La presente intervista è stata pubblicata su Rapporto Confidenziale, numero30 (dic/gen 2011), pagg. 50-52
“La visione negata. Il cinema di Michael Haneke”.
Intervista a Fabrizio Fogliato
a cura di Alessio Galbiati
Scrivere recensioni è un qualcosa che non mi è mai piaciuto fare; dunque è bizzarro ritrovarsi ogni mese a “dire” qualcosa su di un film. Penso che recensire non debba necessariamente aver come fine la necessità di esprimere dei giudizi, personalmente provo piacere nell’indicare ai fantasmatici lettori un qualcosa che ha attirato la mia attenzione: mettere in luce, segnalare. Tutti verbi che hanno a che fare con la luce, la luminosità, con la porzione di luce con la quale un “qualcosa” viene o non viene illuminato.
Recensire un libro, poi, è un’attività nella quale solo raramente mi sono imbattuto ed ogni volta, invariabilmente, ho sudato le proverbiali sette camice (espressione che non capirò mai!). La cosa più complicata è quella di utilizzare parole per descrivere un prodotto culturale composto da parole, formato da parole, basato sulle parole.
«I miei film sono una sorta di consapevole omissione del lato bello della vita», così Haneke sintetizza in una battuta il cuore del proprio cinema, la propria cifra stilistica. Ogni sua pellicola è disarmante ed agghiacciante, muoversi al loro interno è fra le esperienze cinematografiche più perturbanti del nostro tempo. Basterebbe questa constatazione per farci provare un’incondizionata stima per l’autore di “La visione negata”.
Dopo aver letto la monografia di Fabrizio Fogliato “La visione negata. Il cinema di Michael Haneke” sono andato a sbattere con il muro della suddetta incapacità di descrivere con parole delle parole, per questo ho pensato fosse il caso di provare ad aggirare l’ostacolo, o magari infrangerlo, ponendo all’autore una serie di domande che provassero ad indagare, non unicamente lo “specifico” di questa sua puntuale e suggestiva monografia, ma pure lo specifico della critica cinematografica: le sue modalità, il suo fine. La scrittura per il cinema è divenuta nel corso dell’ultimo decennio un campo di battaglia in cui ad affrontarsi si trovano fazioni contrapposte (i critici “classici”, i cine-blogger, quelli amatoriali, gli accademici, i fanzinari, e chi più ne ha più ne metta) intente soprattutto a screditare i propri avversari per la conquista di una chimerica (dunque supposta – il gioco di parole lo lascio al lettore) autorevolezza; questo inutile gioco perverso pone fuori campo quel che ritengo essere il vero fuoco: cos’è la critica? come si fa a “fare” una buona critica?
Alessio Galbiati: “La visione negata” è un bellissimo titolo per un saggio monografico dedicato ad Michael Haneke ed al suo cinema. Un titolo ad effetto che sottende una visione (appunto) ben chiara sull’Autore austriaco. Nel primo capitolo del libro (online è possibile leggere l’introduzione ed i primi due capitoli. www.issuu.com/falsopiano/docs/haneke) costruisci in poche battute una interessante genealogia dello sguardo hanekeiano che passa dal teatro della crudeltà di Artaud, al post-umano di Bacon, fino al principio della visione di Huxley. Tre citazioni non strumentali che mi sento di condividere appieno… Puoi raccontare ai nostri lettori come hai strutturato ed articolato questa traiettoria entro la quale si inscrive la tua opera?
Fabrizio Fogliato: Il cinema di Michael Haneke è sicuramente un cinema difficile, intelligente e colto. La sua attenzione teorica alla messa in scena della violenza e alle reazioni che la visione di essa induce nello spettatore, è trasversale ed è imperniata sul concetto di “sguardo”. Elemento centrale nel cinema in genere, in Haneke, assume le caratteristiche di una visione policentrica, in cui sia gli studi sulla percezione di Aldous Huxley, sia gli “ostacoli” del teatro di Antonin Artaud, che le “gabbie” della pittura di Francis Bacon, si fondono per tratteggiare i contorni di un occhio che non è più in grado di osservare (con la mente), ma solo di vedere (con gli occhi). C’è un elemento che congiunge questi tre vertici di un ipotetico triangolo, ed è l’azione degli artisti estremi della Vienna Direct Art (Otto Muhel, Hermann Nitsch…), i quali, attraverso performance “pornografiche” negli anni ‘60 e ‘70, hanno denunciato in maniera grottesca e violenta l’assurdità del potere e la valenza liberatoria degli istinti primari. Proprio in questo ambito, così estremo e destabilizzante, affonda le radice “politiche” il cinema di Michael Haneke. Non a caso, il titolo del libro fa riferimento anche e soprattutto alla figura cinematografica del “fuori campo”, utilizzata costantemente in senso “politico” sul tema della violenza, dall’autore austriaco per impedirne la visione allo spettatore e, paradossalmente, per amplificarne la portata perturbante (obbligandolo ad immaginare). Il cinema di Haneke, infatti, si pone come “ostacolo” di fronte allo spettatore: non è mai conciliante, sempre provocatorio, talvolta irritante, perché non vuole dare risposte ma solo porre domande.
Alessio Galbiati: Quanto tempo ha richiesto la realizzazione del volume? E come lo hai realizzato, ovvero da cosa sei partito e come hai strutturato il lavoro?
Fabrizio Fogliato: Una monografia come questa richiede prima un lungo periodo di ricerca, poi una fase di studio e approfondimento (legata anche a materie diverse dal cinema, quali l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi, la musicologia…), per selezionare i materiali e compiere opera di sintesi. L’idea di partenza è stata una frase pronunciata da Michael Haneke e citata nel libro: «I miei film sono una forma di consapevole omissione del lato bello della vita», da qui ho cominciato a pensare sul perché un cineasta dovesse scientemente omettere la felicità dal suo cinema. Poco per volta ho trovato la risposta (che non rivelerò perché è contenuta nel libro), e lungo i 18 mesi di gestazione del volume, ho cercato di trovare strade non allineate al pensiero comune su di lui, talvolta azzardate e talvolta anche provocatorie, per realizzare un libro che non fosse una semplice monografia ma anche e soprattutto, un viaggio dentro la mente dell’autore austriaco. Grazie alla sapiente guida del mio curatore Fabio Francione, devo dire, che l’obiettivo (ambizioso) è stato raggiunto, come dimostrano le svariate critiche favorevoli che il libro ha ricevuto.
Alessio Galbiati: Ho trovato geniale ed illuminante il parallelismo (meglio iperbole?) che proponi fra l’Europa rappresentata da Haneke nel suo cinema e quella di Eli Roth in “Hostel”: un continente attraversato ed abitato da istinti sanguinari ed irrazionali. Che Europa è quella messa in scena nei film del regista austriaco nato nel 1942 a Monaco di Baviera?
Fabrizio Fogliato: Ecco, quello con Eli Roth, è uno dei parallelismi che ha fatto storcere il naso ad alcuni critici: sono contento che tu l’abbia tratteggiato invece come iperbole, perché proprio di questo si tratta. È irriverente mettere sullo stesso piano Roth e Haneke, ma non è irriverente cogliere come entrambi abbiano scattato una fotografia puntuale e precisa dell’Europa contemporanea. Un continente privo di identità, una “poltiglia” di etnie né amalgamate, né integrate; uno spazio asettico e privo di fattori di riconoscimento in cui il vecchio si mescola con il nuovo (in ogni ambito, culturale, linguistico, architettonico, artistico…) e produce “deformità”. Sia in Haneke che in Roth, L’Europa è un non-luogo in cui il Male viaggia sotto traccia, mai esplicito, nascosto dietro il sesso o dentro la famiglia, negli appartamenti borghesi o nelle fabbriche abbandonate, ma la sua persistenza è percorsa da una costante: i vecchi manipolano, violentano, uccidono i giovani, come se l’ancien regime volesse imporre un ultimo disperato colpo di coda prima di abdicare definitivamente.
Alessio Galbiati: Quali sono i testi di riferimento che con maggior frequenza hai utilizzato nello scrivere? O, in altri termini, quali i testi più interessanti dedicati al regista austriaco nei quali ti sei imbattuto?
Fabrizio Fogliato: Al momento dell’uscita della mia biografia su Haneke esisteva un solo testo italiano: un volume editato nel 1998 dal Torino Film Festival per celebrare la retrospettiva dedicata all’autore austriaco e curato da Alexander Horwath e Giovanni Spagnoletti. Altri testi stranieri sono usciti o contemporaneamente a “La Visione Negata”, o subito dopo. Il materiale monografico a disposizione non era dunque molto, per cui sono ricorso a testi in tedesco (alcuni dello stesso Haneke, altri di Alexander Horwath). Stessa cosa per i film: quelli della “trilogia glaciale” sono tutt’oggi inediti in Italia, per cui bisogna ricorrere o alla Wega Film di Vienna o alla Kino Video americana. Inoltre sono stati di grande aiuto gli extra dei vari dvd esteri attraverso cui è stato possibile ricostruire, filologicamente, il pensiero hanekeiano in merito alla sua opera, oltre che rintracciare curiosità, problemi, e scelte relativi alla fase realizzativa di ogni film. Poi, come detto in precedenza, e come testimonia la bibliografia del libro, ho usato testi di altre scienze e arti, cercando di veicolarne i contenuti all’interno della struttura filmica di ogni pellicola e dividendo l’ambito cinematografico da quello teorico-filosofico, attraverso la struttura frammentaria dei vari capitoli.
Alessio Galbiati: Falsopiano ha pubblicato il tuo libro dedicato ad Haneke nel dicembre 2008, prima dell’uscita di “Das Weiße Band / Il nastro bianco”, che fu presentato a Cannes nel maggio 2009 ed uscito nelle sale italiane alla fine di ottobre dello stesso anno. Poco dopo l’uscita del film, alla fine di dicembre 2009, l’editore ha reso disponibile un aggiornamento sotto forma di ebook gratuito sempre da te curato, con contributi di Fabien Mercier e Frédéric Theobald (www.falsopiano.com/hanekeprima.htm). Ci racconti la storia di questo aggiornamento? Come nasce, a quale esigenza risponde – solo una sutura rispetto alla filmografia, oppure c’era qualcosa che mancava nell’edizione precedente?
Fabrizio Fogliato: Innanzitutto si è trattato di un doveroso omaggio al regista vincitore della Palma d’Oro a Cannes, venuto a seguito della retrospettiva integrale su Michael Haneke, che ho co-curato con Fabio Francione (con il contributo del Ministero degli Esteri di Vienna tramite il Forum Austrico di Cultura), tenutasi a Milano e Lodi dal 6 al 12 Ottobre 2009. In secondo luogo, si è trattato di un vero e proprio esperimento in linea con il mio concetto di “cultura”: rendere accessibile a tutti e gratuitamente un fascicolo di sessanta pagine, all’interno del quale poter trovare un ideale proseguimento de “La Visione Negata” e al contempo un volume esaustivo e contemporaneo all’uscita del film nelle sale italiane. Altra scommessa vinta, visto che ci risulta che in molti, dopo aver visto il film hanno pensato di scaricare l’e-book e di cercare risposte a domande irrisolte poste dal film. Ovviamente, non è escluso che ad un’eventuale seconda edizione del libro si possa annettere il succitato fascicolo, per una versione completa e aggiornata.
Alessio Galbiati: “La visione negata. Il cinema di Michael Haneke” è la tua terza pubblicazione, preceduta da “Flesh and Redemption: il cinema di Abel Ferrara”, edita da Falsopiano, e “Saw – Analisi di un successo annunciato” per Morpheo Edizioni. Oltre a domandarti se stai lavorando alla quarta, vorrei pure chiederti come, e attraverso quali modelli di riferimento, hai formato il tuo stile di scrittura?
Fabrizio Fogliato: Quello su Ferrara e quello su Haneke, sono due volumi dedicati agli autori più “amati”, mentre quello su “Saw” è stato un tentativo (che sta dando i migliori risultati sulla distanza) di sviscerare “seriamente e criticamente” i motivi di un successo così clamoroso per un film che, solo dieci anni fa, avrebbe avuto esclusivamente un suo pubblico di nicchia. Attualmente ho terminato da poco un progetto relativo ad un testo integrato tra cinema e storia (mia seconda passione), che è ancora in fase di rettifica e controllo, per cui non è di imminente pubblicazione. I progetti a cui tengo particolarmente e che sto conducendo in parallelo sono tre: la retrospettiva saggistica integrale su un’ autore impari (secondo la puntuale definizione di Alberto Pezzotta) come Brunello Rondi (già terminata e presente in Focus-On), e la sezione “Controcampo” (di prossima apertura) che vuole “dare voce e dignità” al cinema Hard d’autore degli anni’70, entrambe per il network on-line Zabriskiepoint.net; poi sto cominciando a ricercare e studiare nuovi, sconosciuti, e inediti materiali per una rivisitazione del mio volume su Abel Ferrara. La scrittura cerco ogni volta di adattarla al contesto in cui scrivo (quella del libro su Ferrara è più barocca, quella de “La visione Negata” è più asciutta e matematica), anche perché è qualcosa che è connaturato alla crescita e alla maturità dell’autore, pertanto vive e si evolve attraverso una formazione permanente fatta di studi e ricerche, passioni ed emozioni.
Alessio Galbiati: Tu sei un critico cinematografico, specializzazione misteriosa che vorrei chiarire ai nostri lettori insieme a te con una serie di domande attorno allo specifico di questa (bizzarra) professione. Quali sono i criteri attraverso i quali giudichi un film?
Fabrizio Fogliato: Il ruolo di critico, secondo definizione, dovrebbe essere quello di esprimere con competenza e obiettività giudizi in merito ad un film, libro, quadro… Personalmente, ritengo questa strada abbastanza inutile e pretestuosa in merito al cinema: il film è un lavoro collettivo e talvolta la sua riuscita o meno, non dipende da un solo fattore ma da molteplici; inoltre la soggettività “ontologica” del critico impedisce aprioristicamente la sua obiettività. Per questo, quando me lo richiedono faccio il critico in maniera tradizionale, ma se riesco (e fortunatamente è così il più delle volte) cerco di non esprimere giudizi qualitativi ma di argomentare e spiegare. Così come si evince dai mie testi, ritengo il film una struttura complessa e stratificata in cui si compenetrano vari strati narrativo-culturali e in cui interagiscono altre arti e altre scienze (psicologia e psicanalisi su tutte). Inoltre, spesso, il critico è autoreferenziale, più interessato a fare bella figura lui che a parlare compiutamente del film, mentre ritengo che il suo ruolo dovrebbe essere, attraverso le sue conoscenze e le sue competenze, quello di “guida” allo spettatore, in modo che sia quest’ultimo a farsi la sua idea e ad esprimere un giudizio sul film.
Alessio Galbiati: Qual è, a tuo avviso, il ruolo della critica cinematografica nella società contemporanea? Quale dovrebbe o potrebbe essere?
Fabrizio Fogliato: Internet, da un lato ha spazzato via molte ambiguità e molti fraintendimenti, ma dall’altro ha notevolmente abbassato il tasso qualitativo della critica cinematografica: oggi chiunque può aprire un proprio blog ed esprimere giudizi su un film, anche senza competenze o studi di settore. Questo fatto, unito alla modalità “mordi e fuggi” di consumare i contenuti web, costringe l’”autore” a concentrare in poche righe, spesso banali e semplicistiche, contenuti assai più complessi. Questo aspetto, però, alla lunga ha dato un esito positivo, perché oggi (più che in passato), anche sulla rete si possono offrire prodotti e testi di qualità (voi ne siete una chiara testimonianza), in cui non è necessario concentrare la scrittura ma si può anche pubblicare veri e propri mini-saggi di due/tre cartelle (così è nata la mia collaborazione con Zabriskiepoint.net in sinergia con il suo direttore Mauro Conciatori) e trovare un pubblico crescente di lettori competenti e sinceramente appassionati.
Fabrizio Fogliato (Torino, 1974) è un critico cinematografico, per Nocturno e Voceditalia.it (e dal numero30 pure di RC), autore – oltre alla monografia dedicata a Michael Haneke – di “Flesh and Redemption: il cinema di Abel Ferrara” (Falsopiano Editore, 2006) e “Saw – Analisi di un successo annunciato” (Morpheo Edizioni, 2008).
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