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articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale – numero16, luglio-agosto 2009 (pagg. 28-33).

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TreQuarti (Italia, 2009)

di Roberto Rippa

In una Milano irriconoscibile, fredda e inumana, il rapporto coniugale di Eva e Daniele si tiene a galla attraverso un mare fatto di mezze verità e rigida routine quotidiana. Quando la capacità di rimozione di cui Daniele si è da sempre fatto scudo, si sgretola inaspettatamente, egli dovrà affrontare i propri spaventosi istinti, mentre un uomo venuto da lontano intaccherà il fragile equilibrio della coppia.

Quello che Roberto Longo mette in scena in TreQuarti, sorprendente lungometraggio opera prima, è un racconto per sottintesi, per sottrazione degli elementi narrativi più scontati in favore del dettaglio, del suggerimento e delle atmosfere. Concedendosi grande libertà visiva, lascia che sia lo spettatore a cogliere l’elemento rivelatore che può giungere dallo sfondo, si tratti del suono che giunge dal televisore o il particolare del mondo esterno all’angusto appartamento in cui si svolge gran parte della vicenda, evitando la tentazione della ridondanza grazie alla scarsa presenza di dialogo tra personaggi che effettivamente hanno ormai poco da dirsi e molto da nascondere, apparentemente anche a sé stessi.
Sospeso nello spazio e nel tempo – ma benissimo ancorato alla città in cui è ambientato, intuibile per atmosfera più che per rivelazione dei suoi elementi – TreQuarti fa ottimo uso di ogni elemento filmico: dai piani sequenza, che mettono a nudo i personaggi anche nelle loro mostruosità quotidiane, all’uso del suono, quasi un quarto protagonista.
Contribuiscono alla riuscita del film le brillanti interpretazioni degli attori – con la notevole Magdalena Strauchmann in testa – e le musiche del britannico Alex Baranowski.
Mescolando al dramma quotidiano di una coppia ironia e puntuale condanna di alcuni modelli imperanti, Roberto Longo realizza un’opera ambiziosa che rimane impressa al di là del tempo della visione. Un’opera riuscita, coinvolgente, precisa e molto più brutale di quanto la trama indurrebbe a pensare.

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TreQuarti (Italia, 2009)

CAST TECNICO
Scritto e diretto ROBERTO LONGO
Fotografia ROBERTO LONGO
Montaggio e CC ROBERTO LONGO
Musica ALEX BARANOWSKI
Sound design FRANCESCO FRANCHINA
Montaggio del suono ROBERTO LONGO

CAST ARTISTICO

MAGDALENA STRAUCHMANN
MASSIMO MUNTONI
DANIELE FERRARI
CAMILLA CATTANEO
MAX BANNÒ
SARA PESENTI

NOTE TECNICHE Anno di produzione: 2009. Nazionalità: Italiana. Location: Milano – Italia. Formato video: 1,78:1, Colore. HD720 24P. Durata: 75’

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Il regista

Roberto Longo nasce a Milano nel maggio 1980. Si diploma nel 1999 e per diversi anni si dedica alla ricerca artistica, attraverso soprattutto musica e fotografia. Queste esperienze lo porteranno nel 2005 a realizzare di voler fare cinema. Nel 2006 inizia una collaborazione con Domus Film, piccola casa di produzione milanese. Nel 2007, insieme ad alcuni filmakers indipendenti, fonda “Filmmaking.it” – forum e portale dedicato ai filmmakers italiani – del quale è tuttora amministratore.
Sempre nel 2007 inizia la scrittura del soggetto di TreQuarti che produce in maniera totalmente indipendente durante i successivi due anni.
Attualmente sta lavorando al soggetto del prossimo lungometraggio insieme allo sceneggiatore Massimo Vavassori.

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INTERVISTA A ROBERTO LONGO
di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

RC: Prima, inevitabile, domanda: dov’è possibile vedere il tuo film?

RL: Al momento da nessuna parte. Questo perché attualmente lo sto inviando ai festival di tutta Europa e questi chiedono di poter presentare il film in anteprima. Appena cadrà questo vincolo, renderò immediatamente disponibile il film, ovviamente online. Purtroppo ormai molti festival includo esplicitamente nel loro regolamento questo vincolo all’anteprima considerando anche la messa online del proprio film alla stregua d’una proiezione.

RC: Quali sono state le tue esperienze in ambito cinematografico prima di TreQuarti?

RL: A livello registico nessuna, questa è la mia opera prima. Prima di TreQuarti non avevo mai girato nulla, diciamo che mi sono occupato d’altro… Di musica, lavorando in qualche studio come fonico e arrangiatore… ho anche avuto una band. Poi, nel 2002-2003, mi sono dedicato alla fotografia. Dopo queste esperienze, ho realizzato che il mio desiderio era quello di fare film. Non avevo un’idea ben precisa su quali passi compiere, da quale parte incominciare, però sentivo che era quello che volevo fare.

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RC: Solitamente si incomincia realizzando cortometraggi, sembra quasi un percorso obbligato, una specie di palestra che da modo di acquisire confidenza con le difficoltà del fare cinema. Tu invece esordisci con un lungometraggio, come mai?

RL: Sono stato combattuto, nel senso che quando ho iniziato a progettare quello che avrebbe potuto essere il mio primo lavoro, pensavo effettivamente a un cortometraggio. Poi ne ho visti parecchi e mi sono reso conto che mi interessava poco quella forma. Sentivo il bisogno di certi spazi, volevo dire determinate cose. Sentivo insomma il bisogno di realizzare almeno un mediometraggio, ed infatti ho iniziato a scrivere un soggetto pensando proprio alla durata di un mediometraggio.

RC: La storia di TreQuarti da dove nasce?

RL: Volevo girare un film che parlasse della comunicazione indiretta che regola i rapporti di coppia stabili. Questa è stata l’esigenza iniziale. Quindi ho pensato a quale avrebbe potuto essere lo stimolo a livello narrativo e mi è venuto in mente il comunicare indirettamente attraverso lo specchio del bagno (si riferisce ad una delle svolte narrative presenti nel film, ndr). Questo è stato il primo spunto, il primo input.

RC: Dopodiché hai scritto una sceneggiatura, oppure hai lavorato mano a mano che giravi?

RL: Dopo la stesura del soggetto ho scritto un racconto per me, per provare a immaginarmi la storia. Successivamente ho scritto una sceneggiatura a mio uso e consumo, non era in realtà un vero e proprio script anche se, una volta entrati in scena gli attori, ho iniziato a scrivere un qualcosa d’assai più simile ad una sceneggiatura tradizionale, formale.

RC: Dal punto di vista filmico, avevi già in mente come girare, le questioni tecniche da affrontare? Hai avuto qualcuno che ti consigliasse?

RL: Non mi sono fatto aiutare perché ho iniziato a incontrare potenziali collaboratori a film già in corso di lavorazione. Non avendo fatto nulla prima e non frequentando persone che avrebbero potuto supportarmi, ho fatto tutto da solo. Non perché fosse un mio desiderio, collaborerò sicuramente già per il prossimo progetto, per cui sto lavorando con lo sceneggiatore Massimo Vavassori.
In TreQuarti sono stato costretto a muovermi da solo, col supporto di tante persone ma senza avvalermi di figure tecniche precise. Ho lavorato con un sound designer che è intervenuto a lavorazione ormai avanzata.

RC: Proprio parlando di suono, nel film ha una parte molto importante, quasi fosse il quarto protagonista della storia. È una cosa cui hai pensato successivamente o faceva parte delle tue intenzioni iniziali?

RL: Lo pensavo così sin dalla fase di scrittura. L’ho saputo dal momento in cui ho chiarito a me stesso quali sensazioni volevo trasmettere, quindi nei primissimi momenti di lavoro alla sceneggiatura. In quella fase ho fatto una cosa per me molto importante: mi sono creato un foglio di intenti per non trascurarne nemmeno uno. È diventato una sorta di schiaffo in faccia, pronto a ricordarmi un intento abbandonato. Uno di questi era proprio il lavoro sul suono.

RC: Deviando un po’ il discorso volevamo domandarti qualcosa sulla realtà dalla quale nasce il tuo cinema. In una precedente risposta hai detto che prima di incominciare a girare TreQuarti non conoscevi molte persone che si occupavano di cinema. Insomma, vorremmo sapere di dove sei? Da dove arrivi e dove hai prodotto il film? Evidentemente non stai a Roma…

RL: Vivo in provincia di Milano, zona Rho, ma fino al 2006 vivevo a Garbagnate, che è il posto dove sono cresciuto. È’ vero, non ho mai avuto vicino a me persone che si occupassero di cinema ma sono sempre entrato in contatto con persone che si occupano di fotografia, musica e tanti appassionati di cinema. Le frequentazioni erano comunque favorevoli, non dal punto di vista operativo ma dello stimolo sì.

RC: Sei arrivato al cinema guardando il cinema, questo è inevitabile, ma che tipo di cinema hai avuto modo di vedere da ragazzo? Tenendo conto che in quelle zone del profondo nord sostanzialmente non esistono le sale cinematografiche e che fondamentalmente manca una cultura dello spettatore.

RL: Non saprei. Non sono mai stato un fanatico e non mi sono mai affezionato a un regista particolare. Questo però non significa che io non abbia preso a mani piene da tutti. Dal punto di vista estetico alcune influenze non vengono direttamente dal cinema. Mi porto dietro le foto che ho fatto, credo. Proprio dal punto di vista del singolo punto macchina.

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RC: Parlando di isolamento dal cinema ufficiale, tu sei uno dei promotori di filmmaking.it, un sito che ambisce a diventare un punto di riferimento per gli operatori del cinema indipendente italiano. Si tratta di un progetto nato proprio in occasione del lavoro su questo film o ne è indipendente?

RL: Quando ho pensato di lavorare a un film, ho iniziato a cercare risorse in rete. Anche per scoprire i mezzi adeguati alle mie esigenze e alle mie tasche. Quindi ho iniziato a frequentare i forum, in particolare Videomakers.net., dove ho “incontrato” Omar Pesenti (RC ha dedicato un approfondimento al regista bergamasco sul numero9 della rivista, ndr.), Michele Salvezza e Massimo Vavassori, con i quali ho iniziato il cammino di Filmmaking.it, che nasce dalla convinzione che cinema e video siano pratiche fondamentalmente diverse, e che di conseguenza le esigenze dei filmaker e dei videomaker siano altrettanto differenti.

RC: Nella realizzazione del film dapprima hai scritto un racconto, quindi lo hai immaginato a livello visivo e hai pensato al suono. Come hai proceduto con la trasmissione di queste informazioni, al momento di iniziare a girare, alle persone che lavorano con te, soprattutto gli attori?

RL: Forse per via dell’entusiasmo che avevo, ho coinvolto facilmente chi ha partecipato. In particolare gli attori. Secondo me una sceneggiatura come questa è ben gradita da un attore che abbia voglia di mettersi alla prova con qualcosa di complicato e con determinati spazi. Perché mi rendo conto che gli attori, soprattutto se vengono dal teatro, soffrono un poco in una situazione di ripresa legata al futuro montaggio. In TreQuarti c’era forse più possibilità di esprimersi.

RC: Nel film c’è un uso insistito del piano sequenza. Viene dal tuo retroterra di fotografo?

RL: No, non credo. Secondo me, semplicemente, TreQuarti ne aveva bisogno. Non penso che farò un film simile, non mi fossilizzerò su determinate scelte. In TreQuarti c’era bisogno del piano sequenza in diversi punti, come in altri c’è stato bisogno del Jump Cut.

RC: Una scena del film colpisce particolarmente: la ragazza è seduta sul divano e l’uomo si muove sullo sfondo della stanza. È un’immagine molto statica mentre dal televisore giungono immagini ipercinetiche tratte da I tre giorni del condor (Three Days of the Condor di Sydney Pollack del 1975, ndr.). Come mai la scelta di questa sequenza?

RL: Sì è proprio quello il film, è una scena di lotta. Mi divertiva. Il protagonista torna casa con un problema da affrontare, lui e sua moglie non si rivolgono parola se non per parlare del divano consegnato poco prima. Volevo quindi che dal televisore uscissero immagini di ciò che i due avrebbero voluto farsi: c’è una scena di lotta e una sparatoria. Avevo bisogno di contrastare la calma apparente in casa con il subbuglio proveniente dal televisore. Ho scelto quella sequenza de I tre giorni del condor perché mi divertiva a livello visivo e perché mi sembra molto coinvolgente nella economia del mio racconto. Anche l’audio ha avuto la sua importanza nella scelta, lo strillo della donna, i rumori degli spari….

RC: Anche quando i due protagonisti sono a letto, il suono del televisore propone Jeanne Moreau che canta Le tourbillon in Jules et Jim di Truffaut…

RL: Si, quella è proprio una citazione. Il film di Truffaut è uno di quelli a cui sono più affezionato e legato. Soprattutto per le atmosfere. Volevo proprio ringraziarlo in questo modo. La protagonista muove i piedi a tempo con la musica e si coglie un momento in cui pare felice, forse l’unico del film. Gli altri spezzoni audio che provengono dal televisore sono invece una “piccola” critica che volevo muovere al nostro sistema televisivo.

RC: Visto che ci siamo avvicinati al discorso, parliamo degli attori: come li hai scelti?

RL: Magdalena Strauchmann è la mia compagna ed è un’attrice teatrale. La sua parte l’ho costruita su di lei, sulla sua estetica ed espressività. Invece i due attori Massimo Muntoni e Daniele Ferrari, rispettivamente Daniele e Alan nel film, li ho trovati grazie ad annunci messi on-line su cinemaindipendente.it.
Loro sono stati tra i primi a rispondermi, e una volta visionati i curriculum e le foto sono stati i primi che ho deciso di contattare. Fortunatamente mi hanno detto di sì entrambi.
Abbiamo fatto tantissime prove prima delle riprese e anche prima di disegnare gli storyboard.
Era importante per me decidere come fare occupare gli spazi della scena prima di pensare all’inquadratura. Poi c’è stato bisogno di poco, con Magdalena è stato tutto piuttosto semplice. Non saprei definire quanto questa disinvoltura in quegli spazi sia dovuta a lei o a me. Semplicemente ha avuto il tempo per preparare il ruolo molto prima che si iniziasse a girare, avendo assistito alla costruzione della storia.

RC: E con gli altri due attori, che tipo di lavoro hai fatto visto che non hanno assistito alla costruzione della storia?

RL: Con loro è stato diverso. Massimo Muntoni è un attore che ha bisogno di sentirsi confortevole a livello dei movimenti da compiere nella sequenza, poi a questa certezza aggrappa la prestazione, ha bisogno di una costruzione degli spazi molto più dettagliata. Daniele Ferrari ha invece bisogno di parlare della ripresa con anticipo, ha avuto bisogno di capire le mie intenzioni, le pieghe psicologiche del personaggio anche le più sottili. Ha avuto bisogno anche di sentirsi dire come sarebbe stato il montato. È molto esigente da questo punto di vista.

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RC: In quanti eravate sul set?

RL: Dipende. A volte anche solo in due, io e Magdalena, soprattutto per le scene più intime. Il massimo di presenze sul set è stato di venti, per la scena della fabbrica, dove c’erano anche dei carrelli da muovere.

RC: Sorprende non poco sapere che TreQuarti è un’opera prima e non la summa di un’esperienza più lunga.

RL: Probabilmente perché è frutto di un lungo percorso. L’idea che mi sono fatto è che un ragazzo non può iniziare a pensare di fare film prima di avere apprezzato musica, fotografia, pittura ed arte in generale.
Secondo me è possibile fare cinema solo quando si è raggiunta una forma mentale ben definita. A quel punto quando decidi di fare film, sviluppi le conoscenze specifiche necessarie, ma non si può prescindere da una forma mentale precostruita.
Occorre una certa cultura di base per costruire qualcosa di compiuto. E’ necessaria per qualsiasi progetto artistico. TreQuarti è la prima cosa da che faccio e che ritengo compiuta. Prima, con la musica e la fotografia, non posso dire di avere realizzato qualcosa di veramente compiuto. TreQuarti è la prima cosa davvero compiuta che ho realizzato in 29 anni. Penso che in futuro mi muoverò diversamente, però è stata quella forma che mi ha permesso di avere una certa progettualità artistica e mi ha consentito di realizzare questo film in questo modo.

RC: Ci puoi raccontare qualcosa del nuovo progetto cinematografico che stai preparando?

RL: TreQuarti sta influenzando il mio nuovo progetto solo a livello della mia convinzione. Ho meno timori e mi sento pronto a collaborare con altre persone anche in modo massiccio, mi sento preparato a lavorare con molti attori. Quella che io e Massimo Vavassori stiamo scrivendo è una storia corale da camera.

RC: Quali sono stati i costi di produzione?

RL: Ho rimborsato le spese a tutti, ne vado molto fiero. Sui costi è bene dire che i tempi dilatati della lavorazione hanno avuto come effetto positivo quello di abbattere le spese. Il film sarà costato circa 2’000 Euro, al netto delle attrezzature, che non possono essere conteggiate dato che rimangono nel tempo, sono degli investimenti. Sto spendendo di più ora nello spedire il DVD ai vari festival…

RC: Quanto tempo è durata la lavorazione di TreQuarti?

RL: Ho iniziato a scrivere il soggetto nel Dicembre 2006 e ho girato le prime scene a giugno del 2007 per terminare la produzione due anni dopo, nel giugno 2009. In mezzo però, ci sono mesi di impossibilità a proseguire le riprese. Quindi ho girato per qualche giorno nel giugno del 2007 per poi proseguire ad agosto dello stesso anno. Infine c’è stata una lunga pausa interrotta nell’aprile del 2008 perché la fabbrica non era disponibile, per esempio. Nel giugno 2009 ho completato il montaggio video/audio. Per il mix del suono, invece, ho collaborato con Francesco Franchina, un ragazzo conosciuto grazie a Filmmaking mentre il progetto di TreQuarti era già in corso
Le musiche sono di Alex Baranowski; un ragazzo di Liverpool ora trasferitosi a Londra che, secondo me, è un musicista straordinario.

RC: Visto che lo abbiamo citato, parliamo dell’aspetto musicale del film.

RL: E’ uno degli aspetti di cui sono più orgoglioso. Alex Baranowski è giovane e pieno di talento, ha una cultura musicale pazzesca. Ha una flessibilità incredibile e sa ascoltare il regista. Il lavoro con lui è stato fantastico. Abbiamo fatto tutto a distanza, non ci siamo mai incontrati. Ci siamo scambiati il materiale via FTP ed abbiamo comunicato attraverso Skype e le email. L’ho contattato dopo avere terminato il premontaggio. Questa è stata una chiave, nel senso che avevo montato tutto con musiche loopate prese da altre cose. dopo due settimane di scontro feroce – inizialmente è stato così – è stato scritto il tema principale. Il resto è stata una strada in discesa.

RC: Come l’hai trovato?

RL: Quando mi sono messo a cercare il musicista, ne ho trovato uno – Luca Antonini, che ringrazio infinitamente – con cui però non c’è stata sintonia. A quel punto ho setacciato MySpace, una cosa da pazzi, alla ricerca di un musicista ideale. Così ho trovato Alex, che è davvero poliedrico. La musica nel film è strutturale, al pari delle immagini. Spero ci sia l’occasione di lavorare ancora insieme, anche se nel prossimo film ci sarà poco spazio per la musica.

RC: Tornando a Filmmaking.it: il suo obiettivo è quello di diventare punto di riferimento per chi in Italia si occupa di cinema indipendente. Al momento è attivo solo il forum, ma una data di apertura è già prevista…

RL: Siamo a una sessantina di giorni dall’apertura del sito completo. Il sito vuole essere un database di produzioni indipendenti. Un solo portale come luogo virtuale dove tutti si muovono per organizzare produzioni. Da qui l’intenzione di aprire un vero e proprio database con un archivio delle produzioni, con motore di ricerca per cast artistici e tecnici. Tutto ciò perché le alternative attualmente presenti online ci sembrano inadeguate. Ovviamente, la sezione forum sarà indispensabile per creare empatia, per proporre contenuti, discussioni e analisi. L’obiettivo sostanziale è questo. Lo sviluppo del software è compiuto e siamo in fase di beta testing.

RC: Uno dei problemi principali del cinema indipendente – ancora più, forse, per i cortometraggi – consiste nel riuscire a farsi vedere dal pubblico. Filmmaking ambisce a diventare un canale distributivo per il cinema indipendente?

RL: TreQuarti o Di chi è ora la città? di Omar Pesenti hanno come produzione – simbolica – Filmmaking. L’intento è proprio quello di scambiare risorse, affinché le produzioni indipendenti possano venire sviluppate il più possibile.

RC: Trovarsi a Milano o più generalmente al Nord, periferico rispetto a Roma che è ancora la capitale del cinema italiano, è oggi ancora penalizzante? Oppure grazie alla disponibilità delle tecnologie digitali è divenuto sempre meno necessario avere a che fare con la capitale?

RL: Secondo me è una marginalità superabile. Superabile e stimolante. Nel senso che essere lontani da determinati meccanismi permette anche, secondo me, di agire più liberamente. Un regista emergente deve apprezzare l’indipendenza per la libertà che concede. So che se un giorno girare film diventerà il mio lavoro, rimpiangerò l’indipendenza di cui godo oggi.

RC: E’ la distribuzione l’aspetto più delicato per una produzione indipendente?

RL: Si, sostanzialmente la distribuzione. È’ quello il problema più grosso. Attualmente il mio film non è distribuito e probabilmente non sarà distribuibile.

RC: Forse la trappola è credere che esista un mercato disposto ad assorbire film, documentari e cortometraggi. Forse questo mercato non esiste nemmeno, o comunque sta scomparendo… Alla fine, non si sta riducendo il pubblico per il cinema?

RL: L’ambito distributivo rimane quello. Alla fine un film come il mio verrà forse visto nei festival. Non nutro grandi speranze riguardo a una distribuzione. Sarei già contento se questo film mi permettesse di girarne un altro.
Le sale sono sempre meno, a Rho ad esempio, una realtà vicina a me, non c’è nemmeno una sala cinematorafica. Le uniche sale che proiettano qualcosa sono quelle degli auditori, ma in questo caso il discorso è diverso.

RC: Un rimedio non potrebbe essere un aiuto – magari statale – alla sottotitolazione?

RL: TreQuarti ha pochi dialoghi e l’ho potuto sottotitolare in inglese con 50 Euro. Con una traduttrice disponibile a superare il discorso della “cartella”. In rete esistono molte proposte di standard per la sottotitolazione che permettono una riduzione dei tempi nel lavoro. Secondo me non c’è ragione per non sottotitolare la propria opera.

RC: Hai detto di avere visto molti cortometraggi prima di optare per i lungometraggio. Qual è il livello medio dell’immagine italiana nei cortometraggi?

RL: C’è un gap legato al buon gusto. I cortometraggi hanno sempre più un’estetica da videoclip, ricordano sempre di più la fiction televisiva che tende a sua volta a somigliare – malamente – al cinema internazionale del momento. Non è possibile che in tre anni che guardo corti digitali in rete ho già assistito a molte virate a mo’ di pecora verso determinate estetiche. Magic Bullet (o qualsiasi altro), pur essendo un buon software, non può influenzare le scelte estetiche di un film.

RC: Per il montaggio che software hai usato?

RL: Vegas perché è quello che costava meno e più mi ricordava passate esperienze audio. Ho faticato meno a trovarmici, l’ho trovato confortevole. Anche il fatto di arrivare a determinare l’estetica di un film in fase di post-produzione è un discorso secondo me errato. Si può fare tanto in post-produzione, però si deve sapere prima come lavorare in pp e come in camera, devi sapere cosa vuoi ottenere. Oggi sembra che se un corto non ha la profondità di campo strettissima non sia accettabile, mentre nel cinema, quando si è riusciti a ottenere una profondità di campo lunga si è parlato di una rivoluzione. Vedo sempre queste profondità ridottissime come inadeguate, troppo modaiole.

RC: In qualità di regista, di produttore di immagini in movimento, che effetto ti fanno gli streaming audiovideo messi a disposizione dalla rete da siti tipo Vimeo e Youtube?

RL: Lo streaming non è sempre gradevole. YouTube HD concede un’alta definizione però sempre a una compressione cromatica notevole, quindi la perdita c’è. Vedere un film dal proprio lettore DVD sarà sempre diverso dal vederlo in streaming in rete. I sistemi streaming sono penalizzanti. Parlando di conoscenti comuni, quando mi capita di rivedere Di chi è ora la città? in DVD rimango sempre sbigottito dalle differenze esistenti con la versione streaming presente su Vimeo.
Avendo avuto la fortuna di essere stato spesso nelle sale cinematografiche, reputo che quelli siano ancora i luoghi ideali per la visione dei film, la loro importanza è fondamentale.

RC: Da spettatore, quali sono i film che hanno avuto più importanza nella tua vita?

RL: Cito un film che mi ha colpito moltissimo: Hong Kong Express. Non so nemmeno il perché… ma mi ha colpito. Non posso inoltre non citare la trilogia di Kieslowski. Non riuscirei a parlare dei film nella loro interezza. Ci sono molte parti di molti film che mi colpiscono. Non sono un grande cultore del cinema, eppure se ci rifletto prendo a piene mani dal cinema. Ma dire cosa e dove non mi riesce. Magari mi colpiscono due minuti qua e trenta secondi altrove, queste sono le cose che mi rimangono.
Non voglio fare quello che dice di non farsi influenzare, al contrario mi faccio influenzare di continuo, però avere dei riferimenti precisi quello no. Poi se guardo i primi 10 minuti di Full Metal Jacket rimango con gli occhi fuori, ovviamente. Mi piacciono tante cose di Ozon…
Non ricordo quasi mai le storie, fatico a seguire i dialoghi. Se vengo rapito dalle scene, questi elementi mi sfuggono. Più mi piace un film più mi stacco dal suo aspetto narrativo.
Forse è per questo che in TreQuarti i dialoghi sono più rarefatti. Nel prossimo, invece, vorrei mettermi alla prova, per questo stiamo scrivendo una storia con tanti dialoghi e tanti personaggi.

RC: Quando dal televisore si sente la voice di Pasolini che parla dell’assenza di libertà in televisione – il pezzo di critica più feroce espresso dalla cultura italiana nei confronti della televisione – a quel punto del film ci siamo domandati quanto i personaggi della storia da te raccontata non fossero in un certo qual modo essi stessi televisivi. Quanto questa linea sotterranea della narrazione… Ad esempio il momento di massimo imbruttimento di lui avviene proprio quando a letto guarda la tv. Volevamo sapere quanto questi personaggi siano dei fuoriusciti dal teleschermo, dal mondo della televisione, o quanto in essa si specchino…

RL: O storpiati dalla televisione. Ma il discorso non vuole rimanere solo dentro alla televisione, al piccolo schermo, la visione arriva al concetto di città italiana, a Milano, o alla disumanità di certi luoghi.

RC: Effettivamente pare un film lombardo, padano. Perché si svolge praticamente tutto in un appartamento e la situazione si risolve nell’unico altro set del film, che è una fabbrica! Ci sono degli esterni metropolitani, scorci di Milano…

RL: Si, che è orribile: strutture brutte e angoscianti.
Nel prossimo progetto intendo esplorare ciò che mi sono negato in questo. Senza abbandonare però la critica verso il modo di vivere attuale. Anche se saremo altrove e i personaggi saranno tanti, non sarà un bel dipinto di quel contesto.

RC: La città non si vede ma la si percepisce costantemente, è voluto?

RL: Volevo che chi conosce Milano la riconoscesse nel film malgrado manchino elementi noti della città. Si riconosce dallo squallore di certi elementi che fanno di Milano una città potenzialmente bellissima e fondamentalmente molto brutta.

RC: Il denominatore comune della città – e nel film si vede – è la sciatteria, la mancanza di una visione.

RL: È la mancanza di città per il cittadino. Di vivibilità. Uno, secondo me, non può che essere fobico di Milano, se ci abita. Molte altre città, partite con un gap rispetto a Milano, fanno di tutto per superare quella bassezza, mentre Milano ci sguazza.

RC: Milano nel cinema è sempre sfuggente. Anche Antonioni ne La notte, anche lo stesso Miracolo a Milano presenta la sua scena più nota che è in realtà un fotomontaggio. Il prossimo progetto avrà a che fare ancora con la città?

RL: No, non verrà vista. Non ci sarà, sarà tutto ambientata all’interno di una villa al di fuori della città.



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