Arctic Monkeys, “Tranquillity Base Hotel & Casino”, dissimulare il parossismo

Arctic Monkeys, Tranquillity Base Hotel & Casino
Domino Records, 2018

Star Treatment, il pezzo che apre il disco, si presenta come una ballata retro, dai suoni ovattati, che ripesca nell’immaginario, saccheggiato già a sufficienza, degli anni ’50-inizio ’60. Gli Arctic Monkeys continuano la costruzione del loro personalissimo ponte sull’Atlantico, un’operazione piuttosto comune tra i musicisti inglesi. In fondo, è fin troppo ovvio sottolineare come la lo zio Sam sia incredibilmente performante nell’ambito della pop culture, perfino la cool britannia, è una ripresa di certo pop melodico anni ’80 più che dei Beatles.
Alex Turner, che ha anche prodotto il disco, sembra volersi staccare dai precedenti lavori, culminati nella registrazione di AM (2013), dove forse si è fortunatamente consumato ed estinto il sodalizio artistico con Josh Homme. Humbug (2009), Suck it and see (2011) e infine AM costituiscono infatti un interessante tentativo di superare la propria dimensione, il proprio spazio-ambiente, quell’indie-rock primi anni ’00, totalmente dimenticato.
Un esperimento naufragato in quel magnifico incompiuto che è AM, un disco sospeso tra la volontà di mettere in atto in una svolta linguistica globale, ma che resta ancorato alla forma canzone. Josh Homme, nella sua lunga carriera di sodale di studio, promotore del Rancho de la Luna a Joshua Tree, non è riuscito dove i Radiohead sono riusciti con una manciata di dischi memorabili.
Per tutto questo, il tentativo di Tranquillity Base Hotel & Casino suona interessante, attraverso una mossa tutto sommato scontata, come ripescare nel proprio retroterra musicale, nelle proprie influenze. Questo lavoro colleziona e mette assieme tante cose buone: restano molti suoni elettronici, soprattutto nelle ritmiche, tornano dei flanger misurati su chitarra e voce, lo sguardo di Turner resta nelle tonalità del cantato puntato sulla carriera solista di John Lennon, di Roy Orbison. Tuttavia, tanti elementi compongono un quadro spiazzante perché abbozzato, il risultato è qualcosa di fuori dalle corde espressive del gruppo. Tra le altre cose, troppo insistito l’uso del piano classico, l’effetto che ne deriva è una teatralità fuori dalle corde degli Arctic Monkeys, che non hanno le carte in regola per scherzare con melodie e sonorità hanno fatto, per esempio, Alice Cooper, Elton John.
Alla fine ne escono fuori 40 minuti, 11 pezzi, non indimenticabili. La title track e For out of five sono buoni pezzi, ascoltabili, ma resta un’incertezza tra il dream rock, gli anni ’50 ed una volontà di tornare indietro per ritrovarsi. Dissimulare il parossismo non propone nulla, resta un’espressione a metà. •

Alessio Librizzi

 



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