Copie conforme > Abbas Kiarostami

Juliette Binoche as She

Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale, numero31 (febbraio 2011), pagg.8-9

Copie conforme (Copie conforme)
Abbas Kiarostami | Francia/Italia/Iran – 2010 – 35mm – colori – 106′
di Luciano Orlandini

Poiché non è possibile conoscere l’originale, né tantomeno la sua natura più profonda, qualsiasi atto, intenzione, proposito, di ridurre la conoscenza a mera descrizione dell’aspetto o di un supposto “significato” espresso dal manufatto (che sia oggetto, opera d’arte, cronaca, storia, umanità, vita) è destinato a produrre un luogo comune, un limite che racchiude la parte più rarefatta del nulla. Ingabbiare l’avventura conoscitiva di un rapporto interpersonale nel racconto (ma anche nell’analisi psicologica) potrebbe portare a una banale catalogazione che nulla aggiungerebbe al dato di fatto in sé. La “bellezza” della storia di una coppia (sposi, amici, fratelli, ecc.) non deve essere annullata dal rischio di etichettare il loro rapporto (crisi coniugale, divorzio, tradimento). La scrittura è la traccia di un’origine perduta (1), di un originale impossibile da trovare (anche noi siamo delle copie, prodotti di un DNA preso di nostri genitori). Come la realtà sfugge al linguaggio impossibilitato a uscire dai propri limiti (2), così l’originale sfugge alle definizioni, illude con la credenza in un atto, in un gesto, obbligando a emettere un giudizio, a etichettare un meraviglioso mondo non definibile. Copia conforme è la storia dell’impossibile ricerca dell’Origine (del mondo, dell’umanità, ma anche di una storia d’amore), è un percorso che non avrà mai termine, perché, una volta trovato, esso stesso sarà poi la copia di un ulteriore originale situato in un altro luogo o tempo (nel caso della Musa Polimnia (3) di Lucignano il luogo di provenienza sarà Ercolano). Ma se dovessimo proseguire il nostro itinerario, e percorrere tutti i musei del mondo per cercare le opere “vere”, scopriremmo che l’atto linguistico non potrebbe in ogni caso comprendere la loro essenza, la loro produzione, il loro rimandare ad altri originali (modelli, autori, contesti, mondi, culture). Pertanto in cosa differisce Musa Polimnia, la “vera copia” di Lucignano, dal suo originale? La differenza è nell’emozione, nelle sensazioni del fruitore, nelle sue capacità di porsi davanti a una spazialità e temporalità perdute. In fondo la “vera copia” di Lucignano emoziona, “stupisce” forse anche più dell’antico affresco romano e quindi la copia conforme è anch’essa un (nuovo) originale. La tendenza a catalogare l’originale deriva anche dalla supposta conoscenza di una delle sue copie (giudico la “Gioconda” dalla foto della Gioconda riprodotta su un catalogo del Louvre di Parigi) e dalla presunzione di averne afferrato il senso. Con questo non intendo dire che la copia sia irriducibile all’originale, ritengo che il bagliore del Principio, il modello (o il profilmico), possa essere acceso solo dalle sue copie (più o meno) artistiche. Mentre nel mondo “l’oggetto” viene automatizzato come calco usurato dall’abitudine, nell’arte la “copia” riaccende il fioco bagliore del manufatto nello sguardo del suo pubblico (4). Ma a Kiarostami non sembra interessare, se non di riflesso, lo studio dell’originale in quanto natura (cipresso, paesaggio ma pure marito, moglie, figlio), anche se il regista apre un’interessante parentesi. In una sequenza, James, seduto accanto a Elle nell’auto che li porta a Lucignano, dice: “Quindi si prende un oggetto qualunque, si mette in un museo e… cambia il modo in cui viene visto dalla gente. L’importante non è l’oggetto ma la percezione che si ha di questo”. E ancora: “Guardi questi cipressi, li vede? Sono bellissimi. Sono unici. Voglio dire, non si vedono mai due cipressi uguali […] Originalità, bellezza, età, funzionalità. La definizione di un’opera d’arte è questa in fondo. Solo che non stanno in una galleria, ma… nei campi e così non ricevono l’attenzione che meritano”. La vita non è l’arte perché si svolge nel mondo (campo) e l’arte nel museo (testo). Il regista quindi preferisce lavorare sul testo, portare pertanto il cipresso nel museo (gli sposi preferiscono farsi fotografare sotto l’Albero d’oro di Lucignano, non tra i cipressi e gli olivi della Val di Chiana); Kiarostami si interessa della copia in quanto copia di una copia (la foto della Gioconda copia della Monna Lisa del Louvre copia del volto e del sorriso di Lisa Gherardini), la copia come “atto” che ne riproduce un altro, la cui “fedele” corrispondenza all’originale è attestata (nel caso del film) da funzioni e idiomi facilmente riconoscibili da un certo tipo di pubblico (l’originale ma anche la copia acquistano valore solo nei musei o in particolari luoghi deputati all’arte). Per mettere in evidenza l’importanza della copia (l’importanza di un atto che simula un oggetto) e per rendere impenetrabile il plot al rischio di una identificazione, bisogna disturbare la trasparenza naturale del racconto che illude lo spettatore di vivere una storia vera, e lo conduce a proiettare le proprie aspettative e i propri problemi nella storia raccontata. Pur riprendendo metodi cari ai registi della Nouvelle Vague (riprese in esterno, dialoghi nei bar, specchi, carrellate, riflessi su parabrezza, sguardo in macchina, voce acusmatica, oggetti mostrati in parte o decontestualizzati, ecc.) Kiarostami rompe il giocattolo dell’identificazione aumentando l’opacità del film, lavorando il plot stesso tramite “disturbi” trans-narrativi, vagamente lynchiani. In altri termini il regista iraniano decide di trasformare la relazione tra James ed Elle durante lo stesso sviluppo della storia raccontata. Il rapporto della coppia si definisce attraverso repentine trasformazioni che definirei ellissi metamorfiche. James ed Elle avrebbero potuto conoscersi durante la presentazione del libro di James e quindi recarsi a Lucignano dopo molti anni, magari dopo essersi sposati. Kiarostami ha deciso di eliminare stacchi e dissolvenze che possono separare due momenti differenti (il prima e/o il dopo) abbandonando il plot in una sorta di eternità magmatica in cui il rapporto della coppia si erode perché allo stesso tempo è già eroso e potrà erodersi. Copia conforme sembra una vita condensata in un giorno, o meglio in un breve viaggio tra le colline toscane, tramite una sorta di ellisse invisibile che “lavora” il film dall’interno, fondendosi direttamente con la storia. La metamorfosi, la trasformazione del rapporto dei due personaggi, da semplici conoscenti a sposi consumati e litigiosi, non è solo nel discorso, non si evidenzia soltanto come struttura che organizza la fabula in intreccio, ma è essa stessa discorso e racconto, una fusione totale, indivisibile del materiale. Il materiale diventa così la stessa traccia dell’origine perduta, la materia irraggiungibile, non catalogabile né “raccontabile”. Pertanto l’aspetto più interessante di quest’opera non è da trovare tanto nello stupore dello spettatore causato dalla trasformazione “istantanea” di un rapporto che conduce la coppia in pochi attimi a bruciare la propria “involuzione”. L’acquisita consapevolezza (la vita non è rappresentabile se non nella corrispondenza con la sua copia che in quanto riproduzione “conforme” attesta peculiarità altrimenti irrintracciabili) induce a soffermarsi nel valore della copia che in quanto “prodotto seriale” può essere tranquillamente presentata a un vasto pubblico senza correre rischi. Il rapporto di James ed Elle, la loro istantanea evoluzione da single a sposi consumati dall’abitudine, diventa emblema e sintesi di un “reale” ménage e pertanto ancor più vero (nella sua palese falsità) dei veri rapporti coniugali. Ma l’aspetto forse più interessante è il lento divenire di questo rapporto da copia conforme a copia difforme, nel senso che la copia (Juliette Binoche e William Shimell, l’imitazione dell’opera d’arte, l’imitazione del matrimonio) non è più o soltanto una “rappresentazione” ma una “presentazione”. Il loro matrimonio, oltre a essere conforme a tanti matrimoni immaginati dalla mente e codificati da anni di visioni e conoscenze anche personali, dal momento in cui l’incontro si trasforma in “giochiamo a fare marito e moglie”, non è più una copia conforme, una rappresentazione (artistica o meno) che oscilla tra verosimiglianza (la nostra idea del rapporto di coppia o le aspettative diegetiche che ci portano a verificare ogni inquadratura come pertinente) ed effetti di reale (oggetti anche inutili sulla scena), pertanto atta ad agevolare la trasparenza del mondo riprodotto; il loro matrimonio appunto è divenuto una mera presentazione di un nuovo prodotto metamorfico, che trascina la credenza in un mondo nell’abisso insostenibile di una raggiunta consapevolezza: la copia non è simulacro di un evento ma essa stesa nuovo evento da studiare. In altri termini il linguaggio, nel definire un’opera, non insegna a conoscere l’opera stessa, perché, qualificandola e spiegandola, dà forma a un altro manufatto. Copia conforme pertanto è l’esaltazione della copia ritenuta migliore e più vera dell’opera originale come opera difforme che, nel tentare di definire e catalogare, riduce l’opera a un’altra opera, magari migliore, più interessante, ma pur sempre un’altra opera. La storia di James ed Elle subisce una metamorfosi definitiva, la coppia è allo stesso tempo una coppia in fieri di sposi che sviluppano la loro crisi coniugale e una coppia di attori che prestano la loro fisicità ai personaggi amplificando il senso di una storia comune così come la Coca cola, il ready-made di Jasper Johns, viene inserita, in quanto oggetto di consumo, direttamente nel dipinto poi mostrato alle capacità riflessive ed emozionali di un pubblico (bellezza e funzionalità). Una copia (il ready-made di Johns), ma anche una co(p)pia difforme, nuova struttura da analizzare (il film che si appropria della storia ed esce allo scoperto rompendo l’illusione di realtà e l’identificazione dello spettatore). Comunque i metodi per evidenziare questa “difformità”, tipici del cinema moderno, differiscono da quelli caratteristici della Nouvelle Vague (mi riferisco in particolare al cinema di Godard) sia per la rinuncia a interrompere il plot con i deittici (esempio: i ciak o le telecamere o il cast che sta riprendendo gli attori), sia per la precisa puntualizzazione di una differenza fondamentale: la citazione non è soltanto un’esponenziale moltiplicazione dei significati (arte romana, Jasper Johns, Andy Warhol, ecc.) utilizzata in senso moderno, ma anche un modo quasi postmoderno di giocare con gli stilemi della Nouvelle Vague. Ad esempio i riflessi sul parabrezza dell’auto guidata da Elle, che mostrano i palazzi medievali capovolti, oltre a citare i riflessi sul parabrezza dell’auto guidata da Ferdinand e Marianne in Pierrot le fou, vogliono anche prendere le distanze, quasi giocando con certo cinema moderno (e in questo c’è una venatura postmodernista). Infatti mentre i riflessi colorati sul parabrezza dell’auto in Pierrot le fou sono i colori del ricordo (5), quelli di Copia conforme, nella loro disarmante razionalità (il parabrezza diventa uno specchio che mostra contemporaneamente i due sposi in nuce e il percorso che stanno seguendo) sono la copia (conforme) di un mondo riflesso in uno specchio.

Luciano Orlandini

 

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Note

(1) cfr. Jacque Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971 (ed or. 1967)

(2) op.cit.

(3) Musa Polimnia è in realtà esposta al Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona

(4) cfr. Viktor Šklovskij, L’arte come procedimento, in I formalisti russi, a cura di T. Todorov, 1968

(5) D. «I colori in Pierrot le fou? Per esempio i riflessi colorati sul parabrezza dell’automobile».
R. «Che vediamo quando percorriamo Parigi di notte? Dei semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza doverli necessariamente mettere come sono nella realtà. Piuttosto come rimangono nel ricordo: macchie rosse, verdi, spazi gialli che scorrrono. Ho voluto ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono».
J.-L.Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, 1981, p. 262

 

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Copie conforme (Copia conforme)
regia, sceneggiatura: Abbas Kiarostami; montaggio: Bahman Kiarostami; fotografia: Luca Bigazzi; scenografie: Giancarlo Basili, Ludovica Ferrario; trucco: Fabienne Robineau; arredatore: Francesco Spina; suono: Grégory Noël, Dominique Vieillard; effetti visivi: Francesco Antonio Maggi, Rodolfo Migliari, Miriam Pavese; direttore di produzione: Ivana Kastratovic; interpreti: Juliette Binoche (Elle), William Shimell (James), Jean-Claude Carrière, Agathe Natanson, Gianna Giachetti, Adrian Moore, Angelo Barbagallo, Andrea Laurenzi, Filippo Trojano; produttori: Angelo Barbagallo, Gaetano Daniele, Charles Gillibert, Marin Karmitz, Nathanaël Karmitz, Abbas Kiarostami; produttori esecutivi: Claire Dornoy, Marin Karmitz; case di produzione: MK2 Productions, BiBi Film, Abbas Kiarostami Productions in associazione con France 3, Canal+ con il supporto di Centre National de la Cinématographie (CNC), Toscana Film Commission; paese: Francia, Italia, Iran; lingua: francese, italiano, inglese; anno: 2010; durata: 106′

 



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