CAMILLE CLAUDEL 1915
di Bruno Dumont (Francia/2012)
Berlinale 63 – Concorso internazionale
recensione a cura di Cristina Beretta
pubblicata all’interno dello speciale BERLINALE 63 in Rapporto Confidenziale 38
La storia del film Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont, con Juliette Binoche, in concorso al 63° Festival del cinema di Berlino, comincia dove si concludeva Camille Claudel di Bruno Nuytten, con Isabelle Adjani che per l’interpretazione vinse l’Orso d’oro nel 1989.
Nella scena finale del film di Nuytten, mentre Camille viene portata in manicomio, la sua voce fuori campo legge una lettera al fratello. In questi tre minuti e trenta, in questa lettera che Camille scrive qualche anno dopo il suo arrivo nell’istituto psichiatrico, è contenuto l’intero film di Dumont.
Camille Claudel 1915 ci mostra qualche giorno della vita di Camille. Siamo nell’inverno del 1915, nella campagna vicino ad Avignone; la protagonista si trova da due anni confinata dalla madre e dal fratello nell’istituto di cura per pazienti psichiatrici in cui vivrà fino al 1943, anno della sua morte.
Prima dell’’internamento, Camille visse a Parigi, dove fu scultrice; fu allieva e musa di Rodin, con cui ebbe una lunga storia tormentata che si concluse con il rifiuto da parte di Rodin di sposarla. In seguito lei cercò la propria indipendenza economica e artistica, ma le crescenti difficoltà, le manie di persecuzione e l’ossessione di non trovare l’adeguato riconoscimento della propria arte, la fecero sprofondare in una profonda crisi. Dopo la morte del padre – che l’aveva sempre aiutata appoggiando la sua aspirazione – nel 1913 venne fatta rinchiudere dalla madre e dal fratello nell’istituto psichiatrico di Ville-Evrard e più tardi di Montdevergues.
Camille Claudel 1915 si apre con la scena del bagno. Camille si fa spogliare, lavare e rivestire dalle suore. È una donna stanca; il viso e i movimenti manifestano fastidio, ma la rabbia si sta placando, il tempo della ribellione e dell’aggressività sembra essere passato; la troviamo nuda, indifesa, mentre comincia a chinare il capo.
Nella prima parte del film a Camille annunciano la visita del fratello di lì a pochi giorni e lei da quel momento vive nell’attesa, in un miscuglio di impazienza, autentico affetto e, soprattutto, speranza che lui la faccia uscire da quella prigione.
Per il resto, le giornate si svolgono noiose e sempre uguali a se stesse. La vita nel manicomio è molto semplice e tranquilla e quindi il regista decide di farci vedere solo il dolore che prova Camille per il misconoscimento della propria arte, per la mancanza di affetto da parte di coloro che l’hanno abbandonata in quel posto, per il bisogno di libertà.
Camille diversa, eppure integrata nella vita dell’istituto, circondata dalle altre degenti (che non sono attrici professioniste, ma vere degenti di un ospedale psichiatrico), verso le quali prova rigetto (le chiama creature, mostri), ma anche affetto e accettazione.
Vediamo il suo riso mescolarsi in pianto, il suo viso distendersi nei momenti di lucidità, vi leggiamo l’orrore nei momenti di solitudine disperata; sentiamo la sua voce lacrimosa quando mansueta supplica il dottore di lasciarla uscire e acuta e rotta nei momenti di follia e paranoia (Camille è rosa dal timore che Rodin la possa avvelenare, che si impossessi del suo atelier e delle sue opere d’arte). In giardino, la vediamo raccogliere un pezzo di terra argillosa, cominciare a dargli una forma, indugiare e poi gettarlo a terra inorridita. Non potrà mai più tornare alla creazione.
Poi entra in scena Paul Claudel, scrittore, diplomatico, fervente cattolico. La prospettiva si sposta e lo spettatore lascia con sollievo le quattro mura del manicomio e le sue degenti, anche se probabilmente presto si sorprenderà a volerci tornare quanto prima. Si passa infatti da primi piani talmente espressivi da sembrare nudi (di Camille e delle altre degenti), a una mimica (quella di Paul) così gelida e a uno sguardo così vitreo e invasato, da risultare forse più disturbanti dei primi.
Dai due dialoghi che Claudel frère intrattiene con un prete e con il medico della sorella, se ne evince l’ortodossia religiosa; per sua stessa ammissione, egli non è altro che un conformista e ciò che biasima alla sorella è il suo orgoglio, la sua inquietudine, il suo essere tormentata, gli attimi di esaltazione artistica ai quali seguono quelli di depressione.
Il momento della visita si avvicina e lo spettatore, dal momento che la storia è biografica e sa già come andrà a finire, si prepara a un incontro/scontro tra i due; a un dialogo pregno di significato, insomma, a una qualsiasi conclusione.
Abbiamo un uomo bigotto e ossessionato dalla sua visione della religione che considera la sorella una peccatrice (di hybris) e la costringe a vivere al confino. Un ortodosso che si sostituisce a dio.
Congetturando oltre sulle ragioni che possono averlo spinto a un gesto del genere, possiamo anche leggervi l’invidia di un fratello scrittore che rinchiude la sorella perché invidioso del suo genio artistico. Potrebbe.
Ed ecco. Quando infine i due fratelli si incontreranno, lei gli chiederà il motivo per il quale la madre non è mai venuta a farle visita, lo supplicherà di farla uscire e ad andare a vivere una piccola città con la madre. «Sarò tranquilla», gli dice, «mi accontenterò di poco»; ma il fratello rifiuterà categorico, non senza aver cercato prima di insinuarle dei sensi di colpa.
Nel loro unico dialogo i fratelli si dicono poco, l’incontro (o lo scontro) di fatto tra di loro non avviene, perché rimangono entrambi chiusi nel proprio mondo, nella propria follia. Pur essendo nella stessa stanza infatti, la telecamera li riprenderà raramente insieme, Paul vicinissimo alla finestra.
Il film sembra non pervenire a nessuna conclusione e – soprattutto – mancare di genio (che non sia quello della Binoche).
Per tutto il film, parco di dialoghi, non facciamo che leggere gli avvenimenti, che comunque sono solo quelli interiori, che si rincorrono e accavallano sul viso della Claudel/Binoche.
Si potrebbe quasi giungere alla conclusione che Dumont non volesse fare altro che presentare una serie di ritratti dolenti di persone affette da disturbi mentali. •
Cristina Beretta