LOST IN THE JUNGLE
a cura di Leonardo Persia
Giungla come inconscio, rovescio del vivere «civile». Lo stesso che nella foresta di Bambi o Biancaneve, luoghi d’iniziazione e rinascita animale, in fuga dall’essere umano. Mowgli de Il libro della giungla, allevato da lupi che smentiscono Hobbes, perché umani troppo umani, rifiuta proprio l’uomo (a una dimensione) in sé. Come corpo liquido stratificato si mimetizza nei millepiani animali della giungla. Ora lupo, poi orso, o elefante o serpente e persino «avvoltoio onorario». Il primo film postumo di Disney (che continuerà a vivere attraverso il marchio), l’ultimo personalmente prodotto, s’inchina a Dioniso, lui pure allevato e avallato da forze altre della natura ed emblema del corpo spezzettato. Vivendo, come tutto Disney d’altronde, di molecolari scambi di ruoli e identità, pienamente riflessi fuori dallo schermo. Siamo a cavallo del ’68 e della nuova Hollywood, lo attestano pure i tratti grafici essenziali e meno tondi del cartone, più hippie e a basso consumo. Lo score è jazz e Mowgli un capellone. Il «viaggio lungo e faticoso» kiplinghiano alla ricerca del proprio Sé viene messo in dubbio, precipitato subito in un’avventura ironica e onirica, poco rispettosa.
Il «cucciolo d’uomo» snobba e rigetta quanto sancito da Baghera, pantera «saggia» assai lontana dal coevo Black Panther Party, portavoce di quella cultura-legge secondo cui è necessario abbandonare la giungla per raggiungere il villaggio degli uomini. La scimmia nuda deve vestirsi (per uccidere?). A Mowgli viene così negata ogni unione contronatura. «Ma tu la sposeresti un pantera?» chiede scandalizzata proprio la pantera (!) all’orso Baloo, «stupido e irresponsabile fannullone» a suo dire, perché vive di sogni senza pregiudizi, nonché guida (im)morale del piccolo contro l’ordine costituito.
Il vituperato e incompreso antropomorfismo animale disneyano si rivela tutt’altro che ingenuo. In realtà questa sua giungla è abitata da uomini, nascosti da pelli d’animali, vittime di un sortilegio. Un villaggio di (con)dannati. L’autentico alien, meno uomo di tutti è proprio Mowgli, incurante del suo esser bipede. Più naturale delle bestie costrette e corazzate da quelle pelli conformiste davvero contronatura. Per esempio, gli elefanti militari, irregimentati goffamente da Hathi, confusionario e disordinato, che predica però, come nelle nostre giungle, ordine e disciplina, titoli e pensiero unico («Le manovre prima di tutto!»). Per fortuna il colonnello macho è smentito, oltre che da sé stesso, dal figlio ribelle e da Gwendolyn, la moglie femminista. In questo umano bestiario qualcuno si salva. Non tutti sono tigri avide. O serpenti Kaa, nella cui capacità di ipnotizzare si riconosce già il potere seducente e diabolico del mezzo televisivo.
Ci sono pure le scimmie, assai di moda in quegli anni. Esprimevano il rimosso dell’uomo, il suo lato bandito. Una mostruosa naturalità, oscenamente esibita a Woodstock ’69 o Parco Lambro ’76, luoghi non zoofobi dove le scimmie scorazzavano libere. La paura del pianeta delle scimmie, dell’immaginazione al potere, scatenava gli anticorpi scientifici di Desmond Morris, che in un famoso testo di etologia coevo, sentenziava che non saremmo arrivati mai a una società di love & peace, tutta colpa degli antenati scimpanzé. E incalzavano film di mostri come Tropis (’70) dove gli scimmioni erano equiparati alle Black Panthers e a tutti i contestatori.
Le scimmie di Disney, più che ai dettami sessantottini, si rifanno ai dogmi dello spreco e dell’insoddisfazione. Sono finite nella concrete jungle urbana del piccolo piteco rosselliniano di India (1959) e come quello smarrite, confuse e senza più identità. I wanna be like you, voglio essere come te, canta, rivolto a Mowgli, il re scimpanzè, doppiato da Louis Prima. Brama il fuoco, ansioso di scoprire, prima delle scimmie di Kubrick, il monolito dell’infelicità. L’autentica ribellione, quindi la vera scimmia, è rappresentata dall’orso Baloo, simbolo della natura consapevole e serena che intona al contrario un motivetto contro il consumismo (The bare necessities, lo stretto indispensabile). Disney non categorizza, reinventa.
Anche quando svela la passività vitellonesca degli avvoltoi, usciti da una striscia di Robert Crumb o da un film di Nanni Moretti sul ’77. Il ’68 disneyano è lungimirante come quello di Wakamatsu, scavalca il proprio orizzonte temporale e sa già che a trionfare sarà la cultura del fuoco, quella attraverso la quale Mowgli estirpa il male in sé, la tigre Shere Khan. Quel fuoco che, subito dopo spento dall’acqua purificatrice, avvia la nuova dimensione antropologica del focolare. A sancire esplicitamente il passaggio dalla natura selvaggia a quella umana. Il burattino senza organi e senza fili Pinocchio/Mowgli è pronto allora per diventare il bambino buono.
Dopo aver conosciuto (rimosso) il male/tigre e la morte (difatti falsa: di Baloo), il trait d’union fra natura e cultura si concretizza nel viso lezioso e sexy della bella portatrice d’acqua che ammalia l’ex contestatore e lo porta nel temuto, e infine accettato, mondo degli uomini. In un lieto fine cupo, la pantera Baghera ammicca vittoriosa all’orso figlio dei fiori perplesso. Il tradizionalismo assennato ha prevalso sulla filosofia anti-establishment. È la cacciata dal paradiso (dalla giungla). La danza di chiusura dell’orso e della pantera finiscono per suggellare il compromesso danzante del nostro tempo. O forse, in una dimensione onirica e virtuale, oggi più concreta che mai, la vittoria dell’(a)normalità. •
Leonardo Persia
The Jungle Book (Il libro della giungla)
Regia: Wolfgang Reitherman • Soggetto: Rudyard Kipling (1ª ed. 1894) • Sceneggiatura: Larry Clemmons, Ralph Wright, Ken Anderson, Vance Gerry, Bill Peet • Montaggio: Tom Acosta, Norman Carlisle • Animatori: Milt Kahl, Ollie Johnston, Frank Thomas, John Lounsbery, Hal King, Eric Cleworth, Eric Larson, Fred Hellmich, Walt Stanchfield, John Ewing, Dick Lucas • Scenografie: Don Griffith, Basil Davidovich, Tom Codrick, Dale Barnhart, Sylvia Roemer • Sfondi: Al Dempster, Bill Layne, Ralph Hulett, Art Riley, Thelma Witmer, Frank Armitage • Effetti speciali: Dan MacManus • Musiche: George Bruns • Tema musicale: Lo stretto indispensabile di Terry Gilkyson • Produttore: Walt Disney • Doppiatori (versione originale): Phil Harris (Baloo), Sebastian Cabot (Bagheera), Bruce Reitherman (Mowgli), George Sanders (Shere Khan), Sterling Holloway (Kaa), Louis Prima (Re Luigi), J. Pat O’Malley (Colonnello Hathi, Buzzie), Verna Felton (Guendalina Hathi), Clint Howard (Figlio del colonnello Hathi), Chad Stuart (Flaps), Lord Tim Hudson (Dizzy), Digby Wolfe (Ziggy), John Abbott (Akela), Ben Wright (Rama), Darleen Carr (Shanti), Leo DeLyon (Flunkey), Hal Smith (Elefante sciattone, Scimmia) • Doppiatori (versione italiana): Pino Locchi (Baloo dialoghi), Tony De Falco (Baloo canto), Corrado Gaipa (Bagheera), Loris Loddi (Mowgli dialoghi), Luigi Palma (Mowgli canto), Carlo D’Angelo (Shere Khan), Sergio Tedesco (Kaa), Lorenzo Spadoni (Re Luigi), Luigi Pavese (Colonnello Hathi), Lydia Simoneschi (Guendalina Hathi), Sandro Acerbo (Figlio del colonnello Hathi), Carlo Romano (Buzzie), Bruno Persa (Flaps), Gino Baghetti (Dizzy), Oreste Lionello (Ziggy), Manlio Busoni (Akela), Luciano De Ambrosis (Rama), Amalia De Rita (Shanti) • Produzione: Walt Disney Productions • Suono: Mono • Rapporto: 1.37:1 • Colore: Technicolor • Negativo: 35mm • Lingua: inglese • Paese: USA • Anno: 1967 • Durata: 78′
Mi accorgo solo ora che, pur avendolo visto una decina di film (con i miei figli), non ho mai visto tutto ciò in questo film. lo sguardo di Leonardo Persia oltrepassa lo schermo e va lontano.
Andare lontano, oltre lo schermo, è un modo per avvicinarsi di più a quel che il cinema nasconde, a quel che (forse) è. Grazie, Luana!
E.C.: una decina di volte, non di film…i tasti…uff!
Per avvicinarsi ai “tesori” nascosti ci vogliono le chiavi giuste e tu ne possiedi un bel mazzo!
Allora continuerò ad aprire scrigni. I gioielli sono innumerevoli. Grazie ancora, Luana!