“Il senso della morte era un’ossessione. In certi momenti il sentimento della morte era così forte che non riuscivo più a mangiare e a dormire.”
Per un regista come Elio Petri, personalità poliedrica e complessa, difficilmente liquidabile come un semplice “regista” di film, le ossessioni personali, le disillusioni verso un mondo che stenta a riconoscere e a riconoscerlo, prendono forma attraverso concetti scritti in ordine sparso come fossero degli appunti: la paura della morte, la depressione latente, e le perplessità di fronte a una realtà storica che ha tradito le aspettative rivoluzionarie, si condensano in un magma difficilmente penetrabile, così che solo l’abbandono ad una sgradevolezza programmata può dare e dargli quelle risposte tanto agognate. “Per fare un film bisogna avere, oggi molta follia e molto amore per il cinema. E questo è probabilmente l’unico aspetto positivo della faccenda”. Nell’ultimo periodo della sua vita (verrà stroncato da un tumore all’età di 53 anni il 10 novembre 1982), il regista, si trova stretto in un vicolo cieco in cui le pareti dell’incomunicabilità da un lato e della paura della morte dall’altro, stritolano la sua ispirazione facendo emergere solo il malessere e la sofferenza dell’artista. Ecco allora che il cinema deve prendere strade diverse: non più metafora ma analisi esistenziale, non più dinamismo della messa in scena ma staticità (debordante del primo piano), non più ricerca del successo ma riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato, come è quello della vita di coppia. Il film Buone Notizie, o meglio, come recita il titolo alternativo, La Personalità della Vittima, diretto nel 1979 è un film-testamento, in cui malattia, depressione, senso di inadeguatezza e paura della morte, si sovrappongono e si traslano, passando dalla mente dell’autore alla pellicola impressionata.
L’insuccesso e le feroci critiche dei colleghi durante le Giornate del Cinema Veneziano del 1973 (il Festival venne temporaneamente abolito e le proiezioni vennero fatte in piazza e con carattere pubblico) per il film La Proprietà non è più un furto e il susseguente fallimento dell’apologo politico e profetico (Moro viene ucciso nel finale del film) Todo Modo del 1976, provocano in Petri una profonda disillusione verso le potenzialità espressive e comunicative del mezzo cinematografico, portandolo all’esasperazione del pessimismo (da sempre presente nel suo cinema) e ad una visione della realtà sempre più astratta e metafisica in cui l’unica risposta possibile sembra essere quella dell’abbandono alla follia. Questa ricerca trova compimento nel film Buone Notizie in cui attraverso un umorismo macabro e mortifero, una recitazione nevrotica e sovraeccitata ed un’esasperazione cromatica e pittorica, il regista tende a raffigurare la condizione assurda dell’essere umano, imprigionato nella gabbia del benessere e anestetizzato nei sentimenti. La nevrosi sessuale, la ritrosia verso la responsabilità, l’assuefazione alla violenza e la ricerca di un comportamento infantile, convivono in un paesaggio urbano sommerso dalla sporcizia, squassato dall’urlo delle sirene, percorso da un’infinità di schermi televisivi, dando vita ad una apologo sociale e morale sul processo, irreversibile, di autodistruzione che ha contaminato la società. Le “buone notizie” del titolo, sono evidentemente la cornice ghignante e stridente in cui è raffigurato il cittadino-medio: notizie di morte, di attentati, di allarmi bomba, di animali morti a causa dell’inquinamento; immagini di funerali, di cadaveri, di animali sgozzati e dei bambini del Biafra; racconti di violenze politiche, familiari e sociali, espresse tutte e indifferentemente dal volto sorridente della presentatrice del telegiornale. Ella racconta con distacco e con cinismo storie torbide e violente, incorniciate in immagini frigide, in una coazione a ripetere che non ammette stacchi, destabilizzando il cervello dello spettatore, minacciandone la sanità mentale, per immergerlo in una confusione (anche dei ruoli) che è totale, con l’intento di stimolarne la paura per indurlo a limitare la propria libertà e a consumare di più. Per questo durante la colazione, l’uomo rivolto alla moglie afferma: “Io non capisco perché cazzo noi due continuiamo a stare insieme. Figli non ne vogliamo per non mettere al mondo altri infelici. Rapporti sessuali…squallidi e casuali. Sussiste soltanto il problema di come spartirci i beni materiali, perché sono dispari: tre, frigorifero, televisore e giradischi”. Nell’identificazione dei tre simboli del benessere, cioè cibo, immagini e divertimento, come unico elemento di unione tra i coniugi, c’è l’evidente volontà del regista di mettere in mostra l’incapacità dell’uomo nel razionalizzare quanto sta accadendo. Buone Notizie è un film ferocemente pessimista dipinto come un affresco ambiguo e surreale (debitore del cinema di Buñuel) ambientato in una Roma irriconoscibile, minacciosa e decadente, straziata e violentata dal consumismo i cui resti immondi marciscono ai piedi di monumenti millenari e popolata da una serie di personaggi nevrotici che si esprimono con un linguaggio frantumato e incomprensibile, pervaso da una vena di malinconico sarcasmo.
Un anonimo funzionario (Giancarlo Giannini) di una società televisiva romana, sposato con l’insegnante Fedora (Angela Molina), trascorre le sue ore di lavoro guardando i sei televisori installati nel suo ufficio, che trasmettono soltanto notizie di attentati e disgrazie varie, e affliggendosi per il suo scarso successo con le donne. Un giorno ritrova, dopo quindici anni, un vecchio amico Gualtiero Milano (Paolo Bonacelli). L’uomo è convinto di avere alle calcagna nemici misteriosi decisi ad ucciderlo. Dopo un incontro con Ada (Aurore Clement), la moglie di Gualtiero, l’uomo a malincuore convince l’amico a farsi ricoverare in una clinica per la cura delle malattie nervose, ed è proprio lì dentro che Gualtiero viene ucciso.
Il protagonista è senza nome, perchè è un archetipo, un cittadino comune, uno oscuro funzionario televisivo, di cui non si capisce, neanche troppo bene quale sia il suo compito: un uomo seduto davanti ai suoi televisori, che a fatica mantiene la sua autonomia di robot professionale, ma anche un dipendente confuso, intriso di paure (del buio, del sesso), alla costante ricerca di un angolo di tranquillità (rappresentato dal tramonto). Un uomo, ossessionato dal tempo che passa e terrorizzato dalla possibilità di morire, evocata sin dalle prime inquadrature, quando durante il black-out dice: “Guarda qua, sembra una tomba, un sepolcro…”. Nel suo ufficio sulla parete di destra c’è Guernica, il quadro di Pablo Picasso simbolo dell’orrore provocato dalla guerra, ma egli è vittima-colpevole di una società che si autodivora, senza lasciare più spazio né ai sentimenti né alle relazioni umane, ecco perché, ritiene pazzo, l’amico Gualtiero, che ripresentandosi dopo quindici anni gli confessa che qualcuno vuole ucciderlo. Senza cercare di capire le ragioni di questa sua preoccupazione egli opta tacitamente per la scelta decisa dalla moglie: Gualtiero è pazzo, dunque bisogna rinchiuderlo in una clinica. Il funzionario abbozza una relazione con la moglie di Gualtiero, destinata a naufragare in un amplesso incompiuto a causa dei pensieri che animano entrambi: il giudizio (“ma guarda cosa sta facendo questa troia”) e l’ossessione per il corpo pulito e perfetto (“avrà il tartaro sui denti, guarda quanti peli ha nel naso”, dice lei), sono i prodotti derivativi della pubblicità che annullano e cancellano la passione così come l’ebbrezza del tradimento. Tutto ormai è diventato troppo asettico per essere comprensibile, anche nei rapporti privati, in attesa della puntuale (forse evocata) “buona notizia”: Gualtiero è morto e il telegiornale mostra la ricostruzione dell’ipotetico percorso dell’assassino.
Ma la vera ossessione, e tabù dell’uomo moderno, è ancora quella del sesso, così come esplicato dalla domanda posta dal funzionario alla sua collega Tignetti, invitata ad esprimere un giudizio sul suo membro, e poi interrogata: “Io, Tignetti, prima di morire vorrei solo sapere perché non piaccio alle donne”, mentre l’uso disinvolto e consuetudinario della volgarità è una necessità per apparire forti e per difendersi dal giudizio degli altri, per allontanare da sé ogni debolezza e ogni emozione: “Ho bisogno della trivialità… per difendermi…forse…dalla spiritualità”. Il finale del film, è ancora pieno di domande, che compaiono sotto forma di biglietti, contenuti in una busta: biglietti mortuari, su cui è scritto “Da non aprire”. All’orrore quotidiano dunque, nella visione di Petri, non c’è fine: l’uomo moderno è sprofondato in un abisso di mercificazione che non risparmia niente e nessuno, e quei biglietti, con su scritto “Da non aprire” appaiono tanto gli antenati delle mail o degli sms, cioè dell’incomunicabilità eletta a sistema di vita, della mancanza di contatto fisico e vocale come forma di autodifesa e de-responsabilizzazione. Forse l’unica risposta possibile è quella della follia di Gualtiero, un romantico capace di coinvolgere l’amico in un valzer improvvisato e scoordinato (in una scena struggente e malinconica) ballato sull’orlo dell’abisso, mentre in una frase sintetica e profonda afferma la verità che più nessuno vuole sentire: “Noi crediamo di continuare a ballare, invece strisciamo… come vermi”.
Buone Notizie, film-testamento di Elio Petri, contiene città sommerse dalla spazzatura, una volgarità dilagante ed esibita, un susseguirsi di episodi di cronaca nera, l’acuirsi dell’insicurezza delle persone, i continui allarmi-bomba (con cui viene puntualmente evacuato il palazzo della tv), una famiglia disgregata e assente, l’incomunicabilità eletta a sistema di vita, la ricostruzione televisiva di fatti di sangue: sembra girato in questi giorni, in realtà Petri, come tutti i grandi aveva già capito tutto prima che tutto accadesse. Buone Notizie è un film dimenticato, sottovalutato e maltrattato dalla critica, irreperibile (se non per una vecchia registrazione satellitare), appartiene di diritto a quelle opere in grado di dividere il pubblico, di suscitare il dibattito, di interrogare (criticamente) lo spettatore. Un cinema, rischioso e provocatorio, di cui ci sarebbe assoluto bisogno, compresso in un film che ad una prima visione può sembrare approssimativo, e sovraeccitato, ma che in realtà è una delle più lucide analisi di una società al collasso, mentre l’asfissia si sta ancora diffondendo.
Fabrizio Fogliato
Le citazioni di Elio Petri sono tratte dal documentario Elio Petri. Appunti su un autore di Federico Bacci, Nicola Guarneri, Stefano Leone, Italia 2005
BUONE NOTIZIE
(Italia/1979, 110′)
Regia, soggetto, sceneggiatura: Elio Petri
Direttore della Fotografia: Gigi Kuveiller
Scenografia: Amedeo Fago, Franco Velchi Pellecchia
Costumi: Barbara Mastroianni
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Musiche: Ennio Morricone
Produzione: Elio Petri e Giancarlo Giannini
Interpreti principali: Giancarlo Giannin, Angela Molina, Aurore Clement,
Paolo Bonacelli, Ombretta Colli, Ninetto Davoli
Immagini da www.eliopetri.net
Buone notizie finalmente su questo film: dal 24 Gennaio “Buone notizie” uscirà in DVD. Tra i contenuti speciali un’intervista a Giancarlo Giannini!