Habitat [Piavoli] > Claudio Casazza, Luca Ferri

Essere è tempo

 

Un’opera estetico-filosofica in cui il vuoto è pieno, in senso zen. Il vuoto è dato dalle pareti su cui sono appesi i quadri. Vuoto è lo sfondo degli oggetti mostrati (tavoli, piante secche, fotografie, libri). Vuoto lo schermo nero o le sfocature, i momenti in cui non accade niente, quando Piavoli viene espresso dalle pause e dai silenzi del suo essere presente, da quel riempire lo spazio suonando il piano o dove chiede agli autori interlocutori fuoricampo se quella inquadratura è buona. Vuoto, infine e soprattutto, l’habitat, inorganico rispetto al ritratto del soggetto organico, messo tra parentesi a partire dal titolo, attraverso un metodo di ri-localizzazione e sottrazione col quale tutto viene dialetticamente ampliato.

 

Habitat [Piavoli] si fa portatore di un vuoto da considerare pieno proprio in quanto la casa è il centro cosmico e vitale di chi la abita, nonché oggetto di riflessione massimalizzata (l’ambiente, il pianeta, la famiglia umana, il corpo) da parte dell’autore ritratto. Una sorta di prolungamento materico dell’essere. Così dunque gli oggetti, rielaborazioni umane di materia naturale: i fiori essiccati, la carta ricavata dagli alberi e trasformata in libri (cioè in pensieri concretizzati da una registrazione scritta). Lo sfondo vuoto è altresì la parte integrante del pieno: il dicibile, il potenziale.

Luca Ferri e Claudio Casazza scelgono un procedimento di igiene psichica, di riduzione eidetica, capace di mettere in atto, proprio perché svuotata (anche) di scontate impressioni sensoriali, priva dei piani e dei “pieni” realmente vuoti del documentario standard, l’idea stessa del senso, la paradossale soggettività del ritratto “oggettivo”. Non sono i soli in un momento in cui su (alcuni) schermi predominano i soggetti prosciugati dalla narrazione e quindi corpi-testo, si tratti di luoghi (il Grande Raccordo Anulare non documentato da Gianfranco Rosi), persone (i disperati senza plot di Stray Dogs di Tsai Ming-Liang), scelte stilistiche (il continuum ingolfato, privo d’uscita, del piano-sequenza di Fish & Cat, film-rivelazione di Shahram Mokri), di Storia (il movimento immobile dell’Aleksei German di Hard to Be a God, claustrofobicamente strapieno, preceduto per contrasto da un campo lungo innevato/vuoto) o di storie (la “banalità” narrativa e registica di The Canyons di Paul Schrader, rifrangente di segni invisibili).

Nuovi habitat fisici e mentali di un immaginario di tempo e cinema de-realizzati, già oggetto di singola indagine da parte dei due autori. Si pensi ai non-luoghi di Magog e alle non-immagini di Ecce Ubu di Ferri, al prologo schraderiano dei cinema chiusi e fatiscenti a Los Angeles anticipato da Era la città del cinema di Casazza. Adesso gli specchi (pur non mostrati) si raddoppiano, e infiniti sono i rimandi tutti brulicanti di quel predominante non è. Dissezionato e replicato negli isolati elementi. Graduato in un addensato divenire, vagamente balàsziano, da materia a tema a contenuto-forma.

Franco Piavoli appare poco e dice poco. Attraversato da ombre, alberi, e riflesso nei vetri, il grande cineasta bresciano viene ulteriormente parcellizzato dalle inquadrature, ponendosi spesso, quasi sempre, fuori dal quadro, evocato dal fuoricampo relativo (quando cammina e oltrepassa la telecamera) o da quello assoluto (assoluto?) di quegli oggetti effettivamente intrisi della sua esistenza. A parlare in sua vece intervengono anche frammenti del suo cinema, soprattutto i meno noti (Evasi o Ambulatorio), ulteriori oggetti di puro spirito immessi nel flusso.

La libertà espressiva inevitabilmente si rivela, come in tutte le rappresentazioni free dell’immaginario, essenziale ed estremamente strutturata. Ferri e Casazza sanno tornare alle cose e al loro linguaggio, husserlianamente. L’opera è matematicamente precisa nello scomporre la casa in stanze, corridoi, finestre, porte, e nel definirla attraverso la natura che la circonda, esterna e interna. Senza che il caso risulti cancellato. Si tratta di un cinema, se è consentito il termine, sulla e dalla purezza impura. Gli elementi profilmici appaiono inseriti in una specie di immobilità temporale, ma filmicamente frazionata in una scansione ritmica. Di singole immagini e singoli elementi. Il battito di un tempo a posteriori che, oltre a filmare l’invisibile divenire, risulti già espressione di un procedimento meta-testuale del cinema secondo gli autori e secondo l’autore rappresentato.

Proprio Franco Pavoli parlerà infatti, nel film, di tempo come ratio orientatrice, bussola dello spazio, un’unità di misura necessaria all’ordine delle cose. Sottolineando come “tempo” derivi da “tempio”: ogni discesa all’essenza della materia, agli elementi di natura, non può che trascinare con sé l’aspetto irrazionale, lunare, indifferenziato. Per niente scontato, quindi, questo frazionare l’insieme in particelle, animali, naturali o vegetali. Prova ne sia il lavoro stesso dei due autori. In totale sintonia con tale assunto, finisce per plasmarsi nel momento stesso in cui si offre ai nostri occhi. Anzi fa di questo modellarsi in diretta, anche per via dell’elemento casuale mai escluso, del «lavoro» ricompreso nel testo, l’autentico tema del film. Il tempo proposto è proprio il tempio (animistico) dove, sempre secondo Piavoli, risulta impossibile distinguere tra essere e divenire.

Ogni singolo elemento finisce per esprimere, allora, un tempo successivamente (o forse anche precedentemente) determinato. Quasi una concretizzazione materica (e perciò mistica) del metodo d’indagine, necessariamente integrato da una soggettività esterna. Ad esempio, l’immagine neutrale del De rerum naturae di Lucrezio perde doppiamente la propria oggettività. Non diverso dagli altri oggetti-libri, appare però nominalmente e contenutisticamente differente. Soprattutto perché sappiamo, con la nostra esperienza di spettatori (e non certo attraverso una testimonianza dell’autore o una voce off o in di qualcuno), che quel classico costituisce la base de Il pianeta azzurro.

Se lì, il concetto di tempo e spazio (dello scorrere hegeliano dell’essere) era definito pure dal mettere sullo stesso contestato piano l’ansimare dei gemiti d’amore umani con quello delle rane, adesso gli autori concretizzano l’essere/divenire direttamente nella struttura del film. Nell’habitat di Habitat, si potrebbe dire. Il linguaggio come espressione totale di un mai sterile auto-riflettersi. È come vedere Lucio Fontana che, incidendo la tela, manifesta la propria arte esclusivamente in quel gesto. Proprio guardando, si riesce a far vedere. In un pieno «cortocircuito semantico» dove ci si avvicina alla realtà nella consapevolezza di fare finzione. Lo riferisce la voce di Luca Ferri, mentre conversa con Piavoli a proposito del cinema di quest’ultimo.

Mondo e rappresentazioni di esso esistono e coesistono in quanto se ne abbia sincera coscienza. È la sincerità a dare piena fiducia all’atto di filmare. Si limita la presenza (concreta) di Piavoli, si riduce il suo parlare, al fine di evidenzare la profondità dell’uomo, attivando anche quella di chi guarda, lo spettatore. L’ispirazione è suscitata anche per quei privilegiati spettatori, appassionati e competentissimi, costituiti dai due autori posti dinanzi all’habitat-Piavoli. Il loro è un film-reazione, un oggetto-stupore, uno straordinario gioco che fa materia dell’invisibile e trasforma il concreto in pneuma, res cogitans. Un’ora di emozione intelligibile forte.

Leonardo Persia

 

 

HABITAT [PIAVOLI]
(Italia, 2013)
Un film di Claudio Casazza, con la collaborazione di Luca Ferri
Fotografia: Luca Ferri, Claudio Casazza
Montaggio: Claudio Casazza
Produzione:Claudio Casazza
Un film presentato da: Circuito Nomadica
Con la partecipazione di: Franco Piavoli, Flora Piavoli, Agata Piavoli, Mario Piavoli
60′



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