Kurutta ippeji (Una pagina di follia) > Teinosuke Kinugasa

Kurutta ippeiji (Una pagina di follia)
regia di Kinugasa Teinosuke (Giappone/1926)
recensione a cura di Giampiero Raganelli

Capolavoro misconosciuto del muto, questo film giapponese d’avanguardia, del 1926, nasce dalla convergenza di alcune personalità artistiche di grande rilievo dell’epoca. La prima è quella del regista Kinugasa Teinosuke (1896–1982), con un passato da attore di teatro shinpa – corrente teatrale nata a fine Ottocento per gemmazione dal kabuki da cui si distingue per testi di ambientazione contemporanea –, specializzato nel ruolo di onnagata, l’attore che riveste ruoli di personaggi femminili in un tipo di rappresentazione precluso alle donne. Una figura che Kinugasa avrebbe raccontato nel film La vendetta di un attore (Yukinojo henge, 1935). Proprio come onnagata Kinugasa fa il suo ingresso nel mondo del cinema, negli anni dieci diventando una star, fino a quando, negli anni venti, questa professione non viene soppiantata dall’apertura ad attrici vere e proprie. Kinugasa decide così di passare dietro la macchina da presa. Fonda una sua casa di produzione indipendente, la Kinugasa Eiga Renmei, e diventa il primo cineasta giapponese d’avanguardia. Per il suo progetto più ambizioso contatta Yokomitsu Riichi (1898-1947), romanziere in erba, fondatore della corrente letteraria Shinkankakuha, la “Scuola delle nuove sensazioni”, che annovera anche un giovane Kawabata Yasunari (1899-1972), che sarebbe poi diventato uno degli autori fondamentali del Novecento in Giappone, uno dei due Nobel per la letteratura assegnati a quel paese. Il manifesto dei neosensazionalisti, come espresso nella rivista di riferimento Bungei jidai, si prefigge lo scopo di cogliere la realtà attraverso le percezioni spontanee, utilizzando una scrittura svincolata dalla narrazione lineare, che ricorra a metafore e allegorie a discapito di qualsiasi discorso illustrativo, naturalistico o psicologico. L’obiettivo di Kinugasa è quello di creare un corrispettivo cinematografico del neosensazionalismo, creando così una nuova avanguardia artistico-letteraria al pari di quelle europee, dadaismo, futurismo, surrealismo ed espressionismo.

Nasce così Kurutta ippeiji, noto a livello internazionale con il titolo “A Page of Madness”, ma che potrebbe essere tradotto anche come “Una pagina fuori posto”. La sceneggiatura è attribuita a Kawabata su soggetto di Yokomitsu, ma più probabilmente è stata scritta a quattro mani dai due: la figura della danzatrice è verosimilmente attribuibile al primo. Già le prime battute evidenziano il carattere sperimentale di quest’opera:


Notte. Il tetto di un ospedale psichiatrico. Un parafulmine. Un acquazzone. Lampi.

Una ballerina danza leggiadra su un gaio palcoscenico.
Davanti al palcoscenico appaiono delle sbarre. Le sbarre di una cella.
Il gaio scenario si trasforma gradualmente nella stanza di un manicomio.
Anche lo splendido costume della ballerina muta gradualmente in un’uniforme da ricoverato.
La ballerina pazza danza follemente
.


Difficile riassumerne la trama di un’opera che si gioca sul continuo andirivieni, con passaggi a volte non esplicitati altre volte segnalati in maniera molto sottile, tra passato e presente, realtà e allucinazione, e sull’intercalare di visioni oniriche scaturite da un subcosciente di delirio e follia. Un anziano marinaio, tornato da un lungo viaggio, scopre che la moglie è stata internata in un ospedale psichiatrico, a seguito di un tentativo di suicidio e della perdita del proprio figlioletto. Il marinaio, sentendosi in colpa per aver lasciato per tanti anni sola la moglie, si fa assumere nel manicomio per poterle stare vicino. Arriva la loro figlia, in procinto di sposarsi, ma la madre non reagisce alla visita e lei, accusando il padre di essere responsabile dello stato in cui si è ridotta, se ne va. Il marinaio sogna di vincere un mobile a una lotteria, che potrebbe dare alla figlia come regalo di nozze. Di seguito tenta di far fuggire la moglie dal manicomio, ma lei rifiuta rintanandosi nella sua cella, che rappresenta, come per gli altri degenti, un rifugio: alcuni, come la protagonista, danzano, altri si coprono il volto con una maschera di teatro noh.

Tematicamente è possibile ravvisare nella storia quel conflitto, da sempre centrale nella drammaturgia e nella letteratura classiche giapponesi, tra dovere (giri) e sentimento (ninjo): l’uomo decide di seguire il secondo per diventare marinaio, professione idealmente legata al viaggio e alla libertà. Così facendo però non adempie alle sue obbligazioni famigliari, verso la moglie, il figlio e la figlia e da qui si genera il dramma della pazzia.

Tutta la narrazione avviene nella forma di una sinfonia di immagini, in un turbinio dato da un montaggio serratissimo e con frequenti sovrapposizioni. Il film muto non ha intertitoli e pare, ma la cosa è controversa, che Kinugasa abbia vietato espressamente che il film venisse proiettato con l’accompagnamento di un benshi, quella figura di cantastorie, narratore, doppiatore, tipica del cinema muto giapponese.

Kinugasa ingloba nella sua opera le principali istanze avanguardiste del cinema dell’epoca. Da un lato recupera la dimensione onirica de Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920), resa in quel film dalla distorsione espressionista di scene e oggetti e le carrellate in soggettiva come quelle celebri di Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924) di Murnau; dall’altro la polifonia di flashback da La roue (1923) di Abel Gance, le immagine ottenute da specchi deformanti come in La folie du Docteur Tube (1915) sempre di Gance e le sovrimpressioni dall’impressionismo francese; e poi utilizza il montaggio delle attrazioni, usato come sinfonia, di Eisenstein. E va notato l’uso, futurista, e dadaista, di numeri e segni di fulmini disegnati sulla pellicola. Un sottile filo poi si può cogliere, pur in una diversa valenza, anche con il film futurista Mondo baldoria (1914) di Aldo Molinari nella sua famosa scena delle suore dell’ospedale che ballano con i degenti, espressione dello slogan di Aldo Palazzeschi «Trasformare gli ospedali in luoghi divertenti». Per Kinugasa questo assume il significato della sublimazione onirica della follia che si incarna nelle antiche danze mitologiche e nel teatro noh (la scena delle maschere noh è peraltro un’invenzione del cineasta perché nella sceneggiatura sono definite semplicemente come “maschere sorridenti”). Altro film studiato da Kinugasa risulta essere Varieté (1925) di Ewald André Dupont, da cui in effetti presenta evidenti debiti espressivi e figurativi come nel personaggio del marinaio. E probabilmente proprio sul modello di questo film, di ambientazione circense, Kinugasa aveva concepito inizialmente Una pagina di follia nel contesto di un circo, per poi ripiegare per il manicomio. E la lista dei modelli dichiarati contempla anche i film di Rupert Julian, per le atmosfere inquietanti e gotiche, e i film Bluebird della Universal per la loro capacità di rappresentare visivamente gli stati psicologici della mente. E aldilà di quello che possa aver visto o meno Kinugasa, Una pagina di follia è espressione di tensioni artistiche che lo avvicinano ai coevi Geheimnisse einer Seele (I misteri di un’anima, 1926) di Georg Wilhelm Pabst, per le circonvoluzioni psicanalitiche, e Ménilmontant (1926) di Dimitri Kirsanoff, per la dimensione impressionista.

Kurutta ippeiji è stato a lungo ritenuto perduto, a seguito di un incendio in un magazzino degli studios di Shimogamo nel 1950, dove erano stoccate tutte le copie, fino al miracoloso ritrovamento di una pellicola nel 1971 a opera dello stesso Kinugasa, vuole la leggenda, nel capanno attrezzi del suo giardino. Il regista stesso ne ha curato la riedizione, con un montaggio leggermente diverso rispetto all’originale – la principale differenza riguarda l’aver tolto l’immagine finale, una sorta di happy end, del bouquet di fiori che preannuncia il matrimonio della figlia – aggiungendo una colonna sonora, davvero adatta all’opera. Il film è quindi riuscito nel 1974.

Il film successivo importante di Kinugasa è stato Jujiro (Incroci, 1928), che in luogo di quella varietà di modelli del film precedente, si rifà esclusivamente all’espressionismo tedesco. Nello stesso anno Kinugasa intraprende un viaggio, portandosi dietro una copia di questo ultimo film, prima a Mosca, dove lo mostra a Eisenstein e Pudovkin, e poi a Berlino e Parigi. Si presume tuttavia che il regista de La corazzata Potemkin non abbia pienamente apprezzato il lavoro di Kinugasa, visto che nel suo celebre saggio, pubblicato l’anno successivo, «Il principio cinematografico e l’ideogramma», lamenta nei colleghi giapponesi un’assenza di formalismo e del principio del montaggio dialettico che pervadono paradossalmente tutta la cultura nipponica.
Kinugasa affronterà, nel dopoguerra, un’ulteriore metamorfosi artistica, diventando un regista di kolossal in technicolor, calligrafici e ai limiti dell’estetismo, come il celebre Jigokumon (La porta dell’inferno, 1953), premiato a Cannes, concepiti per l’esportazione, e per i festival dopo il successo di Rashomon a Venezia, come rappresentanza della propria cultura tradizionale per un paese che voleva riabilitarsi nel consesso internazionale.

Giampiero Raganelli

 

 

Guarda il film completo

Kurutta ippêji (Una pagina di follia)
regia: Teinosuke Kinugasa
sceneggiatura: Yasunari Kawabata, Teinosuke Kinugasa, Minoru Inuzuka da un racconto breve di Yasunari Kawabata
fotografia: Kôhei Sugiyama
scenografie: Chiyo Ozaki
titoli: Kiyoshi Takeda
produttore: Teinosuke Kinugasa
interpreti: Masuo Inoue (custode), Yoshie Nakagawa (moglie del custode), Ayako Iijima (figlia), Hiroshi Nemoto (giovane uomo), Misao Seki (dottore), Eiko Minami (danzatrice), Kyosuke Takamatsu, Minoru Takase, Tetsu Tsuboi
case di produzione: Kinugasa Productions, National Film Art, Shin Kankaku-ha Eiga Renmei Productions
paese: Giappone
anno: 1926
durata: 59′-79′

 



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