Revenant. Quando a essere redivivo è il piano sequenza
Per Revenant – Redivivo, il regista messicano (triplo oscar con Birdman nel 2015, per regia, film e sceneggiatura) sceglie un soggetto che aveva già dato lo spunto per un altro film nel passato, Uomo bianco, va’ col tuo dio! (1971). Si tratta della storia “vera” di Hugh Glass, che nei primi decenni dell’Ottocento lavorava in una di quelle grandi compagnie che organizzavano battute di caccia nel nord degli Stati Uniti, soprattutto per il commercio di pelli e pellicce.
Fuggiti da un attacco di indiani Arikara, Hugh Glass e compagni abbandonano il barcone su cui navigavano per prendere la via dei sentieri del Nord Dakota. Glass (un sempre bravissimo Leonardo Di Caprio) è la guida del gruppo e quindi è indispensabile perché il ritorno al campo base possa essere veloce e sicuro. Ma il protagonista subisce l’aggressione di un orso che lo ferisce. Hugh Glass viene inizialmente curato dai suoi compagni, salvo poi essere abbandonato perché divenuto un peso troppo gravoso per la spedizione; inoltre la convinzione generale è che l’uomo sia sul punto di morire.
Romanzando molto il soggetto di partenza, Iñárritu aggiunge due elementi fondamentali all’impianto narrativo: l’arrogante e sgradevole Fitzgerald (interpretato da un perfetto Tom Hardy) e il giovane Hawk. Il primo incarna tutte le caratteristiche del perfetto antagonista, contrapponendosi a Glass che in un certo senso invece rappresenta l’ideale positivo e tenace di essere umano. Hawk è il figlio di Hugh Glass, avuto con una donna indiana della tribù Pawnee, morta anni addietro in un attacco dei soldati americani e che noi vediamo soltanto nelle visioni deliranti e oniriche che Glass ha durante la sua convalescenza.
Il giovane Hawk fa da catalizzatore di tutta la psicologia del personaggio di suo padre, che effettivamente sullo schermo ha una sua valenza quasi esclusivamente fisica. Il ragazzo è, insieme, punto di forza e di debolezza per il padre che, di fatto, vive e sopravvive esclusivamente in funzione del figlio, l’unica cosa rimastagli al mondo.
Quando la compagnia decide di abbandonare il moribondo Glass, Fitzgerald si offre (grazie a una lauta proposta di ricompensa) di accudirlo, con la promessa di provvedere a degna sepoltura. L’antefatto è già di per sé un film, occupando almeno i primi tre quarti d’ora della durata. Fitzgerald viene meno a ogni sua promessa: impaurito da un attacco dei pellirossa, uccide Hawk davanti agli occhi di Glass e abbandona quest’ultimo, fuggendo verso il campo base.
Il primo “miracolo” di Revenant – Redivivo è la sopravvivenza di Glass che, mosso da un fortissimo desiderio di vendetta, inizia un inseguimento che riporta alla mente dello spettatore altri “revenge movies” come Caccia spietata o Caccia selvaggia, storie di rivalsa ambientate in luoghi selvaggi, impervi, inaccessibili.
La sopravvivenza e la tenacia di Glass sono rese credibili da una prestazione superlativa di Di Caprio, che fa del proprio corpo un’incredibile strumento per incarnare l’odissea del padre che non cede alla morte soltanto grazie al ricordo (e alle visioni) della moglie e grazie alla sete di vendetta per la morte del figlio.
L’interpretazione tutta fisica di Di Caprio si alterna a quella di Tom Hardy, capace di dare all’odioso Fitzgerald una fisionomia e una psicologia che testimoniano le grandi doti di un attore, spesso relegato al ruolo di comprimario, ma che recentemente ha saputo farsi valere in maniera del tutto degna in opere come Child 44 e il gioiellino Locke. Tutto sommato però la trama narrativa si appiattisce su questo dualismo che si risolve con l’alternanza tra i due protagonisti e le loro vicissitudini, intervallate dalle visioni oniriche di un Di Caprio convalescente che non appena riacquista forze vive qualche situazione che lo riporta sull’orlo della morte.
Ma in questo caso pare che all’esistenzialista Iñárritu non interessi molto approfondire le dinamiche di una trama di per sé molto lineare (e con alcune battute abbastanza scontate dal punto di vista del dialogo): Revenant è, di fatto, un western contemporaneo dove si contrappongono due modelli di umanità ben rappresentati dai due protagonisti e dove l’estetismo del regista si antepone a qualsiasi altro fattore filmico, a differenza dei capolavori di inizio carriera, come 21 grammi e Babel, dove le psicologie dei personaggi assumevano un rilievo maggiore rispetto ai tecnicismi.
Ma saremmo ingenerosi a (s)valutare Revenant solo in base a un confronto con gli esordi del regista, come è sbagliato qualsiasi confronto in generale tra le varie opere dello stesso artista. Stiamo effettivamente parlando di un film la cui tecnica è indiscutibilmente perfetta. Iñárritu si conferma uno dei maestri del piano sequenza, aiutato dagli attori che sono davvero al meglio delle loro possibilità e coadiuvato da una fotografia capace di far immergere lo spettatore nei gelidi paesaggi invernali del Nord Dakota, dove ghiaccio e fuoco si alternano proprio come le vicende dei due protagonisti, in un’altra simbolica alternanza di valori.
È un dato di fatto che l’ultimo lavoro di Iñárritu soffra di un gap che separa abbastanza nettamente la buona qualità dell’azione filmica dallo sviluppo della trama narrativa, che alterna alcuni momenti di straordinario realismo a pochi altri passaggi che, nella loro foga di sottolineare gli estetismi della regia, risultano essere davvero poco credibili. Senza svelare nulla (la si vede nel trailer), è davvero poco credibile la caduta di Glass da un burrone, in sella a un cavallo, alla quale sopravvive. Ma è poco credibile quanto è perfettamente girata.
A essere onesti un po’ tutto il plot su cui regge la storia è poco credibile, perché se il vero Hugh Glass nel 1823 sopravvisse all’aggressione dell’orso, non sarebbe certo uscito vivo dalla serie di mortificazioni fisiche a cui invece è sottoposto il “nostro” Glass. La sceneggiatura di Revenant – Redivivo sembra infatti il pretesto perché regista e attore principale possano mettere in mostra il meglio delle proprie capacità. Ma questo non è certo un male, perché la coppia Iñárritu-Di Caprio attua alcune sequenze che danno al film uno spessore cinematografico non indifferente.
Il piano sequenza iniziale, quello dell’attacco degli Arikara nei confronti della compagnia di cacciatori, offre quanto di meglio possa offrire un tale momento di cinema: mistero, suspense, coinvolgimento e un’angosciante attesa di scoprire cosa stia succedendo e soprattutto perché. Un altro momento importante è la scena dell’aggressione dell’orso, girata in piano sequenza (e quindi senza montaggio) e grazie ad alcuni espedienti tecnici che hanno permesso a uno stuntman di incarnare l’enorme grizzly grazie alla CGI (computer-generated imagery), mentre Di Caprio veniva strattonato da alcuni cavi per rendere iperrealistiche le reazioni del suo corpo in balia del grosso mammifero.
Ma in linea di massima è tutto il film a godere di quella perfezione tecnica che rende Iñárritu un regista caro al sistema di produzione hollywoodiano, ma ancora capace di sperimentare e di mettersi in gioco creando “prodotti” filmici che difficilmente sono capaci di scontentare gli spettatori attenti all’estetica delle pellicole. C’è da dire che la linearità della trama non è comunque accompagnata da una pari povertà di contenuti. Il tenace Glass ripropone (come già succede in tanta altra cinematografia) la lotta per la sopravvivenza, capace di ingigantire le facoltà psicofisiche di un corpo umano. Tanto è vero che l’epilogo del film metterà i due antagonisti uno di fronte all’altro, mostrando allo spettatore una sorprendente e inaspettata reazione finale di Glass.
Fino al suo corpo, disteso nella gelida neve, spossato e stanco, abbandonato da quel “sacro furore” che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Con uno sguardo in camera finale, a cui è difficile dare una spiegazione semiotica, ma che tecnicamente chiude un cerchio. È un primo piano a inquadratura fissa, totalmente opposto al piano sequenza in campo lungo che caratterizza l’incipit.
Ma questa dualità è un’altra delle antinomie che caratterizzano il film, nel quale i campi lunghissimi e le panoramiche dei paesaggi e delle immensità naturali, si alternano ai primissimi piani del folle Fitzgerald o del dolorante Glass, mettendo a confronto la spietatezza e l’indifferenza della natura con l’insignificante e piccola presenza dell’uomo rispetto ad essa. L’arrogante follia di Fitzgerald e l’orgoglioso dolore di Glass, di fatto, non sono nulla rispetto all’incombere del gelido inverno che tutto paralizza e che non ha pietà. Ecco quindi che le riprese di ampio respiro sono inanimate, prive di umanità (nel doppio senso che non vi sono esseri umani, ma che non v’è nemmeno spazio per la pietà) e le scene coi singoli protagonisti sono quasi tutte in primo piano, disposte in un atteggiamento fisiognomico e spietato nei confronti del dolore psicologico e fisico dei protagonisti, dove sangue e follia sono gli elementi concreti e astratti della caducità dell’essere umano, che in quell’immenso scenario naturale uccide, fugge, sopravvive e cerca vendetta, per poi tornare a essere, appunto, un corpo che s’abbandona senza forze nell’immenso biancore della gelida neve.
Nicola ‘nimi’ Cargnoni
Revenant
(titolo italiano: Revenant – Redivivo. USA/2015)
Regia: Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura: Mark L. Smith, Alejandro González Iñárritu
Soggetto: Michael Punke (ispirato al romanzo omonimo)
Musiche: Carsten Nicolai, Ryûichi Nakamoto
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Stephen Mirrione
Scenografie: Jack Fisk
Costumi: Jacqueline West
156′