“Escort Girl” di Edward E. Kaye (1941)

Nel cinema sexy, porno, (s)exploitation che a dir si voglia, anche d’epoca, come in questo caso, la componente moralistica (non morale) è sempre al diapason, generatore rovente di vapori tanto più forti quanto creduti aborriti. A raffreddata distanza, al riparo dal calore suscitato, ma non dall’emotività di un secondo grado a malapena dissimulato e ancora più hot, il genere rivela un intrico endoscopico di inconsci singoli in quanto collettivi, il quid e lo squid della mentalità tuonante, quella che censura e autocensura.

In altre parole, c’è in mostra l’interiorità del moralista, il suo stretto contatto con l’oggetto e le fantasie delle sue esternazioni, il labile confine tra l’anelare e lo sfuggire, segno di desiderio e del suo occultamento, che il cinema costeggia, traveste, trasforma, restituisce, dandogli una narrazione e delle forme visibili, eccentrico saltello della libido. Se poi il film in questione è stupido, cioè a immagine riflessa di uno spettatore qualsiasi, si hanno, parola di Wittgenstein, sorprese maggiori perché non meditate, l’essenza di un pronunciamento parlato attraverso stereotipi e situazioni, posizionamenti di macchina e battute-lapsus.

In Escort Girl, produzione Continental Pictures (?), budget basso, scenografie essenziali, attori decaduti o mai emersi, plot di semplicità estrema (a cura di David e Ann Alperin, uomo e donna: coniugi? congiunti? omonimi?), esecuzione piatta di Eddie Kaye e prevedibilità quasi geniale, la chiave di lettura è quella che vede la brava, paffuta e tutta puntuta ragazza June Ashley (Margaret Marquis) ritrovarsi, suo malgrado, nelle vesti di prostituta, incubo bagnato del futuro sposo, suo clone al maschile, Drake Hamilton (Robert o Bob Kellard), bisteccone rigido e investigatore speciale incaricato di sgominare la prostituzione, di difendere l’America (Defend America! urla, enfatico, il flano del film).

È tutto un equivoco, certo, ma Drake perde le staffe, non crede ai suoi occhi e insulta, mentre June piange offesa e fugge via, urlando odio e sdegno. Voluttuosa messa in scena, non distante dalla morte o dai morbi dell’eroina sfortunata nei film romantici, vittimista love story attizzata dal contrasto buio, sana perversione di ricongiungimento dark. Oppure materializzazione nuda e cruda delle mie desiderate paure: la mia fidanzata è una puttana, il mio sposo è un orco (o un porco), senza tacere l’estensione a tutto il genere (femminile e maschile), e allargando, come nel caso di specie, il conflitto al nodo edipico con la madre bestia mia rivale. Priva di qualsiasi rielaborazione autoriale, solo una massa gassosa di archetipi compenetrantisi in un catalogo di esemplare nudità, più nuda dei castigati nudi presenti (siamo nel ’41!).

C’è pure qualcos’altro: il desiderio sfrontato di apparire sfrontata, sogno teen anche per teen attempati o di tutte le età, se non addirittura il desiderio proibito di passare dall’altra parte, escort per un giorno, oltre lo specchio delle porno meraviglie, wonderland per adulti, che il film ridimensiona o controbilancia nella situazione lady for a day riservata invece alla madre della ragazza, Ruth.

Si tratta della quarantaquattrenne Betty Compson, starlet del muto, Lola Montez (sic!) nel ’26 (The Palace of Pleasure), che nello stesso anno di questo film farà una particina nell’hitchcockiano Il signore e la signora Smith. Qui è la maîtresse del bureau costretta a recitare il ruolo opposto della brava donna e brava madre. D’altronde è lei, con il suo sporco lavoro, gestito in tandem con l’unto e untuoso Gregory Stone (Wheeler Oakman, caratterista villain ricorrente) che ha potuto tirar su a college esclusivi la sua figlia perbene, adesso in arrivo trionfale in città col cotanto pezzo grosso, fisico e sociale, di fidanzato da presentare. Il meccanismo affaristico, sia pure a fin di bene, adombra le rotelle capitalistiche, sempre sporche eppur luccicanti, proprio come nei film di Frank Capra, e artefici di ruoli capovolti. Travestimenti, infingardaggini, equivoci fatali e letali. Lo «spettacolo» della vita quotidiana, un’incessante skeleton dance.

Pure da questo versante, il filmetto perlustra l’inconscio conscio dell’homo americanus, le sue intuizioni e le sue omertà. Non è un caso che l’ufficio che gestisce la compravendita del piacere, specchio scuro di un night legale di copertura, ma altrettanto laido, sia proprio un’efficiente e trasparente proiezione dell’attività del Capitale, il sogno inscatolato (qualsiasi sogno, qualsiasi scatola) a portata di mano e di dollaro, organizzato per piani gerarchici. La telefonista Gay Seabrook (la madre di Spanky in un paio di short della serie Our Gang) risponde buffa e cortese, stabilendo ammontare e modelli, persino l’offerta di escort boys per anziane lussuriose quanto ricche. Qualche ragazza chiede di parlare personalmente col boss, affinché lo stesso possa valutare eventuali altri doti (d’ufficio?). L’esaminatore assicura che trattasi di lavoro serio, si ha a che fare con dei gentlemen. La rivedremo, poi, abbastanza cotta e ubriaca aggirarsi e lamentarsi nel night.

Stabilito il tono familiare della vicenda, anche nelle denegate connotazioni oscure della vita regolare, il film avanza imperterrito nel voyeurismo composto di situazioni ravvicinate: il dialogo canzonatorio tra la vecchia gaudente e il suo giovane escort, che riproduce una tipica gag dove il malcapitato ammicca ironico allo spettatore («guardate un po’ cosa mi è capitato…»), salvo diventare serio e sorridente quando la maliarda gli rifila l’ammontare cash dello sforzo, lurido ma giustificato in virtù del denaro elargito. La vecchia è particolarmente eccitata da un ballo ispanico, ha la funzione di veicolare, senza connotazione sessuale, l’estro dello spettatore maschio nei confronti della danzatrice.

In una camera da letto, un gruppo di escort svestite, con immancabile spogliatoio e specchio moltiplicatore di immagini sexy, come in un luna park dell’eros, si raccontano le proprie esperienze. Una di loro, quella che pretendeva di parlare con il capo, esibisce lividi e morsi di un cliente troppo ardente. Sadismo e masochismo, distanza fuggita dal tema e contemporaneamente succulento avvicinamento emozionale.

Più gratuito ancora, ma autentica sostanza narrante del film (laddove il plot principale svolge una mera funzione pre-testuale), il numero col cliente alcolizzato, ruolo consueto di Arthur Housman, ubriacone delle comiche di Stanlio e Ollio e dei western di serie C, qui in uno dei suoi ultimi film (morirà l’anno dopo) che, dopo essere inciampato in una pianta da cui non riesce a staccarsi («lost in a jungle», dirà la ragazza a cui lui aveva chiesto di sedersi con lui al tavolo), si precipita di fronte a un video-jukebox a gettoni, da cui fa partire uno strip-tease, mostrato a tutto schermo (interpolato?), che va ben oltre i canoni del rappresentabile anni ’40. Goffaggine della ballerina e della messa in scena diventano invisibili rispetto al generoso mostrato: seni coperti da telline luminose e una mutanda per l’epoca succinta su corpo longilineo e flessuoso.

Dopo la storia procede telefonata, senza entusiasmo, verso l’agognato giustizialismo sterminatore delle proprie pulsioni spostate democraticamente su altri soggetti. In una colluttazione col detective, il boss cattivo cade da un piano alto, stramazzando al suolo, non prima però di aver fatto partire un colpo che non può che raggiungere, casualmente ma provvidenzialmente, l’altra vergogna, benché generosa, della storia: quella mamma Ruth che, se non fosse accaduta la disgrazia, avrebbe dovuto o pentirsi, o affrontare la questione bordello-Capitale. Sarebbe stato un altro film, assai meno arrapante. •

Leonardo Persia

 

 

ESCORT GIRL
Regia: Edward E. Kaye • Soggetto, sceneggiatura: David Halperin, Ann Halperin • Fotografia: Jack Greenhalgh • Montaggio: Holbrook N. Todd • Produttore: J.D. Kendis • Interpreti: Betty Compson (Ruth Ashley), Margaret Marquis (June Ashley), Robert Kellard (Drake Hamilton), Wheeler Oakman (Gregory Stone), Guy Kingsford (Breeze Nolan), Gay Seabrook (Maizie), Isabel La Mal (Snuggles), Arthur Housman (Al), Rick Vallin (Jack), Mary Daily (Blondie), Kathryn Keys (Rita) • Produzione: Continental Pictures • Rapporto: 1.37:1 • Formato: 35mm • Paese: USA • Anno: 1941 • Durata: 68′



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