavo le storie, le deformavo completamente, ed è proprio questo il principio della tradizione orale. Il mio racconto era una sorta di ricreazione. Fin dall’infanzia, quindi, sono stato un affabulatore. E questo mi ha portato in modo naturale all’immagine». (5)
Compiuti i dieci anni verrà mandato a studiare, grazie ad una borsa di studio, dapprima in un collegio di salesiani, poi di francescani. Questa esperienza umana ed educativa di stampo cattolico lo segnerà nel profondo in maniera traumatica e troverà la via dello schermo nel 2004 con l’esplicativo titolo La mala educación, ma scorrerà carsica in molti dei suoi film, riaffiorando con discontinua imprevedibilità in molte sue opere. Questo suo anticlericalismo, da non confondersi con ostilità nei confronti della religiosità, o comunque questa visione minacciosa e falsa delle istituzioni cattoliche, è in un certo qual modo prossima, rappresentandone un prolungamento in un’altra epoca e con un altro linguaggio, a quanto portato sullo schermo nell’arco di un’intera carriera dal surrealista aragonese Luis Buñuel.
«Uno dei momenti più felici della mia vita è stato quando sono arrivato a Madrid per la prima volta. Se nasci come me, sei condannato a vivere in un paesino per tutta la vita. La cosa buona di vivere in un centro così piccolo è che capisci molto presto cosa non ti piace. […] Vivere in quella città per il resto della mia vita sarebbe stata la morte. Venni a Madrid con un’ambizione precisa: fare film ». (6)
Nel 1968, conclusi gli studi superiori, si trasferisce a Madrid in cerca di fortuna, evadendo da quella provincia spagnola che cominciava ad andare stretta al suo genio creativo. Intenzionato ad iscriversi all’Escuela Oficial de Cine dovette immediatamente abbandonare il suo proposito a causa di una legge promulgata dalla dittatura di Francisco Franco (al potere in Spagna ininterrottamente dalla vittoria nella guerra civile spagnola del 1939 fino alla sua morte nel 1975) che imponeva la chiusura della sola istituzione dedicata alla settima arte dell’intero Paese.
Da questo momento la sua biografia si accende come un fuoco d’artificio, deflagrando nei più svariati ambiti artistico/creativi della scena underground (se il termine designa forme di produzione artistica fuori dall’ufficialità o comunque marginali, nella Spagna franchista con tutta probabilità assume una connotazione ancor più esplosiva). Per sbarcare il lunario troverà come prima occupazione quella di venditore ambulante al mercato delle pulci di El Rasto, seguita da dodici lunghi anni presso la Compagnia Telefonica Nazionale con la qualifica di ausiliario amministrativo.
«Nel curriculum di un artista creativo viene sempre riportato qualche fatto traumatico. Naturalmente anch’io ne ho avuti. Uno di questi è l’aver lavorato per dieci anni nel sottosuolo delle Poste e Telefoni». (7)
Sono anni di fermento culturale in tutta la Spagna e Madrid ne è a tutti gli effetti la capitale, soprattutto grazie al movimento sociale e culturale denominato movida del quale Almodóvar diviene ben presto uno dei più celebri esponenti. La movida fu un momento enorme nella storia della Spagna, rappresentò la reazione selvaggia ad anni di vita compressa e frustrata da un regime fascista e clericale, un movimento culturale dalla forte valenza psichica. In termini freudiani si trattò di una liberazione dell’Es a scapito di un Super-Io castrante che produsse un vero e proprio terremoto dell’Io individuale e collettivo, in cui la componente libidica fu il terreno di rinnovamento peculiare. L’anima di questo movimento, di questa ondata vitale, costituirà il cuore del primo cinema di Almodóvar, caratterizzato da uno stile kitsch, da un’etica libertaria e da una carica provocatoria assolutamente sopra le righe.
«Io mi sto ancora riprendendo da quel periodo. È stata la parte più stimolante della mia vita». (8)
«Sono cresciuto, ho goduto, ho sofferto, sono ingrassato, mi sono sviluppato a Madrid. E molte di queste cose le ho fatte alla stessa velocità della città. La mia vita ed i miei film sono legati a Madrid, come due facce della stessa medaglia». (9)
Ad una vita convenzionale presso Telefonica, Almodóvar alterna il proprio mondo edificato nel fermento della Madrid a cavallo del declino del franchismo (della movida). Le attività culturali a cui partecipa o che si inventa dal nulla sono innumerevoli: scrive sceneggiature e fumetti per riviste della scena contro culturale madrileña (El Vìbora, Star, Vibraciones), un romanzo breve (Fuego en las entrañas), un fotoromanzo pornografico (Toda tuya), collabora con alcuni periodici (El País, Diario 16 e La Luna), forma un duo punk-glam parodico, Almodóvar y McNamara e fonda la compagnia di teatro indipendente Los Goliardos (nella quale figurano, fra gli altri, Carmen Maura e Félix Rotaeta).
«Volevo fare del cinema. Ero consapevole che sarebbe stata una cosa molto complicata, molto difficile. Non avevo soldi e dovevo cercare un lavoro: allora ho fatto molti lavoretti, ma senza mai perdere di vista la mia voglia di raccontare delle storie. Mi sono comprato una cinepresa Super8 e ho scritto tutti i giorni. Credo che la mia fortuna sia stata quella di avere una vocazione molto precisa: non ho mai disperso le mie energie». (10)
Durante gli anni ’72-’78 gira i suoi primi cortometraggi in Super8 (muti, come il formato imponeva, ma sonorizzati dal vivo durante la proiezione): Film político (1974), Dos putas, o historia de amor que termina en boda (1974), La caída de Sódoma (1975), Homenaje (1975), El sueño, o la estrella (1975), Blancor (1975), Sea caritativo (1976), Muerte en la carretera (1976), Sexo va, sexo viene (1977), Salomé (1978).
«Non essendo andato all’università, la vita che ho condotto e le mie attività artistiche hanno rappresentato la mia vera formazione. Per me tutte queste attività costituivano una cosa sola, facevano parte della mia evoluzione. Bisogna anche dire che mi è sempre piaciuto fare molte cose contemporaneamente, come se avessi più vite parallele. Ma con il passare del tempo ci si rende conto che si ha una sola vita a disposizione». (11)
I cortometraggi di Pedro Almodóvar hanno inizialmente una circolazione cittadina e semi-clandestina, o comunque legata a proiezioni aperte ad un pubblico ridottissimo e tutta interna all’ambiente underground pre-movida. È solo nel 1976, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, che le sue opere iniziano a farsi conoscere ad un pubblico più vasto: alla Segunda Semana Nacional/Film Super8 di Barcellona il suo cinema per la prima volta esce dalla capitale. Nel 1978 dirige il suo primo lungometraggio (della ragguardevole durata di 90 minuti), sempre in Super8, dal titolo Folle… folle… fólleme Tim!, nel quale egli stesso interpreta un ruolo e in cui figura Carmen Maura, compagna di avventure nella compagnia Los Goliardicos e futura musa della prima fase registica di Almodóvar; un film (follemente!) sopra le righe, una specie di fotoromanzo rosa, melodrammatico ed eccessivo.
Nel 1980 inizia a tutti gli effetti la sua carriera cinematografica con il film Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (Pepi, Luci, Bom e le altra ragazze del mucchio), pellicola che desta grande scandalo al Festival di San Sabastian. Pepi, interpretata da Carmen Maura, è una ragazza emancipata dall’epoca della paura franchista che, per vendicarsi di una violenza sessuale subita da un poliziotto, deciderà di traviarne la sorella catapultandola fra le ragazze del montón, una comunità lesbica madrileña. Un film d’esordio che contiene tutte le caratteristiche dirompenti dello stile del regista spagnolo, capace di portare sullo schermo la “cronaca” di una città che proprio a partire dalla liberazione sessuale ha vissuto l’affrancamento dalla dittatura fascista, un’opera in grado di restituire quell’irripetibile e vitale caos che divampava in città. Un film che rappresenta per il regista una vera e propria prova del fuoco e che si scontra con la contingenza di un lavoro sicuro, alla Telefónica, da far scivolare sempre più nei ritagli di tempo. Sono anni di incertezza per il futuro maestro, egli ha infatti già trent’anni, una famiglia alle spalle tutt’altro che solida economicamente, che non manca di esprimere i propri dubbi sulla fattibilità di questa sua rincorsa ad un sogno che appare così distante dalla vita reale.
«I miei genitori erano sempre preoccupati. Perfino quando stavo concludendo le riprese di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, mia madre continuava a ripetermi: “Oh, Pedro, perché non torni alla società dei telefoni? È un lavoro così sicuro”. Lei era cresciuta nella povertà e si sentiva insicura. I vicini le avevano detto che i miei film erano volgari, e mia madre li vide solo diversi anni dopo». (12)
Grazie al clamore del film d’esordio Almodóvar ottiene i capitali per realizzare, nel 1982, il suo secondo lungometraggio, Laberinto de pasiones (Labirinto di passioni), in cui nuovamente descriverà l’ambiente de La movida di Madrid all’inizio degli anni ’80. Entre tinieblas (L’indiscreto fascino del peccato) presentato al Festival di Venezia del 1983 lo impone immediatamente all’attenzione della critica internazionale. Almodóvar fu senz’altro il nome di spicco del cinema della movida, ma non vanno dimenticati nemmeno Fernando Trueba, autore di un film emblematico come Ópera prima (1980), oppure Fernando Colomo, Iván Zulueta e Manuel Iborra.
Fra un film e l’altro, nel 1985, Almodóvar trova il tempo di fondare, in società col fratello Augustín, la casa di produzione cinematografica El Deseo, ad oggi una delle più importanti di tutta la Spagna, che gli permetterà di realizzare in totale autonomia, e senza alcuna censura, il proprio cinema e che diverrà, negli anni, fucina di giovani talenti d’una cinematografia, quella spagnola, da tempo alle prese con un vero e proprio rinascimento. I nomi più conosciuti sono quelli di Álex de la Iglesia, che esordì al lungometraggio nel 1993 proprio con la casa di produzione dei fratelli Almodóvar con il bizzarro Acción mutante (Azione mutante), Guillermo del Toro, che nel 2001 sbancò i box-office di mezzo mondo con il sorprendente El espinazo del diablo e Isabel Coixet che con El Deseo ha prodotto nel 2002 Mi vida sin mi e, nel 2004, lo straziante La vida secreta de las palabras. Ci sono poi i film di Mónica Laguna (Tengo una casa, 1996), Daniel Caparsoto (Pasajes, 1996), Alain Guesnier (A trabajar!, 1998), Andres Wood (La fiebre del loco, 2001), Dunia Ayaso e Feliz Sabroso (Descongélate, 2003) e Lucrecia Martel (La niña santa, 2004).
La possibilità di governare il proprio cinema in ogni sua parte permette ad Almodóvar una libertà altrimenti impossibile, ed in tal modo, le sue magistrali sceneggiature (13), trovano la strada per arrivare integre sul grande schermo. Questo controllo totale dell’opera lo accomuna all’italiano Nanni Moretti, fondatore nel 1987 con Angelo Barbagallo della Sacher Film, e più recentemente al cileno Pablo Larraín, che ha realizzato l’intera sua filmografia, ma pure film di giovani regista, con la casa di produzione Fabula, creata e diretta col fratello Juan de Dios – ma gli esempi potrebbero essere molti, non moltissimi. Anche per la distribuzione dei suoi film la strategia adottata è decisamente autarchica, i diritti vengono concessi di volta in volta a distributori differenti, o quanto meno mai preordinati, ad esempio in Italia evitando le aziende controllate da Silvio Berlusconi e dal suo gruppo, sostanzialmente Medusa, per evitare possibili manipolazioni causate dall’esplicita avversità del regista spagnolo nei confronti di Berlusconi e della sua (non) politica.
Con le opere successive, ¿Qué he hecho yo para merecer esto!! (1984), Matador (1986) e soprattutto con La ley del deseo (1987) il cinema di Almodóvar incomincia a delinearsi nelle sue caratteristiche peculiari, perdendo lentamente, quasi in maniera impercettibile, parte del proprio gusto della provocazione, lasciando via via sempre più spazio a personaggi approfonditi pur se incredibilmente tormentati, traumatizzati e traumatizzanti. «Nei film, la mia speranza è fondere realtà e fantasia, e tutto tende a quell’ideale» (14). I suoi film si impongono nella società spagnola per la portata rivoluzionaria dei caratteri messi in scena, il suo cinema è da subito la rappresentazione più luminosa delle istanze libertarie della rivoluzione culturale di fatto in atto in quegli anni nella Spagna post-franchista. Gli eccessi del suo stile, letti a distanza di trent’anni, rappresentano più che delle marche autoriali, una reazione spontanea ai troppi anni di oppressione. Per questo, giudicare il suo cinema attuale come “scarico”, più borghese, prevedibile o quant’altro, è prima di tutto un fraintendimento nella comprensione delle istanze profonde di un cinema attento all’animo degli esseri umani messi in scena sullo schermo. Almodóvar racconta gli interstizi dell’animo umano travolti da passioni troppo ingombranti. Almodóvar racconta la Spagna in mutazione ed il Paese, guardandosi nei suoi film, ri-definisce la propria identità liberata.
È nel 1988 con Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi) che giunge la consacrazione a livello internazionale, coronata con una nomination all’Oscar e una lista interminabile di premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Un film che rappresenta a posteriori la punta più alta e luminosa del primo cinema del regista spagnolo, una perfetta fusione di tutte le sue caratteristiche peculiari, che – come già detto – altro non sono che la trasposizione cinematografica dello spirito della movida per mano del suo più talentuoso cantore. Una farsa degli equivoci, tragica ed esilarante, che corre ad una velocità ancora oggi incredibile. Nel 1989 dirige il melodramma ¡Átame! (Légami!), pellicola meno convincente delle precedenti ma che lascia intravedere forse un primo tentativo di abbassare i toni del proprio cinema, verso quello che poi sarà lo statuto classico del cinema di Almodóvar, per uscire dall’eccesso (annunciato) che andava legandosi alle aspettative che il suo touch generava (se nei decenni passati si parlava di un Lubitsch touch, con tutta evidenza noi dovremmo parlare di un Almodóvar touch). Tacones lejanos (Tacchi a spillo, 1991), un giallo ovviamente melodrammatico, ma pure musical, e Kika (Kika – un corpo in prestito, 1993), una corrosiva satira sulla tirannia della televisione, sono due pirotecniche pellicole che ancora respirano l’aria kitsch del primo decennio del cinema di Almodóvar e che impongono il suo nome nel panorama internazionale, forse confinandolo in una riserva di eccentricità che incomincia ad andargli stretta.
È infatti con il film successivo che il regista di Calzada de Calatrava dispiega per la prima volta, ed in maniera compiuta, la classicità del suo talento, confezionando un film che rappresentò per il pubblico, e per la critica, una mutazione forse inaspettata. La flor de mi secreto (Il fiore del mio segreto, 1995), pur mantenendo intatta l’eccentricità tragica dei suoi personaggi, in linea con la precedente produzione, evita di andare sopra le righe con il “solito” profluvio di elementi kitsch e barocchi, ma trova la propria elegia nella sottrazione degli eccessi, grazie ad una sceneggiatura tutta costruita per sottrazioni e molto più personale, più vicina alle reali radici autobiografiche del regista spagnolo.
Nel 1997 dirige Carne trémula, un melodramma sull’impossibilità di resistere alle proprie passioni ambientato a cavallo fra la fine del franchismo e gli anni della movida, un ritorno dunque nel cuore della sua poetica in cui appare oramai evidente la piena padronanza di ogni elemento cinematografico, a partire da una straordinaria sceneggiatura (che trae spunto dal romanzo Live Flesh di Ruth Rendell), unita ad una poderosa fotografia e ad un sapiente montaggio: un equilibrio raffinato di ogni sua parte che è già, a tutti gli effetti, cinema classico.
Il 1999 sarà per Pedro Almodóvar l’anno della consacrazione definitiva. L’anno di uscita di uno dei film più importanti degli ultimi decenni del cinema mondiale, Todo sobre mi madre, un capolavoro che è impossibile liquidare in poche battute per via della quantità e della qualità degli elementi in esso contenuto, e per l’intrinseca coerenza con la stessa storia, cinematografica e umana, del suo autore.
Nel 2000, dopo la Palma d’Oro dell’anno precedente come miglior regista per Todo sobre mi madre (presidente di giuria David Cronenberg), riceve l’Oscar per lo stesso film, a coronamento di un unanime successo mondiale di critica e pubblico. Nel 2002 esce nelle sale Hable con ella (Parla con lei), pellicola che si aggiudicherà l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, l’unica opera della sua filmografia interpretata da soli uomini: La mala educación (2004). Nel 2006 il suo cinema ritorna a coniugarsi al femminile con la tragicommedia Volver, un film tributo alle dive del cinema italiano con le ritrovate Penélope Cruz e Carmen Maura. Tre anni dopo, nel 2009, è la volta de Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati), una riflessione sul potere in ambito cinematografico, sui giochi di forza che regolano la produzione. Nel 2011 presenta a Cannes La piel que habito (trasposizione cinematografica del romanzo Tarantula di Thierry Jonquet al quale per un certo periodo lavorò nel 2002) un drammatico ed intricatissimo thriller che riporta il suo cinema alle origini provocatori degli anni ’80, un film manieristico ed eccessivo, barocco nella sua vertiginosa tessitura drammatica, una pellicola entro la quale il tema dell’identità, non solo sessuale, ha un ruolo centrale e in cui tutto su regge unicamente grazie alla maestria di una sceneggiatura pirotecnica. Un’opera che lo vede tornare a collaborare con due degli attori della sua amata famiglia cinematografica: Antonio Banderas e Marisa Paredes.
Almodóvar ha di frequente lavorato con gli stessi attori in più di un film, costituendo una specie di clan cinematografico capace di andare oltre l’industria e l’arte in celluloide, una rete di relazioni che prima di ogni altra cosa è amicizia e amore fraterno. Sul versante delle interpreti femminili spiccano cinque attrici su tutte: Carmen Maura, Penelope Cruz, Marisa Paredes, Victoria Abril e Julieta Serrano. Fra gli interpreti maschili più spesso utilizzati dal regista nel suo cinema spicca Antonio Banderas, che proprio grazie al folle estro creativo degli anni ottanta almodovariani ha saputo prendere slancio per una carriera da divo hollywoodiano (15).
Il cinema di Almodóvar nell’ultimo decennio ha mutato pelle divenendo esteticamente assai meno spigoloso e sovversivo, fatta eccezione per La mala educación – film scandalo ‘a priori’ per molti – un cinema che verrebbe da nominare classico e che sollecita lo sguardo cinefilo ma che, al contempo, ha saputo definirsi in tutta la sua unicità, in un dialogo fruttuoso con l’intera storia del cinema, soprattutto con quello da lui amato. Volver ad esempio (ri)porta in scena le donne del cinema italiano neorealista e post-neorealista (Anna Magnani e Sofia Loren su tutte) mentre Los abrazos rotos è (fra le molte cose) un omaggio al Viaggio in Italia di Rossellini.
Los abrazos rotos, tiepidamente accolto al Festival di Cannes (che lo vedeva in concorso), fu il detonatore per una serie di attacchi piuttosto duri nei confronti del regista, in particolar modo la stampa spagnola si prodigò in stroncature feroci, a tal punto aggressive che dal suo blog personale (pedroalmodovar.es) lo stesso Almodóvar ha avvertito la necessità di replicare entrando in polemica frontale con i critici cinematografici del País, Carlos Boyero e Borja Hermoso, accusandoli apertamente di avere nei suoi confronti un giudizio preconcetto, dettato dalla frustrazione della professione da loro praticata, e richiedendo un maggiore riguardo nei confronti del film, dei film, che dovrebbero essere giudicati in sé, senza condizionamenti esterni e fuorvianti.
Forse la vera marca autoriale, il solo elemento realmente costante nel cinema di Pedro Almodóvar, è il tema del doppio. Tutto è doppio nel suo cinema, ogni personaggio, luogo, accadimento, è quel che appare ma pure altro. Non è solo questione di identità sessuale, o di gemmazione interna ad un genere piuttosto che ad un altro. Forse questa natura duplice e molteplice del suo cinema nasce dallo statuto stesso del melodramma, un (macro)genere capace di contenere in sé qualsiasi cosa, che pone sempre al centro dello schermo l’essere umano nella sua molteplice essenza, colto nei momenti apicali delle proprie passioni. Freudianamente il cinema di Almodóvar è l’Io che nasce dalla dialettica fra l’Es ed il Super-Io, in cui ad imporsi non è il polo pulsionale della passionalità, l’Es caotico ed immorale, ma l’amore che da qualche parte riemerge dalle radici profonde dell’Io.
I melodrammi almodóvariani sono cinema che si offre allo spettatore da dietro una lacrima. •
Alessio Galbiati
NOTE
(1) Conversazione fra Frédéric Strauss e Pedro Almódovar in Frédéric Strauss, A coeur ouvert : Entretien avec Pedro Almódovar, Cahiers du cinéma, n°535, maggio 1999 (pag.36-40) ↑
(2) In P. Milne, Motion picture directing; the facts and theories of the newest art, 1922, cit. in “Positif”, 1976, 183-184, p. 5 ↑
(3) Massimo Marchelli, Melodramma in Enciclopedia del Cinema (2004), Treccani Editore | http://www.treccani.it/enciclopedia/melodramma_(Enciclopedia-del-Cinema)/ ↑
(4) Antonio Tabucchi in La grammatica del vivere, La Repubblica, 11 febbraio 2003 ↑
(5) Pedro Almodóvar in Vincente Ostria, Due chiacchiere con Pedro Almodóvar, Les Inrockuptibles, 1995 ↑
(6) Frase di Pedro Almodóvar rintracciata sul web ma per la quale è stato impossibile rintracciare la provenienza ↑
(7) Queste le parole di Pedro Almodovar concesse a Lynn Hirschberg per un’intervista pubblicata con il titolo The redeemer sulle pagine del The New York Times Magazine del 5 settembre 2004 ↑
(8) Pedro Almodovar in Lynn Hirschberg, The redeemer, The New York Times Magazine, 5 settembre 2004 ↑
(9) Virgolettato presente nella sezione biografica dedicata a P.A. del sito clubcultura.com. http://tinyurl.com/yzc9twf ↑
(10) Pedro Almodóvar in Vincente Ostria, Due chiacchiere con Pedro Almodóvar, Les Inrockuptibles, 1995 ↑
(11) Pedro Almodóvar in Vincente Ostria, Due chiacchiere con Pedro Almodóvar, Les Inrockuptibles, 1995 ↑
(12) Pedro Almodovar in Lynn Hirschberg, The redeemer, The New York Times Magazine, 5 settembre 2004 ↑
(13) In Italia sono state pubblicate alcune sceneggiature originali di Pedro Almodóvar, tutte edite dalla casa editrice Einaudi: Tutto su mia madre (2000), Parla con lei (2003), La mala educación (2004), Volver (2006). Sempre con lo stesso editore ha pubblicato nel 2004 Patty Diphusa e altre storie, una raccolta di articoli e scritti vari composti dal regista negli anni della movida. Patty Diphusa è invece un caotico racconto compiuto della burrascosa esistenza di Patty, che così si presenta all’inizio dell’opera: «La cosa più difficile per una persona come ME, che ha così tanto da dire, è iniziare. Mi chiamo PATTY DIPHUSA e appartengo a quel tipo di donne protagoniste dell’epoca in cui vivono. Il mio mestiere? Sex-symbol internazionale, o stella internazionale del porno, che dir si voglia. I miei fotoromanzi e alcuni film in super 8 sono stati venduti molto bene in Africa, in Portogallo, a Tokyo, a Soho e nel Rastro. Le mie interpretazioni erotiche, secondo i critici specializzati, contengono un che di non classificabile, qualcosa che mi rende unica, e che normalmente non appare in questo tipo di sottoprodotto. Alfonso Sánchez mi ha detto una cosa molto bella: Quando IO pratico una fellatio, lo spettatore si concentra solo sull’espressione dei miei occhi, e della mia bocca. In quanto IO, prima di tutto, e qualsiasi cosa faccia, sono un’attrice. Perché lo dovrei nascondere? E dirò di più, non solo possiedo un corpo che fa impazzire gli uomini, ho pure un cervello. Ma questo lo mostro solo ogni tanto. Non è bello con i cavalieri dimostrare che dietro a un aspetto da perfetta bambola tipo Barbie Superstar si nasconde un cervello di prima categoria!» ↑
(14) Ancora Pedro Almodovar in Lynn Hirschberg, The redeemer, The New York Times Magazine, 5 settembre 2004 ↑
(15) Carmen Maura (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, ¿Qué he hecho yo para merecer esto!!, La ley del deseo, Mujeres al borde de un ataque de nervios, Volver); Penelope Cruz (Los abrazos rotos, Volver, Todo sobre mi madre, Carne trémula); Victoria Abril (Kika, Tacones lejanos, ¡Átame!); Julieta Serrano (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, Entre tinieblas, Matador, Mujeres al borde de un ataque de nervios, ¡Átame!); Antonio Banderas (Laberinto de pasiones, Matador, La ley del deseo, Mujeres al borde de un ataque de nervios, ¡Átame!) ↑
Pedro Almodóvar
FILMOGRAFIA COMPLETA (1979-2011)
Filmografia completa dei lungometraggi diretti da Almodóvar dal ’79 al 2011, diciannove film in trentadue anni, riassunta con il minor numero di parole possibili.
La piel que habito (La pelle che abito)
Regia: P. Almodóvar. Scenegg.: P. Almodóvar dal romanzo Tarantula di T. Jonquet. Int.: A. Banderas, E. Anaya, M. Paredes, J. Cornet, R. Álamo, E. Fernández, J. L. Gómez, B. Suárez. Spagna/2011, 117′
Robert Ledgard è un brillante chirurgo plastico inventore di una tessuto cutaneo sintetico. Vive con una bellissima donna, segregata nella sua lussuosa abitazione, aiutato da Marilia, la sua governante. Il passato però tornerà a bussare alla sua porta in tutta la sua doppiezza ridestando traumi ed ossessioni e sconvolgendo ogni certezza – a partire da quelle dello spettatore.
Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: P. Cruz, L. Homar, B. Portillo, J.L. Gómez, T. Novas, R. Ochandiano. Spagna/2009, 127′
Matteo Blanco è un regista che da quattordici anni ha smesso la professione a causa della cecità occorsagli a seguito di un incidente nel quale è pure deceduta la sua amatissima compagna. Da quell’epoca vive con lo pseudonimo di Harry Caine, scrive romanzi e sceneggiature, ma soprattutto ha cancellato ogni ricordo e consapevolezza della sua vita passata. Quando il figlio della sua fedele collaboratrice Judit avrà un incidente egli tornerà a raccontare la sua storia, raccolto al capezzale del giovane.
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Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: P. Cruz, C. Maura, L. Dueñas, B. Portillo, Y. Cobo. Spagna/2006, 121′
Il vento soffia per le strade e nei piccoli cimiteri della Mancha, un vento che provoca incendi e rende la gente pazza. Fra la periferia di Madrid e il borgo dove nacque, Almodóvar canta il suo nostalgico tango del passato che ritorna e della forza di vivere.
La mala educación
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: G. García Bernal, F. Martínez, D. Giménez Cacho, J. Cámara, L. Homar, F. Maestre. Spagna/2004, 106′
Noir melodrammatico al maschile, la mala educación del titolo è un racconto che prende spunto dalla biografia del regista per narrarci le vicende dolorose e drammatiche di tre uomini alle prese con i conti presentati dal passato.
Hable con ella (Parla con lei)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: J. Cámara, D. Grandinetti, L. Watling, R. Flores, M. Fuentes, G. Chaplin, C. Veloso, R. Álvarez, E. Anaya, L. Dueñas, C. Lampreave. Spagna/2002, 112′
Primo film di Almodóvar dove protagonisti sono gli uomini. Il coma, luogo di sospensione fra vita e morte è il motore attorno al quale si muovono le storie raccontate in questa pellicola. “Niente è semplice nella vita” dice Geraldine Chaplin alla fine del film.
Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Roth, E. Azorín, M. Paredes, P. Cruz, A. San Juan, F. Fernán Gómez. Spagna-Francia/1999, 100′
Il capolavoro assoluto di Almodóvar dove tutti gli elementi del suo cinema sono riuniti in un mix perfetto. Dai titoli di testa ai titoli di coda si rimane sbalorditi dalla meraviglia che è la vita (della meraviglia che è il cinema). Lo scrittore Guillermo Cabrera ha scritto su El País all’epoca del trionfo del film a Cannes: «Todo Sobre mi madre potrebbe avere come motto la celebre frase di una donna, Madame de Staël: “Capire tutto è perdonare tutto”. Questa è la filosofia di Pedro Almodóvar».
Carne trémula (Carne tremula)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar, dal romanzo Live Flesh di Ruth Rendell. Int.: J. Bardem, F. Neri, A. Molina, P. Cruz. Spagna/1997, 106′
Celebrazione della fisicità e della sensualità, esaltata dal momento solenne e misterioso della nascita, che può avvenire su un taxi in corsa attraverso una Madrid natalizia tinta di rosso.
La flor de mi secreto (Il fiore del mio segreto)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: M. Paredes, J. Echanove, C. Lampreave, R. de Palma. Spagna/1995, 111′
La sofferta presa di coscienza di una scrittrice di romanzi rosa in difficoltà professionale e in crisi sentimentale è al centro di un melodramma depurato dai fiammeggianti eccessi della prima maniera.
Kika (Kika – un corpo in prestito)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: V. Forqué, V. Abril, N. Pierce, P. Coyote, A. Casanovas. Spagna-Francia/1993, 102′
Un collage di storie trucide, quelle di cui va in caccia la ex psicologa e ora reporter cyberpunk Andrea per trasmetterle nel suo reality-show televisivo. Amarissima satira sui mass-media all’insegna dell’eccesso, del Kitsch.
Tacones lejanos (Tacchi a spillo)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: V. Abril, M. Paredes, M. Bosé, B. Andersen, F. Atkine. Spagna-Francia/1991, 113′
Melodramma ricco di colpi di scena che ruota intorno ad un’ambigua indagine il cui vero protagonista è il morboso rapporto di odio-amore fra una madre e una figlia.
¡Átame! (Légami)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: V. Abril, A. Banderas, F. Rabal, J. Serrano, A. Almódovar. Spagna/1989, 100′
Assetato di affetto dopo anni di clinica psichiatrica, Ricki sequestra la pornostar di cui è innamorato per convincerla a sposarlo. Un film romantico e dolcemente pop, lucido nei suoi sentimenti cristallini e nei suoi colori smaltati, che nell’elegante stravaganza già vira verso un cinema più classico.
Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Maura, J. Serrano, A. Banderas, R. de Palma. Spagna/1988, 95′
Storie di donne abbandonate nella Madrid dell’altro ieri. Una rivelazione, una bomba cromatica che esplose nel cinema europeo anni Ottanta, la declinazione più irresistibile del postmoderno: una commedia degli equivoci a cavallo fra Billy Wilder, il vaudeville francese e l’estetica della pubblicità e del rotocalco rosa.
La ley del deseo (La legge del desiderio)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Maura, E. Poncela, A. Banderas, B. Andersen. Spagna/1987, 106′
L’amore di un regista per due giovani ragazzi e le passioni fiammeggianti di un transessuale interpretato da Carmen Maura. Un omicidio, un sequestro e molte ossessioni nel primo (timido) successo internazionale di Almodóvar. Da segnalare i meravigliosi titoli di testa.
Matador
Regia: P. Almodóvar. Scenegg.: P. Almodóvar, J. Ferrero. Int.: A. Serna, A. Banderas, N. Martínez, E. Cobo. Spagna/1986, 110′
Diego, ex torero sospettato di alcuni omicidi, intreccia una torbida relazione con Maria, avvocatessa che ha ucciso l’amante secondo il rituale della corrida. Fra loro il fragile Angel, omosessuale votato al martirio. Il binomio di amore e morte è il centro di un perverso melodramma sulla corrida dove gli esseri umani sostituiscono i tori.
¿Qué he hecho yo para merecer esto!! (Che ho fatto io per meritare questo?)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Maura, A. de Andrés Lopez, C. Lampreave Spagna/1984, 102′
Gruppo di famiglia in un interno popolare madrileño. Riflessione su consumismo e falsa morale sui toni del grottesco.
Entre tinieblas (L’indiscreto fascino del peccato)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Sánchez Pasqual, J. Serrano, M. Paredes. Spagna/1983, 114′
In un convento di suore l’arrivo di Yolanda, una cantante di night-club, è salutato come un segno della provvidenza, e la madre superiora si innamorerà di lei. Almodóvar è qui domatore ancora incerto d’un circo iconoclasta popolato di suore lesbiche, masochiste e dedite alle droghe.
Laberinto de pasiones (Labirinto di passioni)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Roth, I. Arias, H. Liné, A. Banderas. Spagna/1982, 100′
Il folgorante incontro fra Sexilia, cantante rock ninfomane che non sopporta la luce del sole, e un giovane gay, star della movida madrileña.
Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (Pepi, Luci, Bom e le altra ragazze del mucchio)
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Maura, E. Siva, O. Gara Alaska. Spagna/1979, 16mm, 80′
Primo vero e proprio lungometraggio di Almodóvar, girato con molto entusiasmo e pochi mezzi, in cui una vicenda scabrosa diventa il pretesto per una vertiginosa e colorata ammucchiata di storie e bizzarri personaggi.
Folle… folle… fólleme Tim!
Regia e scenegg.: P. Almodóvar. Int.: C. Maura, P. Almodóvar Spagna/1979, 8mm, 90’
Una ragazza di umili origini, occupata presso un grande magazzino, è fidanza con Tim, un ragazzo cieco che sogna di diventare un grande chitarrista. Il coronamento del suo sogno comporterà la cecità della ragazza.
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