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Lo stupro riparatore

Un sole non ingannatore nel cinema italiano. Mortifica, poi vivifica. Abbaglia protagonista e spettatore, penetrando tra le impalcature di una strada stretta che potrebbe fungere da selva oscura, preludio al cambiamento. Raggi luciferi accompagnati a una conversazione telefonica abortita tra una coppia senza figli che fino a quel momento sembrava essere fin troppo in armonia. Rispondere senza parlare, riattaccare prima di insistere. Uno strano presagio, illuminato dal sole attraverso il buio. Annunciazione dark che precipita il film in un budello incognito, inespresso, con schegge di trauma/traum, sogno e perturbante. Da un vicolo infatti spunta una mano e trascina Laura (Ambra/Ombra Angiolini) in una melma d’orrore fuoricampo, appena dopo le riprese che Pasolini avrebbe definito contronatura, infuocate da quel Sole epifanico, una sorta d’occhio di Varuna che copre e scopre.

La mano ama l’anima, con quell’impulso dal basso verso l’alto. Sostituisce un fallo proditorio, il Logos fondatore fecondatore. Appartiene difatti a uno stupratore, la cui radice stup è la stessa di stupore, stupefacere. Siamo di fronte a una violenza stupefacente. Simbolica più che reale. Onda d’urto scatenante l’altrui censura censurata. Da quel momento, quindi, la donna sarà trattata come una creatura cronenberghiana, un purulento work in progress di corpo raddoppiato, portatrice di una maternità ributtante. Il cammino insopportabile della complessità dell’esistenza e della natura. A cui, strenua, si oppone la cultura di consorte (Raoul Bova) e familiari, bigotti sbigottiti. Non sentono più Laura e lei non sente più loro. La donna vaga e deambula come fosse in un’altra realtà, oltre i dati di superficie che il film aveva mostrato e continuerà a mostrare lisci e levigati, eppur disseminati di porte chiuse (e improvvisamente spalancate), vetrate, sbarre, reticolati umani, isolamenti, spigoli, pur in un’apparente condivisione.

Ecco franare i falsi entusiasmi raccontati a inizio film, quasi da spot. Canti, riti alimentari, urli di gioia, party, foia incontinente. E false tolleranze, come quando si vede la sorella della protagonista (Valeria Solarino) convivere tranquillamente con due uomini (e due figli), altro presagio di corpo molteplice. Qualcuno chiacchiera, ma è poca roba: nessuno più si scandalizza. La false solidarietà, invece, saranno espresse da quella coppia in strada che mette il dito – nel cellulare – tra moglie e marito briganti, minacciando di chiamare la polizia. Sono già una prefigurazione dello spettatore e del critico politically correct pronti a sghignazzare sul film, poi a puntare il dito ideologico accusatore.

Michele Placido è un autore capace di alternare rotondità narrative (Del perduto amore, 1998), coolness di scrittura (Un eroe borghese, 1995), toni sociali (Le amiche del cuore, 1992) e asociali (Un viaggio chiamato amore, 2002), cinema di genere (Romanzo criminale, 2005) o degenere (Ovunque tu sei, 2004), nel segno di un eclettismo ambizioso e coraggioso. Qui ritrova il touch astratto e contemporaneamente corporeo delle sue cose più bizzarre e sperimentali, mettendo costantemente in forse la sua propria messa in scena. Anche Catherine Breillat faceva dubitare del Parfait amour! (1996) del suo omonimo titolo, nonostante la coppia del film scopasse alla grande. Salvo poi far rinfacciare da lei a lui scarse capacità amatorie. Stuprando, stupendo gli spettatori.

Oltre che inganno e finzione, il cinema è sempre trans, motion in moto, intensivo ed estensivo. Non bisogna mai prenderlo alla lettera. Le storie sono un elemento al pari di fotografia, inquadratura e cast. Servono a veicolare e violare concetti, concepiti inconcepibili. Un bambino può anche non essere un bambino, una donna non necessariamente tale e figuriamoci quindi un nascituro. Il figlio in arrivo, che il film anticipa da subito con tutta una serie di bimbi alchemici (ai quali Laura insegna canto), rappresenta la materia prima e contemporaneamente il prodotto finale di un processo interiore che il film si sforza di tradurre in stup(o)ri concettuali, abbattendo i confini tra detto, non detto, campo e fuoricampo, linguaggio e metalinguaggio.
Spezzata, convulsa, confusa la forma del film, proprio come un feto (del Sé). Accennata ma non sviluppata, aperta e tuttavia chiusa dentro una (apparente) confezione ortodossa di musica sottolineatrice e scorci di Bisceglie come dovrebbe piacere all’Apulia Film Commission. I dialoghi sono da Harmony collezione, e per questo li si potrebbe considerare all’altezza di quelli dell’ultimo Michael Mann. Dei tanti personaggi che fanno da contorno non se ne capisce la necessità: forse in quanto non l’hanno neanche nella vita interiore dei due protagonisti? o proprio perché, in un tale processo, nulla è superfluo e da scartare?

Il film osa accumulare senza spiegare, far vedere senza dimostrare. Privo delle consuete scorciatoie narrative, dialogiche, psicologiche e patologiche del cinema per tutti che ci si aspetta. Si confida molto nel visivo, nella diegesi dei segni. Si pensi al pan-focus al contrario, che sfoca un’immagine umana, un dialogo tra sorelle, lasciando ben in evidenza il marchio di un prodotto. Pubblicità occulta svelata. Un clamoroso esempio di meta-product placement, onirico e ironico: il colpo di genio che fa di necessità virtù autoriflessiva, suggerendo l’idea di esistenze a una sola dimensione mercantilizzata. Cinema compreso.

Le immagini stesse e la sceneggiatura che le anima sembrano vagare catatonici in cerca di un non so che, quasi forzate in una libertà di movimento e di montaggio, che alterna con sgraziata grazia primissimi piani e inquadrature vuote, dettagli dettagliatissimi ed ellissi che danno un effetto quasi di cecità, spaesamento e subbuglio. Aderiscono in pieno a quel womb-tomb, al cancello femminile che conduce al-di-là, un grembo/porta dentro cui è facile smarrirsi. Ci sono pure le campane, dal suono sempre atto a condividere il simbolismo della soglia femminile. Consolano, turbano. Gerard Damiano le faceva suonare mentre Linda Lovelace raggiungeva finalmente l’orgasmo, Lars von Trier, misogino cronico, quando Emily Watson crepava, stuprata a morte per volontà del marito impotente (poi potente). Placido se ne serve per imbastire uno stupro riparatore, lo stupro/paradosso che rifonda la verginità. Ne verrà fuori, in tutti i sensi, un’altra vita.

Il che sconcerta e scontenta, si offre provocatoriamente come bersaglio dei savi e dei progressisti, abortisti e anti-antiabortisti, anche nella scelta di due attori ovviamente ed evidentemente non strepitosi, le cui facce da fiction tv si sanno già non all’altezza di quel che dovrebbero esprimere. Ma cosa devono esprimere? Un testo pirandelliano di cento anni fa, disossato? O piuttosto un ineffabile psichico della cui natura il film si rende radicalmente partecipe, attraverso simboli e metafore, volti a trascendere l’involucro rassicurante, senza neppure darsi come tali?

La scelta (anche registica) è indeterminata, sfuggente, imprecisabile, indefinibile. Più di tutto perché concentrata su quel corpo di donna posseduto da un nascituro, così vicino così lontano a tutto quanto si possa percepire rispetto alla nuova carne delle neo-famiglie, ai traumi pre e post partum, al corpo trasformato e violato, alla fecondazione eterologa. Persino alla consuetudine abbattuta, in questi tempi così innaturalmente immobili. Temi proposti mediante un ordine simbolico mitologico di streghe e puttane. Qualcosa che al più viene tollerato solo se declinato al passato. O sotto forma di horror. Dario Argento, per esempio, è stato e resta un esperto di mamme scioccanti. Tuttavia anche La terza madre (2007), film di analoghi turbamenti e rinascenze, ha avuto un ingiusto pessimo trattamento. Allo stesso modo delle mamme perturbate dell’Alina Marazzi di Tutto parla di te (2012), horror tenero come un bambolotto.

A proposito di bambolotti. Il film ha un ulteriore scatto nell’alludere che un’altra vita arriva ma non è detto che sia per forza altra. Tra moglie e marito riconciliati, per interposto flashback, si frappone un forcipe. I bambini numerosi che contornano il film esprimono sì un simbolo di individualità rinnovata (o sul punto di esserlo), restano però, su un piano fotografico oggettivo, bimbi veri. Che vediamo educati, ammaestrati, plasmati, esibiti. Pre-testi. A un certo punto, complice Gioacchino Rossini, su uno sfondo di frustrazioni gentili, si trasformano in micini (come al contrario, oggi più che mai, micini e altri animali vengono trattati da bambini). Maternità e paternità a ogni costo, per non guastarsi, sanno quindi di nevrosi, ulteriore product che asseconda non ostacola l’ordine razionale dominante. Al contrario dei bambini-bambini. Uno(a) di essi chiede perché tutti i grandi compositori classici sono uomini. E un figlio con le cuffie propone al padre (lo stesso Placido) l’ascolto, negato alle orecchie dello spettatore, di Somebody To Love. Appunto. •

Leonardo Persia

 

 

LA SCELTA
Regia: Michele Placido • Soggetto, sceneggiatura: Michele Placido, Giulia Calenda • Fotografia: Arnaldo Catinari • Montaggio: Esmeralda Calabria • Musiche: Luca D’Alberto • Costumi: Veronica Lopez • Scenografia: Sabrina Balestra • Suono: Valentino Giannì (presa diretta) • Produttore: Federica Vincenti • Interpreti: Ambra Angiolini (Laura), Raoul Bova (Giorgio), Valeria Solarino (Francesca), Michele Placido (Emilio Nicotri), Manrico Gammarota (Bennie), Monica Contini (Caterina), Gennaro Diana (Vice Nicotri), Marcello Catalano (Fabrizio), Mejdi El Euchi (Samir), Vito Signorile (Ivan Bonollo), Tina Tempesta (Signora Bonollo), Vito Lopriore (Filippo), Anna Castellaneta (Giulia), Antonello Marini (Giacomino), Greta Amoruso (Viola) • Produzione: Goldenart Production, Charlot Cinema; in collaborazione con Rai Cinema, RB Produzioni • Distribuzione: Lucky Red • Data di uscita: 02/04/2015 • Formato di proiezione: DCP • Paese: Italia, Francia • Anno: 2015 • Durata: 86′

 



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