Il presente articolo è stato pubblicato in Rapporto Confidenziale numero 35, speciale Locarno 64 – p.40-42
El año del tigre (The Year of the Tiger)
Sebastián Lelio | Cile – 2011 – HD – spagnolo – colore – 82’
Prima mondiale a Locarno 64 (Concorso internazionale)
di Alessio Galbiati
Manuel è in prigione nel sud del Cile. Il 27 febbraio 2010, il carcere crolla a causa di un terremoto. Nel caos che ne scaturisce, alcuni prigionieri riescono a evadere. Anche Manuel, perso nel mezzo della catastrofe, diventa un fuggitivo. Torna a casa sua, ma scopre che lo tsunami l’ha devastata, uccidendo la moglie e la figlia. Manuel raggiunge l’abitazione della madre e la trova morta in mezzo alle macerie. Prostrato dal dolore e dall’angoscia, vaga per la landa desolata sopravvivendo con quanto riesce a recuperare tra i detriti. Questa strana e ritrovata libertà lo porta a incontri inaspettati, mettendolo a confronto con la crudeltà della natura e spingendolo ai limiti della sua stessa esistenza.
Il 27 febbraio 2010 alle tre e mezzo di notte il Cile è stato scosso da un terremoto della potenza devastatrice di 8,8 gradi della scala Richter, sprigionando un’energia circa trentamila volte superiore al sisma che il 6 aprile 2009 ha sconvolto la città dell’Aquila. Si tratta della quinta misurazione più alta mai registrata. Una scossa tellurica di una potenza tale da spostare l’asse di rotazione terrestre di 2,7 millisecondi, ovvero 8 centimetri che hanno ridotto permanentemente la durata delle giornate di 1,26 millisecondi. L’epicentro è stato calcolato nell’Oceano Pacifico, al largo della costa di Maule, in una zona centrale del Paese a soli 100 km dalla seconda città del Cile, Concepción, a circa 300 chilometri a sud della capitale, 59 chilometri sotto il livello del mare. Il sisma è stato avvertito anche nella capitale Santiago, con una forza dell’VIII grado della scala Mercalli, classificato cioè come distruttivo.
Il sisma ha generato uno tsunami in tutto l’oceano Pacifico producendo onde devastanti alte fino a tre metri che si sono abbattute sulle città e le provincie di Pichilemu, Talcahuano, Coquimbo e Valparaíso, arrivando fino alla Polinesia francese ed alle coste del Giappone, provocando danni aggiuntivi al terremoto.
I morti accertati ed identificati per il sisma sono stati 521, 52 i dispersi. Due milioni gli sfollati.
Un’apocalisse.
Girato a soli due mesi dal terremoto e tsunami che hanno devastato nel febbraio 2010 il sud del Cile, “El año del tigre” è la messa in scena, in uno scenario totalmente reale (il medesimo del disastro naturale), di una vicenda plausibile ma inventata. La storia di un carcerato fuggito alla sua prigione in seguito al crollo dell’edificio che si mette in cammino per andare a trovare la sua famiglia ma che, giunto a destinazione, scoprirà amaramente che tutte le donne che la componevano sono morte: moglie, figlia, madre. Sconvolto si metterà a vagare cercando la strada per non si sa bene cosa, forse per una terra promessa, in realtà solo sognata.
Una vicenda plausibile che trae spunto da due accadimenti reali registrati dai media cileni nei gironi del terremoto. La fuga di quasi trecento detenuti dal carcere di Chillán, rimessi in libertà dal sisma, ma spontaneamente riconsegnatisi ai propri carcerieri. Plausibile come l’idea di una tigre dispersa per la costa affogata dal mare piombato sulla terra, fatto realmente accaduto nel sud del Paese quando un circo di provincia si vide spazzato via dall’onda devastatrice.
Il film è costruito per quadri successivi, una via crucis, entro la quale si svolge la vicenda umana del fuggitivo Manuel (Luis Dubó), fotografata con una luce vivida che enfatizza il bruno della terra ed il putridume dell’acqua che ha invaso ogni cosa. Manuel deambula, per la costa distrutta dalla catastrofe naturale, con incedere claudicante, come se ogni passo possa rivelarsi l’ultimo, trascinando malamente una gamba malmessa, tenendo il capo dinoccolato sopra le spalle, nascondendosi ogni qual volta incrocia altre persone, dormendo isolato nelle case sventrate dal sisma. Egli è un animale selvatico ritornato per caso in libertà in uno scenario da fine del mondo. Luis Dubó, l’attore che impersona Manuel, entra totalmente nel personaggiosenza risparmiarsi nulla, divenendo egli stesso l’animale selvatico rappresentato, in un cortocircuito vertiginoso fra reale e plausibile. Quasi come se lo scenario reale abbia imposto all’attore la sola strada dell’immersione totale nella vicenda narrata. Quasi come se la vicenda narrata sia essa stessa realtà, assottigliando la soglia che la separa dalla finzione, rendendola reale in quanto accaduta realmente e plausibile solo fra un ciak e l’altro.
Uno degli aspetti più potenti dell’intera pellicola sono le location utilizzate: case sventrate, automobili sparse ovunque come giocattoli scagliati da un bimbo, paesaggi surreali di un Cile irriconoscibile.
Dalla conversazione avuta con Sebastián Lelio (il regista) e Luis Dubó è chiaro in loro l’attaccamento emotivo nei confronti della pellicola, un legame nato durante le riprese, forse per la consapevolezza di aver fatto qualcosa che corre sul confine morale tra ciò che è lecito e ciò che è inaccettabile fare con il cinema. «Quello che è moralmente molto complesso ed eticamente assai conflittuale è ciò che mi interessa di più. Penso che un regista – afferma Lelio nell’intervista concessaci – debba trovare il modo di porsi in una situazione di conflitto etico per filmare, altrimenti te ne stai a casa e fai altro. Perché se vai a filmare con preconcetti di “sicurezza” etica non potrai mai incontrare nessuna bellezza nel tuo lavoro. Credo che la bellezza sorga da una scelta eticamente conflittuale. Questo aspetto era estremamente delicato perché molte persone erano morte e noi stavamo girando in mezzo alle rovine devastate dallo tsunami, senza troppe autorizzazioni, a sole otto settimane dalla tragedia. È stato complesso».
Manuel si muove spiritato, in una condizione quasi mistica. Scoperto il corpo della madre morta, galleggiante sull’acqua e livido dal decesso, lo avvolgerà in una coperta e con esso accanto passerà una notte all’addiaccio, vegliandolo e pregandolo per poi sotterrarlo, all’alba, in una fossa scavata quasi a mani nude. La sequenza in cui incontra il corpo esanime della madre ricorda, soprattutto nella rappresentazione della salma, la scena dell’autopsia nel notevolissimo e un po’ sottovalutato “Post Mortem” di Pablo Larraín, forse il regista cileno contemporaneo più conosciuto, che del film in questione è produttore, insieme al fratello Juan de Dios ed allo sceneggiatore Gonzalo Maza, per conto della sua casa di produzione, la cilena Fabula.
Da questo momento della storia il suo tragitto non pare avere più alcun senso, sappiamo che vuole andare a nord, ma non abbiamo idea a far cosa. La condizione di latitanza, lo shock provocato dai traumi che l’hanno colpito, rendono il suo cammino un mistero doloroso il cui significato ci viene suggerito da un brano che ossessivamente si ripete per tutto il film e che costituisce la sola colonna sonora. «Credo che la canzone connetta con il sentimento del film che è quello di muoversi in cammino verso qualcosa che non si sa cosa sia, ma che sappiamo essere migliore. È una specie di supplica lamentosa che mi pare si innesti alla perfezione con lo spirito del film» (la frase è tratta dall’intervista che Lelio ha concesso a Rapporto Confidenziale). “Camino de Caná”, questo il titolo del brano, è un’invocazione quasi esistenzialista che connette l’intera pellicola con un substrato culturale prossimo al cattolicesimo e che pone domande alle quali non è possibile dare una risposta. Una specie di cattolicesimo mistico attraversa il film, che muovendosi nello scenario reale del territorio cileno sconquassato dal terremoto e tsunami, cerca di rendere per immagini lo smarrimento di un individuo che ha perso ogni cosa e che guardandosi attorno si rende conto che ogni cosa è persa. “El año del tigre” è un’allucinazione lunga ottanta minuti.
L’incontro con la tigre è il momento più enigmatico e mistico del film, l’intreccio di due nature selvagge e pericolose (sappiamo infatti dalla prima sequenza, quella del crollo del carcere, che Manuel è un individuo pericoloso, recluso per qualche crimine efferato) sopraffatte dal destino, violentate dalla natura, che si specchiano l’una nell’alta compiendo, anche solo per un attimo effimero, quella redenzione della quale avvertono la necessità. Manuel è la tigre, la tigre è Manuel. L’anno della tigre, il 2010 nel calendario cinese, è la redenzione che il popolo cileno non avrebbe voluto vivere.
La sequenza del protagonista (ancora una volta) riverso sulla tigre esanime richiama alla memoria “Curling” di Denis Côté (film canadese del 2010 passato a Locarno 63). I due film condividono la medesima costruzione drammatica del rinvenimento del felino deceduto, messo in scena come confronto esistenziale, muto e disperato. Viene pure alla mente “Dead Man” di Jim Jarmusch (1995), nella struggente sequenza in Johnny Depp giace riverso al fianco di un cerbiatto ucciso da un proiettile.
Nel suo viaggio erratico Manuel incontrerà un uomo anziano (interpretato da Sergio Hernández, che con Lelio aveva già lavorato in “La sagrada familia”, pluripremiato esordio del 2005), burbero e spietato, arrabbiato col mondo e diffidente con lo straniero. In lui è possibile rintracciare una qualche reminescenza dell’epoca della dittatura di Pinochet, un proto-fascismo latente, tirannico e dispotico; ma il tutto è appena accennato e cercare un’interpretazione di questo tipo, con tutta probabilità, va oltre il film.
“El año del tigre” è un film girato con pochissimi mezzi ma con buone idee e capacità di usare la macchina da presa, un’opera concettuale basata su pochi e chiari assunti di partenza: girare una fiction all’interno di un documentario, osservare un uomo che ha ritrovato per caso la libertà ma che ha perso ogni cosa. Una riflessione allusiva, essenziale dal punto di vista narrativo, sull’intrinseca ed ineludibile fragilità della vita; ma pure un omaggio alla propria terra ferita dalla furia della natura.
“El ano de la tigre” è un estremo esempio di collisione fra documentario e fiction capace di produrre non poche domande, tutt’altro che secondarie, in merito alla macchina cinema. Cosa si può riprendere? Fino a dove è il caso di spingersi? Può la fiction entrare nella realtà, muoversi fra le macerie di una tragedia? Domande a prima vista tutt’altro che nuove, da qualche tempo relegate unicamente all’etica del documentarista e solo raramente a quella del regista cinematografico. Il cinema già molto tempo fa spinse il proprio occhio fra le macerie reali di una città devastata dalla guerra, stando appresso alla finzione narrativa di un bambino che scopriva un mondo devastato. La città di quel film era Berlino, l’anno il ’48, il titolo “Germania anno zero”, ed il regista Roberto Rossellini.
AG
El ano del tigre (The Years of the Tiger)
Regia: Sebastián Lelio • Soggetto: Sebastián Lelio, Gonzalo Maza • Sceneggiatura: Gonzalo Maza • Fotografia: Miguel Ioan Littin • Montaggio: Sebastián Lelio, Sebastián Sepúlveda • Musiche: Cristóbal Carvajal • Suono: Roberto Espinoza • Scenografia: Fernando Briones • Art Director: Fernando Briones • Direttore di produzione: Javier Pradenas • Post produzione: Cristián Echeverría • Produttori: Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín, Gonzalo Maza • Produttori esecutivi: Mariane Hartdard, Andrea Carrasco Stuven, Juan Ignacio Correa • Interpreti: Luis Dubó, Sergio Hernández, Viviana Herrera • Produzione: Fabula • Distributore: Funny Balloons, Parigi • Lingua: spagnolo • Paese: Cile • Anno: 2011 • Durata: 82’
Sebastián Lelio è regista, sceneggiatore e montatore. Diplomato alla Escuela de Cine in Cile, ha al suo attivo la regia di vari cortometraggi, tra cui “Cuatro” (1996), “Ciudad de maravillas” (2001) e “Carga vital” (2003). Ha diretto anche anche documentari “Cero” (2003) e “Mi mundo privado” (2004). Il suo lungometraggio d’esordio “La sagrada familia” (2005) è stato presentato al festival di San Sebastián e ha vinto numerosi premi internazionali. Nel 2009 firma “Navidad”, film realizzato con il sostegno della Résidence di Cannes e presentato in prima mondiale alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. “El año del tigre” (2011) è il suo terzo lungometraggio.
RC ha intervistato Sebastián Lelio e Luis Dubó durante le giornate di Locarno 64
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