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Sei gradi di concatenazione

«Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse esistita.»
– Agostino, La città di Dio

L’«inconscio come stato prossimo all’animale», diceva Jung. Temuto animale che la ragione, intesa nel senso più deteriore del termine, respinge e aborre, fino a trasformare i supposti angeli deprivati in perniciosissimi demoni depravati. Oggi ne siamo invasi. Un putiferio, una peste. L’Eros, imputridito anch’esso, represso e ingrigito attraverso l’ipervisibilità in più di cinquanta sfumature, cerca di difendersi. O animal sonhado (L’animale sognato) è una risposta sessuale in sei giornate alla peste contemporanea, fa il paio con il Maraviglioso Boccaccio dei Taviani, un racconto in meno.

Dietro il film c’è la comune di sei giovani cineasti del Ceará (stato del nord-est costiero brasiliano) a firmare un singolare debutto concatenato, un interessante film-radice, dove ognuno realizza un singolo episodio evitando di rivelare quale, senza far sapere chi gira cosa. Tutti per uno e uno per tutti, nessuna soluzione di continuità. Ogni storia cede all’altra con la fluidità densa di un corpo senza organi, pur connettendo corpi e organi (non soltanto sessuali), sguardi e reminescenze, tocchi e touch, il giocare a pallone e il jouer nel senso di recita/rito anche musicali. Allo stesso modo, nelle storie, convergono la ricerca di persone, una recherche del tempo perduto e quel pizzico di ricerca formale. Acerba e complessa come il primo amore, una virginea pulsione che può infastidire ma è vita.

Si tratta di un’opera di immatura profondità, qualcosa non per tutti i gusti, minimalista massimalista. Le sei semplici storie di attrazione si specchiano l’una nell’altra e vedono, a loro volta, i personaggi specchiarsi, con rimbalzi discreti di parti e particelle. Di parties più o meno wild, vedi le feste di compleanno del II e IV episodio, con i balli e la musica (techno e lambada, discoteca e hotel, a casa e fuori). O i misteriosi inseguimenti (primo e ultimo episodio), l’andare al bagno di casa, della palestra o dell’albergo (I, IV, V e VI), il guardare la tele (I e IV) e lo specchio (I, IV, V, VI), far l’amore all’ombra di piante-natura. L’albero urbano della prima vicenda, le palme d’albergo della quinta, gli alberi nascosti dal paesaggio scorto dal terrazzo reale e simbolico della seconda: alberi della vita e della morte.
Un erotismo in fuga continua, dal particolare all’universale, dal luminoso al luccicante intermittente, dall’opaco all’oscuro, in sintonia con i nostri tempi (s)collegati. La stessa logica dell’esplicita variazione sul tema secondo Hong Sang-soo e quella meno compresa, più occulta e nera, disperata, del Gaspar Noé di Irréversible. Sempre nel segno distintivo dell’uno/tutti, del collettivo un po’ omologato, un po’ unità di misura di una specie di Ur-animal, matrice onirica pre-conscia di un sogno dentro un sogno. Non tutto è banale come sembra. O lo è a tal punto da divenire complesso. Pasolini aveva colto questa natura intersecata e luminosamente oscura dell’erotismo, basti guardare la segmentarità viscosa degli strati-episodi della Trilogia della vita, atemporali e onirici. Con un occhio al più famoso testo classico sull’argomento, Il Simposio di Platone, dove Apollodoro rivolge a un gruppo di persone quanto riferitogli da Aristodemo, sulla base di ciò che quest’ultimo aveva attinto da un altro gruppo, capeggiato da Socrate, ispirato lui pure da qualcuno, la misteriosa Diotima. Chi racconta cosa, chi filma che?

 

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Attribuiamo e disattribuiamo, quindi, a Breno Baptista, Luciana Vieira, Rodrigo Fernandes, Samuel Brasileiro, Ticiana Augusto Lim, Victor Costa Lopes, segni e sogni di continui movimenti di deterritorializzazione e destratificazione dello sguardo, come sarebbe piaciuto a Deleuze e Gattari. Più che perfetto amplesso tra forma e contenuto, teorico e pratico. Procedimento che fa del film, nell’idea che lo sorregge e nel risultato che ne consegue, un circolo sessuato, la simultaneità dell’Eros hic et nunc. Un compendio di storia e controstoria dell’amore, fornito delle sue gioie, i dolori, le luminescenze e le deviazioni, dalla Vita alla Morte (proprio alla Pasolini), appagamenti e delusioni, imitazioni e mistificazioni, natura e cultura, ossessione astrazione aberrazione. Tutto già visto, tutto mai visto. D’altronde, il sei rappresenta due triangoli che si baciano, il numero celeste (tre) e il piacere raddoppiati. Vertice maschile in alto, rovescio femminile in basso. Pur soli. Anche se i due implicati appartengono allo stesso sesso. Il sei è l’ermafrodito: la compiutezza di uno (perfezione) più due (divisione) più tre (ri-comprensione). In latino, sex.

Ogni episodio diventa quindi reale e simbolico, uno e bino e trino. La toilette asettica della palestra che apre il film è un luogo tipico dell’immaginario gay e lo si ripropone come tale. Tuttavia è soprattutto associato all’umidità che purifica e (ri)genera. A un sesso giocoso e gioioso, innocente e liberatorio come una minzione. È il segmento meno problematico del gruppo, con appena un accenno di crisi e quello sgommare d’auto presago. L’omosessualità diventa un simbolo in cui l’oggetto del desiderio è come me e si assiste al naturale peana di un erotismo alla pari: senza gerarchie né differenze. L’uno guarda l’altro dormire, spaventandosi del proprio desiderare, sempre (in)naturale, stesso sesso o no, e si interroga muto allo specchio. A rivelarsi e dichiararsi invece è l’altro. E nulla può la reazione inorridita di chi primo ha guardato, desiderando. L’albero che li scorge avvinghiati, dopo una corsa a perdifiato e senza audio, sintetizza cielo, terra e acqua. Il naturale e il soprannaturale, liquido, dell’incontro tra maschile e femminile. Anche se ad abbracciarsi e amarsi sono due uomini.

 

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Due uomini pure Jorge e Lucas, stavolta etero, invitati alla festa di compleanno di Luciana. Osservano due ragazze «dal vestito facile da togliere» e i baci e i movimenti del ballo. Lucas racconta a Jorge che sopra quel palazzo c’è un terrazzo con il quale lui identifica l’infanzia, il posto dove da piccolo pensava ci fosse un’orrida creatura. La pulsione sessuale si sposta su un (non) luogo dell’anima. Diventa ricordo, noumeno, epifania della mente: una fontana di luce. Siamo a casa di Luciana, infatti, e pure Lucas significa luce e illuminazione. Proprio in quel terrazzo, Lucas finirà per accoppiarsi con una delle due ragazze osservate, mentre Jorge e l’altra, reticente e spaventata («dove sono gli altri? »), non concludono niente. Jorge, il lavoratore della terra, ripiega su Luciana, la festeggiata. Una volta di più, terra e (luce del) cielo, unione delle forze primordiali in androgino equilibrio. L’altro rapporto, benché di facile riuscita, godeva forse di troppo lucore. Mentale, culturale. Segna probabilmente, nel film, la fine della spontaneità erotica. Non a caso, si è detto, nel luogo in cui si consuma pare ci fosse un mostro. Un drago contro il quale può far fronte solo (san) Giorgio (mito seguitissimo in Brasile).

Allora, procedendo in calare, ecco gli esercizi ginnici di una ragazza a letto, in bikini, e poi in palestra, con il muoversi del e per il corpo che sembrano (o sono?) amplessi. Spostamento e sublimazione, feticci e surrogati. La ragazza stende le gambe, si abbraccia il ginocchio, sognando altri movimenti (collettivi) in spiaggia mentre suona un carillon (d’infanzia?). La vediamo pedalare in cyclette, dietro un ragazzo sul tapis roulant, la mimesi di una rincorsa impossibile. Sarà un altro giovane a porglisi accanto, tra una flessione e l’altra, e chiedendole il nome. Lei si chiama Renata, cioè risorta, rinata. Lo sembra davvero mentre i due corrono a casa di lei, presi da furibonda eccitazione. Troppa. L’uomo viene subito e lei, delusa, guarda il soffitto, proprio quando l’altro dice che è stato fantastico. Separazione di cielo e terra, nessuna rinascita.

Nella quarta vicenda, la separazione è completata. Un altro compleanno, quello di Júlia. Una festa passata che il padre di lei vede e rivede in VHS, in preda a ossessione erotica incestuosa. Il ricordo e la mitizzazione dei precedenti episodi collassano e degenerano in quelle telecamere, in quelle cassette, nella tele-visione e nell’atto scopico che, con la riproducibilità tecnica dell’erotismo, a partire dagli anni ’80 (la lambada attesta), rimodellano il sesso, lo virtualizzano, portandolo fuori dal cielo e dalla terra. In quel filmato, in quella visione, brulicano Internet, i selfie, lo smartphone, la web camera, l’auto-focus e la contemporanea civiltà cieca d’ immagini. Waste land e waste sex. Anche Júlia tocca la gamba del suo ragazzo, dinanzi alla tv. Il turpe papà guarda invece il soffitto, al pari di Renata, dopo essersi masturbato e aver stretto al bagno, con voluttà disperata, le mutandine della figlia. Un divano, un televisore (o altro monitor), i propri fantasmi e tanta solitudine.

Tutta basata sul virtuale, sull’indistinzione tra realtà e fiction la (non) storia successiva. Una donna sul letto si tocca, dinanzi allo specchio. Siamo finiti nell’hotel di un luogo di vacanza. Un gruppo di uomini e donne gioca e chiacchiera in piscina. Pieno giorno, piena luce. Cala la sera e con essa sopraggiungono fantasie esotiche, oltre che erotiche. Oscure. La donna immagina di essere in piscina tra due uomini. Si vedono amplessi tra lo svolazzare delle palme e la loro ombra mossa sul verde delle pareti. Le Immagini vengono sovrimpresse sugli altri (vedono o immaginano? partecipano o sono voyeur?). Una donna cerca il suo uomo, João. Cioè Giovanni, cioè la grazia di Dio. Ma lui è con un’altra e nessuno può farci niente. Benvenuti nel deserto dell’irreale.

Si approda così a un inferno del sesso, dove è abolita ogni cornice di spazio e tempo. Una donna insieme a due uomini, sull’uscio (o terrazzo?) di casa, a baciarsi con entrambi. Lei esce. Corre, cade. Un uomo nudo la insegue e lei fugge In un bar dove tutti la guardano. Di nuovo dei voyeur e di nuovo (etimologicamente) un mostro: quella ragazza così oscenamente vogliosa. Episodio fanta: She monster. Ancora al bagno, dove si lava il collo e si guarda allo specchio. Nuovamente il ballo. In discoteca. Corpo danzante e sfondo cangiante colore. Riappare l’uomo. Lei riprende a fuggire. Su una scalinata, dove comincia a farsi baciare da due donne e un uomo, fino a che, progressivamente, il gruppo si allarga. Altri uomini, altre donne, un’orgia. Ma ecco ancora l’uomo, fantasma di sesso. Lei isolata a masturbarsi. Da volto e corpo gronda sangue, come fosse sperma in un video porno. Amplesso al sangue con lo sconosciuto (in)corporeo: il nous è stavolta una fontana di buio. L’atmosfera bruta, circondata dalla peste. Adesso la donna ha affrontato corpo a corpo l’inconscio, l’animale. Ne sarà travolta o lo addomesticherà? Una risata di lei ci suggerisce che forse lo seppellirà. Se così non dovesse essere, questo Esamerone, con le sue concatenazioni, le sue rime vitali, può soltanto ricominciare daccapo. •

Leonardo Persia

 

 

O ANIMAL SONHADO
Regia e sceneggiatura: Breno Baptista, Samuel Brasileiro, Rodrigo Fernandes, Ticiana Augusto Lima, Victor Costa Lopes, Luciana Vieira
Fotografia: Filipe Acácio, Juliane Peixoto
Suono: Guto Parente
Montaggio: Érico Paiva
Interpreti: Keka Abrantes, Thiago Andrade, Tatiana Barbosa, Manoela Cavancanti, Patrícia Crespí, Rityelle Dartanhã, Nadia Fabrici, Bio Falcão, Rodrigo Fernandes, Aluísio Barbosa Filho, Glauco Leandro, Júnior Martins, Kardec Miramez, Dario Oliveira, Rayssa Pessoa, Jorge Polo, Armando Praça, Nataly Rocha, Aline Silva, Luciana Vieira, Pry Von Paumgartten
Produzione: Tardo Filmes
Rapporto: 1.85:1
Paese: Brasile
Anno: 2015
Durata: 79′

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