NULLA È PIÙ RIPUGNANTE DELLA MAGGIORANZA
Çoğunluk (Majority) • Seren Yüce • Turchia/2010
articolo tratto da RC numero39
Mertkan conduce una vita semplice a Istanbul: il lavoro come aiutante nell’ufficio dell’impresa di costruzioni di suo padre, le uscite serali con gli amici, i giri con la costosa auto del padre, non sente l’urgenza di dare significato al vuoto della sua esistenza. Quando incontra Gul, una ragazza curda che lavora come cameriera, Mertkan ha un’occasione per lasciarsi alle spalle la futilità che contraddistingue le sue giornate. Suo padre, però, si oppone alla relazione con quella che per lui è l’esponente di una popolazione “che vuole solo dividere il Paese”.
Mertkan ha ventun anni ed è prigioniero, anche se probabilmente non se ne rende conto. Il prezzo che paga per essere uno studente svogliatissimo e per quell’apparente libertà che i genitori – più che altro il padre – gli concedono, è troppo alto. Lo vediamo, goffo, ancora adolescenziale nell’aspetto, trascorrere le sue giornate fingendo di lavorare nell’impresa edile di un padre che intuiamo essere molto potente e ricco di agganci con persone che contano nel settore pubblico, e quindi trascorrere le serate in locali anonimi con gli amici tra canne e alcol. La riprovazione da parte del padre è costante e trova terreno fertile nel comportamento del figlio che dapprima ha un incidente senza gravi conseguenze mentre guida con un’alcolemia superiore al consentito e poi, peggio ancora, inizia a frequentare una studentessa curda che per mantenersi lavora in un fast food di un centro commerciale. Lei è scappata dal suo villaggio di origine nell’est dell’Anatolia ed è ricercata da amici di famiglia che hanno il compito di riportarla a casa. Il loro primo incontro in casa di lei è rivelatore dello stato d’animo di Mertkan che prima le si butta letteralmente addosso con impaccio puberale e quindi consuma con lei un rapporto sessuale (il primo per lui, probabilmente) frettoloso e a tratti rabbioso. Lei, però, sembra avere capito con chi ha a che fare e gli dimostra un attaccamento che certamente soffre di un certo tipo di educazione – all’apparenza molto distante dalle scelte fatte – che la porta a confessare che il suo sogno è quello di sposare un uomo che la ami e costruirsi una famiglia. Mertkan, invece, di sogni non riesce a citarne. Sembra non averne, immerso nell’apatia che regola la sua quotidianità, e la confessione di lei forse richiama in lui una situazione, quella familiare, che lo opprime. A fugare ogni tentennamento giungerà il padre, che gli imporrà di lasciare la ragazza in quanto proveniente da un’area del Paese secondo lui densa di comunisti il cui scopo è quello di dividere il Paese. «Siamo Turchi, musulmani», afferma per rimarcare una differenza che è soprattutto nella sua testa. Nel frattempo, gli amici lo deridono per il fatto che frequenta una «zingara» che lui, da bravo codardo, spaccia per materiale buono per una scopata e nulla di più. L’inadeguatezza di Mertkan appare evidente in ogni ambito della sua vita: se con gli amici non riesce a confessare che quello per Gül potrebbe essere qualcosa di più che un interesse utilitaristico, con la ragazza si comporta anche peggio, avvicinandosi e allontanandosi di continuo e addirittura confessandole di voler attendere che finisca il ciclo mestruale in corso per tornare a farle visita. In questo senso, pur veleggiando svogliato nella sua stessa vita, mostra a tratti un’arroganza che rispecchia quella di suo padre, un uomo che non esita ad alzare le mani su chiunque (dal carrozziere che non riesce a sistemare l’auto accidentata al tassista che non lascia che il figlio entri in casa a chiedere i soldi della corsa in quanto teme che possa scappare) quando le parole gli mancano e che esercita una forma di potere costante sul figlio che non solo mantiene economicamente ma cui toglie ogni problema causato dal suo comportamento, come il fare ricompilare, tramite conoscenza, il verbale di polizia per l’incidente automobilistico omettendo il passaggio sull’alcolemia per poter essere risarcito dall’assicurazione. È proprio l’incontro con Gül, però, a dare forse per la prima volta la misura a Mertkan della sua stessa insoddisfazione. Ma i suoi atti di ribellione andranno a cozzare contro l’autoritarismo del padre, che deciderà di allontanarlo dalla città e dall’università, provocando così l’avvicinamento della chiamata al servizio militare. Relegato in un cantiere dell’impresa del padre nel mezzo del nulla, Mertkan avrà modo di pensare alla miseria della sua vita ma non di correggerla.
Se la figura opprimente del padre è in costante rilievo, anche le figure femminili del film sono messe in grande evidenza, ulteriori elementi rivelatori di un cambiamento non facile in corso. Se Gül deve pagare un prezzo per la sua emancipazione (il primo tra i quali è la vera e propria fuga dalla famiglia) che la costringe a una continua lotta, la madre di Mertkan sembra vivere una dolente rassegnazione, interrotta solo dalle reprimende contro un figlio che, secondo lei, nemmeno si preoccupa di dove sia e se abbia bisogno di aiuto (nella fattispecie, nel portare la spesa su per le scale). Due figure in antitesi a confronto: una disposta a combattere, l’altra rassegnata, tanto da farsi sorprendere dal figlio mentre piange, sigaretta in mano, in cucina di notte. Entrambe sole, entrambe vittime evidenti di una cultura maschilista che miete però vittime tra gli stessi uomini. Illuminante il rapporto tra Mertkan e Gül: se il primo agisce come un figlio viziato, la seconda ha preso in mano con decisione le redini della propria vita, accettandone conseguenze non facili come la necessità di mantenersi agli studi lavorando e nascondendosi per evitare che la famiglia la trovi e la riporti nel luogo da cui è partita. Mentre lei appare legata a valori tradizionali come il matrimonio e la famiglia, con l’opzione però di una scelta personale, lui appare distante da ogni emozione, come se ogni manifestazione di apertura lo costringesse a dover fronteggiare quanto reprime quotidianamente. In questo senso, sembrerebbe che più che i commenti razzisti degli amici (che definiscono Gül una zingara) o le non meno razziste considerazioni del padre, sia proprio la fuga dalle emozioni a decretare la fine del loro rapporto. Naturalmente, quando Mertkan si ricrederà, sarà troppo tardi.
Esempio di rara sottigliezza, non c’è nulla nel film di Yüce, da lui stesso scritto, che accada per caso. Soprattutto è chiaro il simbolismo che ammanta i personaggi: il padre, con il suo autoritarismo e con il suo odio classista, appare espressione di una Turchia nazionalista, abituata a reprimere militarmente qualsiasi sommossa o rivendicazione. Un autoritarismo che non si supera solo con l’emancipazione dalla figura paterna in quanto, da adulti, lo si ritroverà riproposto nella stessa forma dall’autorità governativa e militare. Non è un caso che dal televisore di casa (fedele compagno di tutte le serate in famiglia) si senta molto chiaramente parlare del genocidio armeno, tema scottante prima di essere fatto oggetto di una legge che non impedisce più di parlarne liberamente, una delle condizioni per l’entrata della Turchia nell’Unione europea (oggi nuovamente a rischio per la violenta repressione delle manifestazioni di piazza Taksim da parte della polizia, decisa dal primo ministro Erdoğan), o che in alcune scene chiave si vedano sventolare chiaramente le bandiere del Paese.
Mertkan, da par suo, è un essere provo di un’identità definita e così appaiono i suoi (pochi) amici, che si incontrano in luoghi altrettanto impersonali come centri commerciali e discoteche, uguali come sono in ogni parte del globo. Soprattutto, la sua mancanza di identità è esplicita nel suo vivacchiare, nel non assumersi alcuna responsabilità, navigando a vista giorno dopo giorno, come se fosse necessaria ancora una generazione per la definizione di una identità nuova e stabile che è anche quella di una Repubblica che nasce moderna e progressista e si ritrova a lottare contro chi vorrebbe farle fare un deciso passo all’indietro.
Quanto potrà nel cambiamento in questa cultura la generazione dei Mertkan? Yüce lo rivelerà nel corso del film, e non sarà una rivelazione confortante. La conformazione alla “maggioranza” del titolo sarà davvero l’unica via percorribile?
Seren Yüce, che si è fatto le ossa lavorando come assistente alla regia per Fatih Akin, Özer Kiziltan e Yeşim Ustaoğlu (che si conferma mentore d’eccellenza per la nuova generazione di registi turchi, avendo frequentato i suoi set anche Özcan Alper e Hüseyin Karabey), ha un controllo stupefacente sulla narrazione, sempre fluida e che sa fare buon uso anche dei sottintesi. Dimostra anche grande sottigliezza nel non inserire i suoi personaggi nella società mettendo in evidenza le sue storture attraverso le loro interazioni con essa ma nel trasformarli in simboli veri e propri delle contraddizioni di un Paese spinto per tradizione e storia verso un’inesorabile modernità che, come vediamo anche nella cronaca, si trova ciclicamente a dover vincere ancora resistenze. Infatti, pur non potendo considerare i due uomini come simboli di un’intera società, è comunque vero che sono responsabili della perpetuazione di un modello tradizionalista e autoritario.
Mentre non lesina elementi rivelatori dei cambiamenti nella società in tutti i suoi livelli, Yüce compone un ritratto preciso nitido e lucido di una situazione che apparirà familiare non solo ai suoi connazionali, rivelandosi come autore degno di grande interesse del cinema europeo, meritevole di essere affiancato ai nomi di altri cineasti turchi della nuova generazione, personale e radicale, emersi in questi ultimi anni. ■
Roberto Rippa
• Il film è stato prodotto da Yeni Sinemacılar (“Nuovi cineasti”, una vera e propria dichiarazione di intenti), collettivo di autori che hanno contribuito alla Novelle vague del cinema turco.
• Çoğunluk ha ottenuto il premio De Laurentiis alla 67. Mostra del cinema di Venezia come migliore opera prima, il gran premio della giuria europea al Festival Premier plans di Angers, i premi per la migliore regia, migliore film e migliore interpretazione (a Bartu Küçükçaglayan nel ruolo di Mertkan) all’Antalya Golden Orange Film Festival.
• La montatrice Mary Stephen ha lavorato anche a Gitmek: Benim Marlon ve Brandom di Hüseyin Karabey.
Çoğunluk
(Titolo internazionale: “Majority”, Turchia/2010)
Regia, sceneggiatura: Seren Yüce
Musiche: Gökçe Akçelik
Fotografia: Baris Ozbicer
Montaggio: Mary Stephen
Scenografie: Meral Efe
Interpreti principali: Bartu Küçükçaglayan, Settar Tanriögen, Nihal G. Koldas, Esme Madra, Erkan Can
111′