Così tanto, così nessuno. “Too Much Johnson” di Orson Welles

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Così tanto, così nessuno

In attesa di vedere l’annunciato The Other Side of the Wind e, si spera, altri Welles ritrovati e rimontati, si può celebrare il centenario di un gigante del cinema (nato a Kenosha, Wisconsin, il 6 maggio 1915) con Too Much Johnson, la sua opera, atipica, d’esordio, mostrata a (quasi) nessuno. Mancante del montaggio definitivo e considerata perduta per sempre, è rispuntata due anni fa a Pordenone, ancora troppo poco vista, programmata, analizzata e discussa.

Orson Welles, too much. Un secolo (breve) di potenza e potere, non solo quarto, che all’interno dello stesso corpo attoriale, registico e reale si dà all’unisono con il suo crollo e disfacimento, specchio (moltiplicato, frantumato) del ‘900 schizo. Dentro e fuori il set, nel true e nel fake, mai più così da allora interconnessi. È il monumento all’io/dio in conflitto dopo Nietzsche (ulteriore, prefigurante espressione di deforme, debolissima volontà di potenza), la cui comeuppance di classe può essere solo interiorizzata, autodistruttiva. Il carattere dello scorpione. (De)generato, spostato, ingigantito, pantografato. Sull’altra sponda dei media (il programma radiofonico War of the Worlds; Citizen Kane), in una globalizzazione ante-litteram (Mr. Arkadin), nella legge (Touch of Evil) e dentro l’oltre della legge (The Trial).

Potenza e potere interni a sé, quindi. In quel cuore di tenebra occidentale dove io è l’occhio (I-eye) e soltanto ciò che si vede può essere ed è. E tuttavia proprio la vista, il guardare (e custodire) deflagrano in quel caleidoscopio di forme, negli specchi infranti, nei misteri Rosebud mai svelati. Lo spettatore li vede, certo. Diventando lui però il falso contrapposto e contrap-punto al vero di chi, internamente alla diegesi, non vedrà/saprà mai.

Un capovolgimento vertigine che rende ogni movie seer un potente impotente, rana paralizzata dalla puntura dello scorpione. Allo stesso modo di Kane, Quinlan, Michael O’Hara, Macbeth e Othello, George Minafer. Vari don Chisciotte in lotta contro i mulini a vento del cinema (e del reale). Oltre la cui tela e le sue apparenze, è il Nulla. Personaggi (e spettatori) dall’ego talmente gigante da non sapere più chi essere (o non essere). Detentori di ricchezze così colossali (my-I), espresse dalle sembianze seducenti di dark ladies, da cui potersi fare solo rimpicciolire, annichilire. Da Rita Hayworth e dalle altre (anche quando vittime). Come in un dativo possessivo scopico e architettonico, ripreso in piano sequenza e con le lenti focali corte.

Too Much Johnson si offre come impetuosa e imperdibile esperienza di cinema proprio per il suo carattere di opera aldilà del tempo e dello spazio sulla quale si è accumulato tutto l’autore futuro, compiuto o incompiuto, realizzato o massacrato. Una copia lavoro inconclusa e ritoccata (nei ’60), strada facendo sempre più decomposta, provvisoria, sfuggente e altra. Prefigurazione esclusivamente visiva del rise and fall wellesiano e novecentesco, una fabula rasa di movimenti, più che un plot, che prenderanno corpo e cuore (di tenebra) nei capolavori e nella Storia successivi.

Vi appare già lo scontro tra un personaggio riflesso dell’altro (due uomini in competizione per una donna: marito e amante), collaterale a un doppio e una falsa identità: il playboy Augustus ha preso l’identità dell’Alfred Johnson del titolo, proprietario di una piantagione di zucchero a Cuba. Tanti Johnson, nessun Johnson. La donna è Arlene Francis, contraltare di Virginia Nicolson (la prima signora Welles, sposa promessa al vero Johnson). I due rivali, Joseph Cotten (illegittimo) ed Edgar Barrier (legittimo), sono la rana e lo scorpione oltrepassanti una frontiera fisica e mentale (da New York a Cuba: un Welles già around the world, Brasile Spagna Italia Marocco Jugoslavia, il Mar Nero RKO…). Per evaporare, insieme al racconto, in una pozza prefigurante la fogna baratro dove annegheranno Harry Lime e Hank Quinlan.

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale, il Pianeta possiede un ego in procinto di scoppiare. Welles ha già avuto visioni di morte (il precedente corto The Hearts of Age), ha teorizzato il totalitarismo dei media, facendo ascoltare e temere i marziani-nazisti, subisce e replicherà il fascino dei fasci di luce di Albert Speer. Come Leni Riefenstahl, scaverà buche per riprendere dal basso verso l’alto non gli atleti ma i dittatori Kane. Il film è oltretutto girato con un tipo di piccola macchina da presa 35mm utilizzata per i newsreels di guerra e l’operatore Harry Dunham era proprio un cine-reporter.

Film di guerra anche questo, allora. E sul potere, sessuale. Impedito e ostacolato, legato al conflitto (il duello, la battaglia, l’inseguimento) in quanto opposto consequenziale. Secondo il metodo dei film beffardi e liberatori dell’inconscio del primissimo Buñuel, in tandem con Dalí. Anche qui, ogni avvenimento incontra un mare di ostacoli e la quest sembra avere né fine né soluzione. Welles, già raffinato e barocco manierista, innerva nell’avanguardia degli anni ’20 la tradizione del coevo cinema americano, lo slapstick reiterato estenuato di Sennett Lloyd Chaplin, riservandosi la particina di un Keystone cop. E passando attraverso il René Clair di Entr’acte, non a caso concepito come l’intermezzo tra i due atti del balletto Relâche di Picabia e Satie. Ugualmente, il suo film doveva fungere da triplice prologo agli altrettanti atti dello spettacolo teatrale del suo Mercury Theatre.

 

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Nello slang americano di fine ‘800, quando l’omonima commedia di William Gillette viene scritta e rappresentata, Too Much Johnson indica, senza mezzi termini, l’organo sessuale maschile, come a quello femminile (di Marion Davies, amante di William R. Hearst/Kane) alluderà la Rosebud-ninnolo a venire. A Welles interessa esorcizzare enfasi e turgore di quel potere, mostrarne il lato ridicolo, l’Io nascosto e confuso in un oceano di cappelli celanti l’identità. È il culmine del film, la fusione perfetta tra commedia svitata e dadaismo politico. Edgar Barrier (somigliante a Billy West, il falso Chaplin), alla ricerca di Joseph Cotten, un’altra copia, il falso Johnson, volto celato dal copricapo, inizia a tirar giù il cappello a un’interminabile folla di individui tutti uguali. Durante una sfilata di suffragette, le persone si scappellano a prescindere, ma il falso Johnson ovviamente non può, nemmeno davanti alla bandiera a stelle e strisce. Sotto la quale, più in là, avviene il ripetere ossessivo del saluto marziale da parte del capitano della nave che porterà i due rivali a Cuba.

Metafore del naturale snaturato. C’è un duplice mazzo di fiori afflosciato, uno per ognuno dei due antagonisti, e sul quale, gettato a terra, la macchina da presa insiste e persiste, in un gioco di montaggio ritmico reiterato voluto. Di ripetizioni c’erano pure in The Hearts of Age e, con Quarto potere, la ripetizione del punto di vista diverrà cifra stilistica. Una pianta si frappone agli amanti e il bacio/amplesso (di cui si mostra il dopo) diventa problematico. La serializzazione artificiale pian piano lascia il posto a quella naturale: i ciak ripetuti, le scene a più angolazioni e in scale differenti, i paesaggi e le figure di raccordo. Un materiale bruto che sa però ispirare a Welles belle copie teoriche, la tecnica trasformata in stile. Lo si può notare nel deep focus onnivedente di quello splendido inseguimento raddoppiato, con gli antagonisti che si rincorrono duplicati da un carro inseguito da una folla. Inserita nel campo lungo di un vialone dalle cui traverse inseguitori e inseguiti, intermittenti, ogni volta rispuntano più lontani e più piccoli, la scena diventa una gag esistenziale, basata testualmente sul ridimensionamento (del) totale. L’epitome di un Johnson (e di una vita) non proprio too much.

Un senso di vacuità sorregge e sgretola infatti ogni pretesa di essere ed esserci. In quanto il film non è stato strutturato, ma pure perché ogni scena conclusa sembra non esserlo davvero, sempre disposta a riaprirsi, a ripetersi, ad annullarsi. A ri-significare, a in-significare. L’urlo e il furore di Shakespeare, l’assurdo di Kafka. Le guglie degli edifici di Manhattan spingono la figuratività dell’azione in un alto de-localizzato, un cielo metafisico che non dà risposta. La Cuba rocciosa ricostruita, praticamente un cimitero, schiaccia altresì i personaggi, ne fa degli insignificanti puntini. Dissolvendoli, relativizzandoli.

E tutto il senso sembra venire a mancare, perdendosi in quelle inquadrature sghembe già da film noir, distillato dal cinema espressionista tedesco, tetti e terrazze compresi. Sui quali si incespica, si barcolla e si esita, allegoria di un cammino di vita scivoloso in ogni caso. Quel che si cerca si nasconde alle spalle o nella stessa inquadratura. Ma non lo si vede o non lo si afferra. È il vuoto, detto dal cielo e del mare, del paesaggio urbano o della wilderness sia pure finta, a (di)segnare il framing invano barocco del côté wellesiano.

Prova ne sia che il tetro scatolame di cibarie nella scena al mercato del Meatpacking District di New York, segno di accumulo del Capitale e di alienazione delle merci, défilé di contenitori senza contenuto, viene ripreso dall’alto come gli oggetti-grattacielo di Kane, prima del finale di Quarto potere. Quando la slitta, la vita e la ricerca vanno tutte in fumo. New York, capitale del Mondo, diviene lo sfondo della produzione e del vacuo in serie, dell’immagine e dell’immaginario riproducibile all’infinito, sfinito.

Un’altra celebre W del ‘900, Andy Warhol, lui pure ossessionato dall’occh-Io, dall’Empire, dal fake, dal piano sequenza e dagli oggetti accumulati, di tali segni farà (in tutti i sensi) tesoro, quasi certamente lontano dall’infanzia/sesso Rosebud/Rosabella. Ma di sicuro con una fortuna maggiore del perennemente intralciato Orson Welles, meraviglioso fallito seriale. I rushes di Joseph Cotten a solo che vediamo in Too Much Johnson potrebbero confondersi con i futuri screen test di glamour denaturato e minimizzato del Kane della Pop Art. Ritratti too much, eppure too little. Anch’essi icone tristi del così tanto, del così nessuno.

Leonardo Persia

 

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TOO MUCH JOHNSON

Regia: Orson Welles
Sceneggiatura: Orson Welles dall’omonima commedia di William Gillette (1894)
Fotografia: Paul Dunbar, Harry Dunham
Montaggio: William Alland, Orson Welles, Richard Wilson
Musiche: Paul Bowles (Music for a Farce)
Produttori: John Houseman, Orson Welles
Interpreti: Joseph Cotten (Augustus Billings), Virginia Nicolson (Lenore Faddish), Edgar Barrier (Leon Dathis), Arlene Francis (Mrs. Dathis), Ruth Ford (Mrs. Billings), Howard Smith (Joseph Johnson), Mary Wickes (Mrs. Battison), Eustace Wyatt (Faddish), Guy Kingsley (MacIntosh), George Duthie (Purser), Orson Welles (Keystone Kop), John Houseman (Duelist)
Produzione: Mercury Theatre
Paese: USA
Anno: 1938
Durata: 68′

 



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