articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale numero18 (ottobre 2009), p.6.
CINEMA CINESE INDIPENDENTE E CENSURA
Nel corso di sei anni, il regista indipendente cinese Zhao Dayong ha trascorso diversi mesi tra gli abitanti di Zhiziluo, un villaggio povero e dimenticato sulle montagne che segnano il confine con il Myanmar.
Usando un’attrezzatura semplice e finanziandosi da solo, li ha filmati per quello che poi è diventato “Ghost Town”, documentario di tre ore che rappresenta uno straordinario, ipnotico e intimo ritratto della vita in Cina.
Come tutti i registi indipendenti, Zhao Dayong ha lavorato senza la certezza che il suo film avrebbe poi trovato un suo pubblico o addirittura un luogo dove essere proiettato. Poche migliaia di persone lo hanno potuto vedere in Cina, da quando il film è stato terminato lo scorso anno, alcune centinaia ne avranno avuta l’occasione quando il film è stato presentato al New York Film Festival lo scorso 29 settembre.
Ma ciò che rende il film degno di nota anche per chi non l’ha ancora visto, è il fatto che si tratta di un progetto apparentemente illegale.
Infatti, il governo cinese ha stabilito che tutti i film prodotti nel Paese devono essere sottoposti alla censura prima di essere presentati al pubblico, compreso il caso di proiezioni in Paesi stranieri.
Zhao ha efficacemente sintetizzato il provvedimento spiegando di non avere sottoposto il suo film alla censura in quanto “sarebbe come chiedere di essere violentato”. “Il governo ha certamente un suo ordine del giorno e questo comprende il fermarci” – ha continuato – “Ma allo stesso tempo noi sappiamo che stiamo facendo qualcosa che è denso di significato”.
Si tratta questo di uno tra i tanti esempi di giovane cineasta indipendente che sfida le leggi del Paese con l’intento di perseguire i suoi intenti artistici.
Mentre il governo ha sempre avuto il controllo sul cinema – dalla produzione alla distribuzione – si fa strada una nuova generazione di registi che è spesso priva di istruzione formale nel cinema e che lavora con mezzi minimi grazie anche alle nuove tecnologie che permettono un allontanamento del cinema dalle restrittive maglie del governo (uno tra i tanti esempi, quello di Ying Liang, il cui primo film Bei yazi de nanhai – Taking Father Home, girato con una videocamera presa in prestito, ha avuto modo di farsi notare in numerosi festival occidentali).
Il fenomeno, quantificabile in circa 200 film ogni anno, rappresenta un’occasione di assistere a un ritratto fedele e disincantato della Cina contemporanea che spesso è introvabile nelle opere di richiamo accettate dalla censura governativa.
Con la televisione territorio totalmente inaccessibile alle opere indipendenti, in Cina qualcosa sta pero cambiando: almeno quattro festival dedicati al cinema indipendente e due sale – piccole – in tutto il Paese sembrano dimostrare che il governo preferisce lasciare che questo cinema si muova in un area grigia e indefinita che rimane comunque lontanissima dal grande pubblico. Un modo, forse, per allontanare le accuse di operare una censura politica rigida lasciando che questo cinema rimanga comunque inedito agli occhi del grande pubblico.
Che questo possa essere davvero considerato un pur minimo cambiamento appare però dubbio: minacce, messe al bando e intimidazioni sono all’ordine del giorno, soprattutto per coloro che osano fare attraversare le frontiere ai loro film.
L’articolo di Kirk Semple “Indie Filmmakers: China’s New Guerrillas” è pubblicato integralmente sul sito del New York Times all’indirizzo: http://www.nytimes.com/2009/09/27/movies/27semp.html
Una sintesi è pubblicata su Internazionale (n. 815, 2/8 ottobre 2009).