Nel “testamento” di Thomas Bernhard, Estinzione. Uno sfacelo – pubblicato nel 1986 quando chi scrive queste righe nasceva – granitico plinto illuminato da squarci di lucidità abbagliante in una prosa da “dissociato ostinato e sdegnoso ai limiti d’un manierato virtuosismo” (Treccani, Appendice 1979-1992), si legge: “Il nazionalsocialismo è il male austriaco più grande accanto al cattolicesimo, pensai, come il fascismo lo è in Italia accanto al cattolicesimo.” Una tipica frase à la Bernhard che rivela la sua verità oggi, quando non molti voglion fare i conti con l’eredità del Ventennio. Nessun film italiano è efficace quanto Il potere (1972) di Augusto Tretti (scomparso nel 2013 e sottovalutato dall’ignobile etichetta di “naïf”) nel raccontarci, fra le altre forme di potere, il marionettismo fascista. Tretti si camuffò da Mussolini con una maschera grottesca: goffo sembiante d’omaccione tarchiato e “virile”; “bello” addirittura per tante donne dell’epoca, che avrebbero ambito a essere le amanti d’un simile molosso. Sfondo dei proclami del Duce erano le architetture novecentiste, che per lo più avevano assimilato di qua e di là dal razionalismo, dall’espressionismo della Sezession (penso ad Arduino Berlam con il superbo palazzo Aedes di Trieste) non senza però ereditare le bizzarrie dell’eclettismo, che consente alla Stazione Centrale di Milano di Ulisse Stacchini d’essere tuttora un capolavoro, nonostante l’ideologia e i recenti restauri deplorevoli. Oppure, nel centro di Bergamo, penso al Palazzo delle Poste e Telegrafi di via Masone progettato da Angiolo Mazzoni – con opere all’interno di Mario Sironi – la cui severità è stemperata da una vasca con l’imponente scultura d’un curioso delfino, opera del grande Nino Galizzi, che tributò fra l’altro – nel secolo scorso – un busto in bronzo a un mio avo (forse sgraffignato al cimitero da qualche appassionato). Teatri architettonici magistrali, forgiati per vaniloqui scolpiti sulle facciate degli edifici, che non sempre possono vantare la bellezza di quelli citati. È il caso della sede del municipio del paese di Nembro, nella Media Valle Seriana bergamasca, ove vive chi scrive, realizzato dall’architetto Alziro Bergonzo. Autore anche dell’Auditorium di Piazza Libertà a Bergamo e della torre all’ingresso della città, Bergonzo ha progettato di tutto, e – a meno di difese filologiche – non è paragonabile ai citati Stacchini e Mazzoni. Particolarmente greve è infatti la sede del municipio di Nembro recentemente restaurata, sulla cui facciata spiccano oggi le parole rese laccate e lustre: “L’avvenire è nostro. Nel segno del Littorio abbiamo vinto. Nel segno del Littorio vinceremo domani.” Nel Dopoguerra la frase fu resa illeggibile. Oggi, i filologi considerano fondamentale preservare anche le frasi delle architetture fasciste. Anche quando sono idiozie solenni come quella testé citata. Anche quando stanno sulla piazza del mercato e gravano sulla popolazione, rischiando di scolpirsi negli animi a furia d’esser lette ogni giorno. Frasi lapidarie e cubitali sulle piazze non sono infatti paragonabili ai libri inerenti ad apologie del fascismo: chi li legge se li va a cercare e non li trova sulla sua testa andando a pagare una bolletta in banca; o è infatti uno studioso (si spera) o un consapevole nostalgico. Dopo aver avvertite tutte le autorità locali e non locali, comprese le associazioni partigiane, senza aver ricevuta risposta fatta eccezione per quella conciliante ma non risolutiva del sindaco (stavo per scrivere “sendaco”, come dice il villico nella serra in Totò a colori) del paese – il quale non poteva non rispondere, visto che la famiglia dello scrivente fece dono al comune stesso, nel 1957, della Fondazione “Maria Antonietta Savoldi” onde contribuire a far studiare ogni anno, nel segno della cultura e dell’antifascismo, universitari locali distintisi per meriti –, mi sono consolato con il pensiero che Tretti avrebbe compresa la mia indignazione. E forse ne avrebbe realizzato un cortometraggio nel suo inimitabile stile – lui che si muoveva dalla piccola Lazise in provincia di Verona dove viveva – nel quale avremmo forse visto le autorità politiche locali, sdentate, avvinazzate e quasi ai limiti della demenza, compiacersi l’un l’altra per il restauro della valorosa scritta, al suono d’una tromba stonata della classica bandaccia di paese; con il prete pasciuto e tondo, rubizzo e bonario, il quale elargita la sua santa benedizione, si sarebbe precipitato a gozzovigliare al rinfresco, mangiandosi tutte le pizzette, “giacché” – come avrebbe potuto cicalare con alito fetido qualche oscuro maestro elementare, claudicante, miope e decrepito, con uno di quei giubbotti color cammello gualcito –: “in fondo in fondo… Mussolini è stata una brava persona!” •
Dario Agazzi