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Khamsa (Francia/2008)

di Karim Dridi

Marco (interpretato dall’esordiente Marc Cortes) ha undici anni, un passato complicato alle spalle ed un futuro ancora più drammatico. Fuggito dalla famiglia a cui era stato dato in affido torna al campo nomadi dov’è nato (siamo nella periferia di Marsiglia) per riunirsi alla propria famiglia naturale, che però lo accoglie con fastidio. La madre lo scansa come un peso, mentre il padre non è assolutamente in grado di prendersi cura di lui perché troppo indaffarato a bere e a darsi virilmente da fare con qualche ragazza. L’unico affetto del bambino è la morente nonna, che costretta in un letto all’interno d’una baracca del campo spirerà di lì a pochi giorni.
Marco osserva il mondo con dei grandi occhi neri persi nel vuoto, la vita sembra scorrergli addosso priva d’alcun senso.
Riallaccia i legami amicali con la banda di ragazzini che il degrado suburbano produce in quantità, ritrova suo cugino Tony – un curioso ragazzo affetto da nanismo (interpretato da un bravissimo Tony Fourmann) – che si arrangia organizzando combattimenti clandestini di galli e altri piccoli traffici – tutto sommato innocui; ritrova anche Coyote, un ragazzo poco più grande di lui con il quale incomincia a compiere i primi furti che in poco tempo divengono sempre più sfrontati.
Sarà quando i due incontreranno Rachitique, un ragazzetto d’origini arabe che abita in un altro quartiere (anch’esso)periferico, che il gioco diverrà sempre più pericoloso: inizieranno a compiere furti negli appartamenti, incontrando ben presto spiacevoli sorprese. Questo l’impianto della storia, che per onor di cronaca recensoria, volgerà in una tragedia insensata e disperante.
L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un film di stampo neorealista, una nuova applicazione ortodossa dell’assunto zavattiniano (più teorico che mai realmente applicato) del pedinamento dell’uomo della strada. In questo caso il soggetto della narrazione è un bambino di origini rom dal momento del suo ritorno nel campo fino al tragico epilogo.
Dridi racconta una storia drammatica di stampo realista, non lasciando nulla alla fantasia, ci immerge nella disperante realtà dei campi nomadi di questo primo decennio del nuovo millennio, luoghi tenuti a debita distanza dal cuore delle città, ma soprattutto dagli occhi; luoghi che in questi mesi sono arrivati sulle prime pagine dei giornali italiani a causa d’una infame campagna d’odio verso il diverso, il non omologato, il “brutto sporco e cattivo”: caproespiatorio designato da un “potere” sciatto e famelico di “consenso” epidermico; ma questo è tutto un altro discorso…
Forse il riferimento cinematografico più prossimo all’autore, vuoi per cultura vuoi per “scuola”, è il truffautiano “I quattrocento colpi”, quasi tutto il film si svolge all’interno del mondo di questi ragazzini che cercano di muovere qualche euro ricorrendo a furti e rapine all’interno d’un crescendo di violenza e sopraffazione che l’Antoine Doinel di cui sopra conosceva ad un livello assai più soft di questi piccoli adulti.
Il limite principale del sesto lungometraggio del franco-tunisino Karim Dridi è l’essere un film forzatamente sospinto verso la tragedia in cui non un barlume di speranza è rintracciabile in alcunché, un film a tesi che in ogni sequenza ribadisce la propria disperante visione delle cose e che trova, forse proprio nel finale, il suo momento meno convincente e più fastidioso, perché la morte di Marco, quella specie di suicidio scaturito da un avventato gioco pericoloso, è un qualcosa di simile alla goccia che fa traboccare il vaso della sopportazione dello spettatore.

Cosa aggiunge un finale del genere ad un racconto già così categorico?

Il film comunque è ben fatto e di sicuro interesse, racconta con taglio documentaristico una realtà della quale ben poco si conosce davvero e della quale possediamo nella memoria un numero limitato di immagini che questo pellicola può aiutare ad ampliare. Anche solo per questo motivo il film è necessario, per questo mi auguro nel coraggio di qualche distributore italiano; perché qui la situazione è davvero preoccupante e tutto quel che potrebbe aiutare il dialogo e l’integrazione è oggi più che mai necessario ed urgente.

Alessio Galbiati

Khamsa
(Francia/2008)
regia, scen.: Karim Dridi
fotografia: Antoine Monod
mont.: Lise Beaulieu
suono: Michel Brethez, Jean Gargonne
interpreti: Marc Cortes, Raymond Adam, Tony Fourmann, Mehdi Laribi, Simon Abkarian, Magali Contreras
formato: 35 mm, 1.85
durata: 110’

l’articolo è stato pubblicato su RAPPORTO CONFIDENZIALE. SPECIALE 61° Festival del Film di Locarno. 6-16|8|2008 | SETTEMBRE’08 (pag.42-46). link



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