Özcan Alper

«Non mi piace fare un cinema chiuso in se stesso»
Intervista al regista e sceneggiatore Özcan Alper

a cura di Roberto Rippa
pubblicata in Rapporto Confidenziale 38 (marzo/aprile 2013)

vedi anche: speciale NUOVO CINEMA TURCO

 

Özcan Alper, 1975, è nato a Hopa, città della provincia turca di Artvin, sulla costa est del Mar Nero al confine con la Georgia, ed è di discendenza hemşinli, gruppo etnico dell’Armenia originario di quell’area.
Dopo essersi trasferito a Istanbul, dove ha studiato presso la İstanbul Üniversitesi Fen Fakültesi e quindi alla İstanbul Üniversitesi, laureandosi prima in Fisica e quindi in Storia delle scienze nel 2003, si interessa al cinema frequentando il Mezopotamya Kültür Merkezi (Centro culturale della Mesopotamia) sin dal 1996.
È lì che incontra la regista Yeşim Ustaoğlu e inizia a collaborare con lei come attore, operatore e assistente. Nel 2001 dirige il suo primo cortometraggio, Momi, parlato in homshetsi, la sua lingua madre.
Dopo i documentari Tokai City’de Melankoli ve Rapsodi (Rhapsody and Melancholy in Tokai City), realizzato in Giappone, e Bir Bilimadamıyla Zaman Enleminde Yolculuk (Voyage in Time with a Scientist), nel 2008 scrive e dirige il suo primo lungometraggio Sonbahar (Autumn), che ottiene numerosi riconoscimenti presso numerosi festival internazionali. Nel 2011 dirige il suo secondo lungometraggio Gelecek uzun sürer (Future Lasts Forever). Attualmente è al lavoro sul suo terzo film Rüzgarın hatıraları.

 

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Roberto Rippa: Lei è si è laureato in Fisica e quindi ancora in Storia della scienza nel 2003. Nel frattempo, però, già si interessava al cinema partecipando ai seminari organizzati presso il Mezopotamya Kültür Merkezi (Centro culturale della Mesopotamia, con sede a Istanbul; NdR.). Nel 2000 appare come attore nel bellissimo Güneşe Yolculuk (il titolo italiano è Viaggio verso il sole; NdR.) di Yeşim Ustaoğlu, con cui lavorerà anche in seguito come operatore alla camera per Sırtlarındaki Hayat. Com’è nato in lei questo interesse per il cinema?

Özcan Alper: Studiavo fisica quando ho deciso di fare cinema e poco dopo ho cominciato a frequentare il Centro Culturale della Mesopotamia (MKM). Lì ho conosciuto Yeşim Ustaoğlu e ho partecipato come attore al suo Güneşe Yolculuk. Si tratta di un film sulla questione curda, assai problematica in quel periodo, con i protagonisti scelti da Yeşim tutti all’interno del MKM. Nonostante il mio fosse un piccolo ruolo, ho avuto l’importante opportunità di vedere un set professionale per la prima volta. Dopo quell’esperienza, ho scritto Momi con Özkan Küçük, curandone anche la regia. Nel 2001, dopo aver visto questo mio corto, Yeşim mi ha chiamato di nuovo a lavorare con lei per il suo lungometraggio Bulutları Beklerken (letteralmente: "Aspettando le nuvole", 2003. Il titolo internazionale è Waiting for the Clouds; NdR.) che si apprestava a girare nell’est del Mar Nero, dopo lunghi viaggi nella zona per prepararsi alla scrittura, e quindi per Sırtlarındaki Hayat (letteralmente: “La vita sulla loro spalle”, 2004. Il titolo internazionale è Life on Their Shoulders), un documentario sulla vita delle donne in quella stessa regione. Il mio compito era quello di secondo operatore alla camera anche se in realtà ero responsabile delle riprese esterne. Per entrambi i film ho lavorato inoltre come assistente e anche per la produzione, una piccola produzione. Collaborare a questi film mi è stato di molto aiuto, successivamente.
Il mio rapporto con il cinema è cambiato di molto quando sono venuto a Istanbul. Prima di allora, non avevo mai visto un film in una sala. Avevamo però un canale televisivo dello Stato – TRT 2 – che trasmetteva due programmi sul cinema curati da Vecdi Sayar, uno dei fondatori dell’Istanbul Film Festival. È stato attraverso questi programmi che ho conosciuto il Neorealismo italiano, la Nouvelle vague francese e il cinema russo. Allora non me ne rendevo conto, ma il mio rapporto con il cinema è nato così. Ho continuato seguire quei programmi durante gli anni del liceo, dell’università e nei periodi estivi. Mentre studiavo fisica a Istanbul, mi ero talmente interessato alla letteratura da aver pensato di studiare Sociologia della letteratura o Letteratura comparata, prima di dedicarmi a Storia della scienza. A un certo punto, però, mi sono però reso conto di una cosa: essendo la mia lingua madre l’homshetsi, non avrei potuto essere uno scrittore di lingua turca e così ho rivolto la mia attenzione al cinema.

RR: Operatore, assistente di produzione, attore. È stata una scelta quella di imparare a fare cinema lavorando sui set altrui?

ÖA: Come dicevo prima, ho lavorato come operatore per Yeşim ma non ho mai avuto l’intenzione di essere operatore o direttore di fotografia. Non ho mai nemmeno voluto essere attore, nonostante mi fosse capitato di farlo in Güneşe Yolculuk e Bulutları Beklerken di Yeşim, oltre che in Fotoğraf di Kazım Öz. Lavorare alla produzione e alla regia è stata invece una scelta. Ho pure lavorato nel dipartimento tecnico di una rete televisiva, tutte esperienze che mi hanno aiutato molto. Si possono sapere tante cose in teoria ma è ben diverso svolgerle in pratica. Il cinema è un’arte che si crea insieme ad altra gente. Quindi uno deve sapere cosa vuole e come dalla gente con cui lavora. È importante pretendere la massima efficienza possibile dalle persone, essendo il cinema assai costoso. Lavorare in vari ambiti del cinema, inoltre, mi ha insegnato a controllare e gestire il tempo. E, soprattutto, a saper preparare un film.

RR: Tornando al cortometraggio del 2001 Momi, co-diretto e sceneggiato con Özkan Kücük, si legge che è «dedicato alle nonne, sostenitrici del linguaggio». Il film, che tratta dell’identità, segue la giornata di lavoro di un gruppo di Hemşinli, il gruppo etnico dell’Armenia di cui lei è discendente, e appare come un tributo alla memoria che scompare, lingua compresa. Qual è il suo rapporto con le sue origini e con il tema dell’identità in generale?

ÖA: Penso che il problema dell’identità cambi a seconda del Paese. L’etnia, l’identità e l’origine di una persona sono sempre stati aspetti importanti. Per me ha rappresentato una sorta di resistenza, fondamentale per chi, come me, fa cinema in Turchia. Nel periodo in cui ho realizzato Momi, il MKM era un luogo importante per i Curdi, per la loro presenza in ambito culturale, dopo 70 anni di assimilazione turca. Attraverso l’homshetsi, una lingua in via di estinzione, Momi ha assunto una precisa connotazione politica, cosa che ha procurato delle grane. Hanno presentato un reclamo alla Corte militare rispetto all’articolo 8, predecessore dell’articolo 301 (l’articolo 301 del codice penale turco persegue chi pubblicamente parla del genocidio armeno. Una recente modifica dell’articolo ne ha reso praticamente impossibile l’applicazione; NdR.). Una commissione di cinema ha anche vietato il film, e così via. Il film era un’elegia per le nonne e le lingue che stanno per scomparire. I luoghi che si vedono nel film sono quelli della mia infanzia e le persone che appaiono sono i suoi abitanti reali. In questo senso, Momi è un film che è stato scritto sulla base della mia realtà quindi il tema dell’identità e quello dell’origine sono entrambi presenti.

RR: Com’è stato accolto il film dalla comunità?

ÖA: La storia di questo film è molto interessante, si potrebbe fare una ricerca antropologica o sociologica su ciò che gli è capitato. All’inizio degli anni 2000, le videocamere digitali hanno iniziato ad essere usate forse non per i film professionali ma per i cortometraggi si. È stato l’avvio di un processo di democratizzazione per il cinema pari a quello avvenuto per la letteratura quando fu inventato il foglio di carta. Così il cinema è diventato appannaggio anche di chi non aveva esperienza. Le videocamere digitali hanno dato in quell’epoca coraggio alle persone anche in Turchia. Quando ho realizzato il film, gli Hemşinli conoscevano già da 10 o 15 anni la televisione, la loro cultura era ancora di tipo feudale. Sono rimasti molto sorpresi nel vedere un film che parlava la loro lingua e trattava delle loro vite. Per motivi politici, l’homshetsi non era stata mai considerata una lingua di cultura, usata nell’istruzione, e ciò portava la mia comunità a considerarla come inutile. È diventato qualcosa di più di un semplice film. Per loro non era solo un corto, era uno spunto di ricerca, un motivo di riconoscimento. È stato vietato di produrre il DVD del film, ritenuto un oggetto pericoloso da mandare al rogo, ma le copie clandestine sono state guardate e discusse collettivamente nei caffè. Mi è stato raccontato di una persona anziana che si è rivolta a suo nipote per poterlo vedere a casa. In questo senso, il film ha trovato e incontrato il suo pubblico.

RR: Dopo due documentari, Bir Bilim Adamıyla Zaman Enlemi’nde Yolculuk (Voyage in Time with a Scientist, 2002) e Tokai City’de rapsodi ve melankoli (2005), che purtroppo non ho visto, dirige il suo primo lungometraggio Sonbahar (Autumn). Nel film, Yusuf torna nel villaggio dove vive sua madre dopo essere uscito per motivi di salute dal carcere dove ha trascorso 10 anni. Nel villaggio, mentre l’autunno lascia spazio all’inverno, lui sembra prendere distanza dalla sua vita, consapevole che non gli resta molto. Qual è stata l’ispirazione per questa storia?

ÖA: Ho cominciato lavorare sulla storia nel 2003, ossia nel periodo in cui mi ero convinto di fare cinema. Il mio rapporto con il cinema era diventato più professionale. In quegli anni, il governo cercava di cambiare le carceri, creando le strutture di Tipo F, basate su un presunto modello europeo (Le strutture di tipo F – F Tipi Yüksek Güvenlikli Kapalı Ceza İnfaz Kurumu, ossia carceri di massima sicurezza chiuse – altro non sono che istituti di pena spacciati al popolo turco come esempi di un passo avanti verso lo standard europeo ma in realtà luoghi dove la detenzione, soprattutto per i condannati per motivi politici, è fatta di isolamento fisico e conseguente deterioramento psicologico; NdR.). La vera ragione, però, era quella di mettere fine alle organizzazioni politiche mettendone i membri in carcere e annientando la loro resistenza sia a livello fisico che mentale. A quel punto, molti carcerati curdi e comunisti nelle prigioni turche si sono opposti all’isolamento di queste carceri, ancora in uso. Hanno quindi dato inizio a uno sciopero della fame di massa di lunga durata. Il governo ha quindi lanciato un’operazione paradossalmente chiamata “Ritorno alla vita”, osteggiata fortemente dal popolo, che è costata molti morti e feriti. In quel momento si è chiuso un periodo politico che aveva avuto inizio nel 1980 con il colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti contro la Sinistra, che negli anni ’70 aveva molta forza. Negli anni ’90, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Sinistra era demoralizzata ma il popolo aveva ancora voglia di resistere al Sistema e di immaginare un mondo nuovo e quindi la Sinistra dominava in Turchia nel campo della cultura, dell’arte e delle ideologie. L’operazione “Ritorno alla vita” ha messo fine a quel periodo.
Questa è stata la mia prima ispirazione nello scrivere Sonbahar. Studiavo all’università quando lo sciopero della fame (contro i trasferimenti nelle carceri di tipo F; NdR.) ha avuto inizio e molti miei compagni appartenenti a organizzazioni politiche hanno aderito. Alcuni amici hanno portato avanti lo sciopero per più di 150 giorni quindi tutto è cambiato per loro: molti hanno sofferto della sindrome di Wernicke Korsakoff (la sindrome si presenta spesso quando ci si rialimenta dopo un digiuno prolungato e causa vomito, nistagmo, paralisi dei muscoli retti esterni che determina oftalmoplegia uni-/bilaterale, febbre, atassia e progressivo decadimento delle facoltà mentali che può giungere a tale gravità da determinare coma e morte; NdR.), altri sono rimasti feriti. Questa è stata una forte fonte di ispirazione per me. Un’altra fonte viene dal fatto che io sono cresciuto in un paesino sulle colline vicino alla Georgia, che faceva parte dell’Unione Sovietica. Negli anni ’80, guardando attraverso la frontiera, sembrava proprio di vedere un altro mondo. Poi abbiamo visto di persona ciò che è accaduto dopo la fine dell’Unione Sovietica. Gli effetti sono stati due: il primo è che la gente cercava di vendere qualsiasi cosa passando il confine. È da qui che il termine “commercio di valigia” è entrato a fare parte della lingua turca. Il secondo è che, purtroppo, alcune donne sono state costrette a prostituirsi, prima in Turchia e poi in altri Paesi. Sentivo e assistevo a queste storie da molto vicino. L’ex Unione Sovietica era importante non solo per i russi ma anche per le altre nazioni. Di conseguenza, sono stato ispirato dall’idea di un incontro fra due persone che vivono entrambe l’autunno della loro vita: una che ha lottato per il Socialismo ed è rimasta in carcere per 10 anni e un’altra che viene dalla ex Unione Sovietica.

RR: Nel film, infatti, Yusuf esce da un carcere di tipo F, dove si capisce che è stato per motivi politici e la sua malattia è una probabile conseguenza di un lungo sciopero della fame. Il film ha una potente forza politica partendo da una storia intima proprio perché mostra le dirette conseguenze di un’ingiustizia sul corpo e la mente di una persona. Inoltre, alla sua uscita dal carcere Yusuf non trova più nessuno dei suoi vecchi compagni, solo Mikail, che ha scelto una vita più tranquilla. Alla fine pare che la lotta politica l’abbia pagata solo Yusuf, del suo gruppo. Sembra davvero, come viene detto nel film da Eka, un personaggio uscito da una novella russa. È ciò che, secondo lei, è davvero successo? Davvero l’ideale politico di quel tempo è finito in questo modo?

ÖA: La maggioranza delle persone non aveva nessun idea di come fossero la vita e l’ideologia dei carcerati politici. È stata diffusa l’idea che fossero tutti terroristi. Ho voluto cambiare questo luogo comune e raccontare la violenza politica attraverso il protagonista di Sonbahar. Certo, realizzando un film ci si concede qualche astrazione. Il fatto che Yusuf trovi solo Mikail quando torna nel suo villaggio, che è lo stesso in cui sono cresciuto io, non ha connotazioni politiche. Il libro di John Berger Una volta in Europa (li libro è stato pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Torino, 2003; NdR.) spiega come gli agricoltori si siano trasferiti nelle città 30-40 anni fa e come questo abbia quasi portato alla fine dell’agricoltura in Europa. Questo è in un certo senso un requiem per la classe contadina, che vale anche per la mia terra. Ecco perché quando Yusuf torna al villaggio trova solo persone anziane, a parte Mikail. Questo non significa che i contadini impegnati in politica siano scomparsi. Anzi, Hopa, nella provincia di Artvin, era in quell’epoca una delle poche municipalità socialiste. Ma questo è un altro discorso.
Yusuf sembra uscire dai romanzi russi per due motivi: io e la mia generazione abbiamo conosciuto il Socialismo anche in maniera idealistica, non solo attraverso quello reale dell’Unione Sovietica. Volevamo e sognavamo un altro tipo di Socialismo e la letteratura russa è stata molto importante nella costruzione della nostra identità e personalità. Yusuf condivide quindi gli ideali di una generazione romantica precedente al crollo sovietico, come Lermontov e Esenin, e inoltre si trova a vivere in un periodo che, con la fine dell’Unione Sovietica e l’operazione di tipo F, rappresenta il punto più basso per la storia della Sinistra. Forse, proprio toccando il fondo, si potrà iniziare una nuova Sinistra. Il film finisce in inverno, visto come preludio a una nuova primavera.

RR: Eka, la prostituta georgiana che sente un’affinità con Yusuf, pare non bastare a richiamarlo alla vita. Come simbolo di un passaggio di testimone, le lezioni che lui dà a Onur, un giovane del villaggio. Ma la prigione, che abbia le sbarre o meno, pare la stessa. Era questa la sua intenzione?

ÖA: Sì. Eka rappresenta l’ultima fortuna per Yusuf, una fortuna che potrebbe aiutarlo ad andare avanti. Ma Yusuf sa bene che la storia è quasi finita. Eka fa un passo verso di lui cercando di fare un viaggio che viene sempre ritardato. Yusuf vuole andare con Eka in Caucaso in treno ma questa volta è Eka a non farcela. Poi lui muore nel suo paesino. Il tema del viaggio irrealizzato rappresenta una separazione dentro tutta quella disperazione. Yusuf esce da un carcere ma casa sua diventa un carcere senza sbarre. Ho voluto creare un rapporto cinematografico fra casa sua e il carcere. Onur è importante per Yusuf, quindi impartirgli lezioni equivale secondo me a dargli una speranza. Come scrive Čechov in Zio Vania, «Non si deve mai smettere di sperare e sognare il domani cosicché la Russia possa creare nuovi ideali da un periodo pessimo». Onur rappresenta una speranza in questo senso.

RR: In Sonbahar, il realismo già presente in Momi prende una nuova forma all’interno di una storia di finzione. Si tratta di un’evoluzione naturale dello stile o è stata una scelta fatta già in fase di scrittura?

ÖA: Secondo me, con Momi ho voluto fondere la realtà dentro una realtà artistica e questo potrebbe essere il prototipo del mio cinema. Il mio obiettivo è quello di creare una nuova forma di realtà che si alimenta della realtà vera e propria. Questo non significa assolutamente riflettere le cose così come sono. Ad esempio, in Momi c’erano le persone vere, le riprese documentaristiche ma anche aspetti autobiografici. In quel periodo pensavamo molto alla teoria del cinema. Soprattutto al Neorealismo italiano e alla Nouvelle Vague francese. Jean-Luc Godard, con il suo modo di mostrare le conseguenze dell’alienazione, ha avuto una parte importante. Tutto questo è cominciato dalla fase di sceneggiatura.

RR: Qui la bellissima fotografia di Feza Çaldıran, pare essere un tutt’uno con lo stato d’animo del protagonista. Come avete lavorato sulle atmosfere, così importanti per il film?

ÖA: Nella mia cinematografia i luoghi sono indispensabili. Non penso ai luoghi come a spazi che i personaggi attraversano, andando e venendo. Il luogo è per me un personaggio. Per me i luoghi e i tempi sono elementi che riflettono il mondo interiore dei personaggi creando l’atmosfera di un film. Considero l’anima dei personaggi tenendo presente filosofia, politica e psicologia e facendo ricerche molto dettagliate sulla pittura, sempre tenendomi infine questa linea. Quando scrivo la sceneggiatura, mi reco spesso nei luoghi del film. Di solito mi preparo 2 o 3 anni per un film. Posso dire che nella fase di preparazione scatto molte foto per capire l’effetto di luce sull’atmosfera poi prendo appunti per lavorare con gli attori, il direttore della fotografia e lo scenografo.

RR: Uno tra gli aspetti che ho apprezzato molto del film è il fatto che fa a meno di tutto ciò che è superfluo, dialogo compreso, per dare spazio all’essenza. Come ha lavorato con l’attore Onur Saylak, fino ad allora attivo solo in teatro? E come lavora abitualmente con gli attori?

ÖA: Ho capito con il mio secondo film quanto sia importante prepararsi con sceneggiatura, attori e luoghi per le riprese. Sono tre elementi essenziali per un film. Avevo scelto Onur dal provino. Sono stato fortunato perché è stato in grado di capire il personaggio di Yusuf. Onur ha studiato all’università nello stesso periodo del personaggio e quindi conosce bene l’atmosfera politica di quell’epoca. Abbiamo lavorato sul carattere di Yusuf per sei mesi. Onur ha ascoltato le stesse musiche che ascoltava Yusuf, letto le poesie e i romanzi di Yusuf, la lettera scritta a Yusuf da sua nonna, guardato i film che amava il personaggio. Poi siamo andati a Hemşin, dove lui ha conosciuto le personalità politiche e ha imparato l’homshetsi. Ha pure frequentato un mio amico, che è stato in carcere dieci anni per uscirne un anno prima delle riprese, e osservato inoltre un altro amico che aveva fatto lo sciopero della fame per 155 giorni e in quel periodo si stava curando. In generale, utilizzo tre diversi metodi di lavoro con gli attori. I protagonisti come Onur ritengo debbano conoscere tutti gli aspetti del personaggio. Agli attori senza esperienza nel cinema, come Eka, cerco di trasmettere il mood del personaggio all’interno della scena. Il terzo riguarda il lavoro con attori non professionisti, di cui cerco di rispettare la naturalezza. Ad esempio, ho sempre cercato di convincere la madre di Yusuf ad aiutarci. Le dicevo di agire come se fosse nella vita reale, in modo naturale. Lei si svegliava, pregava e accendeva il fuoco molto presto la mattina. Quindi abbiamo girato proprio a quell’ora per catturare la scena in maniera documentaristica e senza troppe interruzioni. Per Gelecek uzun sürer ho lavorato al personaggio di Ahmet come avevo fatto con Onur. Le persone vere, i film, i libri e anche il linguaggio erano elementi primari per la preparazione. Lo abbiamo fatto anche per il personaggio di Sumru.

RR: Sonbahar ha partecipato a molti festival internazionali ottenendo molti premi, compreso il C.I.C.A.E. Award al Festival internazionale del film di Locarno, ma cosa è successo alla sua uscita nelle sale in Turchia? I premi ottenuti lo hanno aiutato nella distribuzione? Ed esiste ancora un pubblico in Turchia per film come il suo?

ÖA: Sonbahar ha ottenuto circa 40 premi tra festival nazionali e internazionali e, ovviamente, questo gli ha fatto ottenere il successo nelle sale. In Turchia, il cinema d’autore esce in poche copie ma per Sonbahar sono stati strappati 150.000 biglietti. Poi la vendita del DVD ufficiale ha raggiunto le 30.000 copie, cui vanno aggiunte le copie pirata. In fase di distribuzione abbiamo seguito però un altro metodo. Per la prima volta, sindacati, associazioni universitarie, le Camere di architettura e ingegneria (che in Turchia hanno un ruolo anche politico; NdR.) e altre organizzazioni politiche si sono uniti per la distribuzione del film. Hanno contribuito molto nel promuovere proiezioni nelle diverse città, organizzando così più di 30 prime a cui ho partecipato. Sono andato in diverse università per fare interviste. Non solo nelle grandi città ma anche nelle cittadine dell’Anatolia. Quindi ho avuto contatto con circa 100’000 persone tra proiezioni e anteprime. Abbiamo parlato e discusso su temi politici ed è stata un’esperienza unica. Certamente esiste un pubblico per i film a tematica politica, ma purtroppo non ci sono praticamente sale indipendenti in Turchia. Niente del genere in Anatolia e neppure a Istanbul. In una città di 20 milioni di abitanti, ci sono solo una o due sale che proiettino film indipendenti, un grosso problema per il cinema turco. Quasi tutti i film escono in sale che si trovano all’interno di centri commerciali. Ogni giorno chiude una sala indipendente. Prima di fare cinema, dobbiamo risolvere questo problema. Dobbiamo avere una rete di sale indipendenti per la distribuzione dei nostri film.

RR: L’accoglienza da parte del pubblico è stata quindi molto buona. E quella da parte della critica?

ÖA: È stata buona, in generale. Sinceramente, non c’è stata l’occasione di fare un’intervista approfondita come quella che sto facendo con lei. Ne ho fatte due o tre buone, volendo, a cura di pubblicazioni cinematografiche indipendenti e alternative. In Turchia abbiamo pochi buoni giornali dedicati al cinema, purtroppo. Nel corso del tempo, o hanno chiuso o si sono ridotti. Sui giornali sono rimasti solo articoli promozionali.

RR: Nel 2010 firma l’episodio Moto Guzzi del film collettivo Kars öyküleri (Tales from Kars). Nel poetico episodio vediamo Yusuf andare a scuola in mezzo alla neve con la sua bicicletta superato da una Moto Guzzi che accompagna a scuola una bambina con cui non ha il coraggio di parlare. Come nasce questo progetto? C’è qualcosa di autobiografico in questa breve storia?

ÖA: In realtà il progetto è stato realizzato nel 2010 ma io avevo scritto la storia, ispirandomi al racconto di uno storico di Kars (Kars è una città della Turchia nord-orientale, capitale della provincia omonima; NdR.), molto prima di girare Sonbahar, avendo mandato la sceneggiatura a un concorso sulla storia di Kars, all’interno del Festival on Reels. Però subito dopo sono stato completamente assorbito da Sonbahar. All’inizio, non volevo nemmeno partecipare alla realizzazione perché il piano di lavorazione era diverso dal mio modo di fare film. Siamo andati a Kars un giorno prima di girare per trovare gli attori e il giorno successivo abbiamo fatto le riprese. Questo è ciò che non mi è piaciuto. Giravamo in 35 mm, c’erano diversi registi nuovi e mi hanno lasciato ultimo proprio perché avevo più esperienza rispetto agli altri. Alcuni piani li abbiamo girati misurando la pellicola perché ne era rimasta poca. È stato un progetto rivolto soprattutto a registi esordienti perché potessero sperimentare il lavoro con una troupe professionale e girare in 35 mm, una specie di atto di solidarietà nei loro confronti. Nel film non c’erano elementi autobiografici se non indiretti. Ad esempio, io sono cresciuto in un villaggio sulla collina con un rigido clima invernale e ricordo quanto fosse duro andare a scuola in quella stagione. Ho potuto avere una bicicletta solo durante gli studi universitari. Mentre imparavo ad andare in bicicletta, sono caduto facendomi male e così ho concluso il mio rapporto con le due ruote. Tuttavia la bicicletta, come mezzo alternativo all’automobile, mi ispira ancora. In Gelecek uzun sürer, Ahmet si muove in bici e sogna di girare tutta la regione del Mar Nero con quella. Questo è forse un aspetto autobiografico.

RR: Visto che l’ha già citato, nel 2011 dirige il suo secondo lungometraggio Gelecek uzun sürer (Future Lasts Forever), in cui l’importanza della memoria ha la forma della repressione turca verso il popolo curdo. Nel film, Sumru viaggia per l’Anatolia alla ricerca di elegie da registrare per la sua tesi di laurea. Il viaggio la porta prima a Diyarbakır e quindi la avvicina a Hakkâri (La provincia di Hakkâri è una delle province della Turchia. La popolazione è prevalentemente curda; NdR.), luogo di origine del suo compagno, di cui non ha notizie da tre anni. La sua storia serve a introdurre il tema della repressione in maniera ancora più potente. Aiutata da Ahmet, che vende DVD per strada, sembra non trovare altro che testimonianze di un sanguinoso passato e di paura. Qui il realismo prende una nuova forma grazie all’inserimento di testimonianze vere.
Inoltre, Diyarbakır viene non ufficialmente considerata la Capitale del Kurdistan. Com’è stato girare in quei luoghi? C’è stato qualcosa che l’ha sorpresa?

ÖA: Quello della questione curda e la guerra che continua da ormai 30 anni è un aspetto importante per me, per le persone coinvolte nella politica e per una parte del popolo turco, a dispetto dalla disinformazione veicolata dai media. Abbiamo visto come hanno deviato l’opinione del pubblico, specialmente attraverso televisione e stampa. Cosi ho pensato di usare testimonianze vere. Ho voluto ricreare la realtà e usare una nuova forma contro la disinformazione. Ho pensato di dare ai Curdi uno spazio nel film, anche se solo per pochi minuti, il tempo di spiegare se stessi. La memoria visuale e la storia verbale sono importanti in Paesi come la Turchia, che tentano sempre di distruggere la memoria. Ho viaggiato nella regione curda – cioè Diyarbakır, Hakkâri e le altre città – scrivendo Gelecek uzun sürer. Ero aperto all’idea di cambiare il mio punto di vista, faccio film non solo per raccontare qualcosa alla gente ma anche per imparare a cambiare me stesso nel corso del mio lavoro. Sono stato a Diyarbakır, Hakkâri, Van, Batman e alcuni villaggi, abitandoci per un certo periodo. Ho mantenuto poche testimonianze nel film, ma ne ho sentite centinaia, storie dure, ognuna delle quali aveva il potere di colpirmi profondamente. Ad esempio, Ahmet in origine non proveniva da Silvan (Silvan è il capoluogo del distretto omonimo nella provincia di Diyarbakır; NdR.) ma ho scelto quel luogo perché è stato scioccante per me sapere che a Silvan ci sono state più di 2000 persone scomparse nel nulla. Allo stesso tempo, a Hakkâri vedevo che la gente era riuscita a liberarsi, malgrado tutto ciò che era capitato. Ho notato che non c’era solamente oppressione e abuso ma anche una lotta per trasformare la situazione.
Fare riprese in una città come Diyarbakır non è stato facile ma abbiamo saputo superare ogni problema. Il conflitto continuava, anche se con una intensità minore. Diyarbakır è una città assai affollata. Ad esempio, il quartiere armeno aveva 350.000 abitanti ma dopo gli anni ’90 – dopo l’evacuazione dei villaggi – conta più di un milione di abitanti. Ovviamente, le persone scappate dalla loro terra, lasciandosi tutto alle spalle, vivono una situazione difficilissima, di povertà nel ghetto della città. Ho visto due o tre famiglie vivere nella stessa casa. Un’altra cosa che mi ha scioccato mentre cercavo documentari e immagini di archivio è stata trovare un documentario su un soldato – membro del Jitem (Jandarma İstihbarat ve Terörle Mücadele, l’organizzazione di Stato contro il terrorismo che si dice essere stata molto attiva nel conflitto turco-curdo; NdR.) – che raccontava di come, in un solo giorno, svegliandosi normalmente e uscendo di casa, fosse andato ad uccidere tranquillamente 120 persone. Una cosa orribile. Un’altra testimonianza riguardava un bambino, Serhat, nove anni all’epoca, che cercando nei pozzi padre, fratelli e zio uccisi, trovava invece altre persone conosciute e sua madre. Questa cosa dimostra il livello di violenza entrato nella vita di un bimbo di soli 9 anni. Per questo ho usato il titolo Gelecek uzun sürer.

RR: Come ha proceduto alla scrittura del film?

ÖA: Di solito, almeno fino ad ora, ci sono diverse cose che confluiscono nella fase di scrittura. Soprattutto mi concentro sul tema. Per Gelecek uzun sürer avevo cominciato a scrivere prima di Sonbahar. In realtà avevo in mente un film su un gruppo di giovani universitari. La storia iniziava nel 1992 e terminava nel 1996. Era un film che raccontava gli studenti universitari e terminava nello stesso tempo dell’inizio delle manifestazioni contro la globalizzazione a Praga. C’era un personaggio della regione di Karadeniz che era simile a Yusuf in Sonbahar. Ma lui era morto nello sciopero della fame nel 1996 e il suo funerale aveva luogo a Karadeniz. Un altro partecipava a una rapina e scappava all’estero. Un terzo andava sulle montagne e si univa al PKK. Un altro sceglieva di morire con la sua bici senza che si capisse se si trattasse di un incidente o di un suicidio. Poi c’erano due ragazze. Poi quel personaggio che andava sulle montagne è diventato Harun in Gelecek uzun sürer. Perché ho sempre pensato di parlare del problema curdo sin dall’inizio. Il cinema indipendente deve parlare di questo problema importante. Discutevamo sempre di come si trattare questo problema attraverso il cinema. Queste sono state le prime ispirazioni nello scrivere il film. La sceneggiatura di Gelecek uzun sürer era diversa e si svolgeva a Diyarbakır nel 2003 o 2005. Ahmet è nato come un personaggio di quella storia. Vendeva DVD e si innamorava di una ragazza il cui padre si era unito al PKK invece che di una ragazza che studia all’università. Lui voleva girare un film sulle persone scomparse. In quel periodo pensavo molto alle elegie dell’Anatolia su cui Yaşar Kemal ha scritto molto. Andavo in quei luoghi e ci pensavo. Poi la storia è nata e l’ho sviluppata man mano. Ero in contatto con le organizzazioni di donne della zona, la municipalità e le associazioni che lavorano per gli orfani e facevo interviste. Costruivo la sceneggiatura e la discutevo con i miei amici. Thomas Balkenhol (anche montatore del film; NdR.) era uno dei miei supervisori alla sceneggiatura. Abbiamo parlato e letto molto sul tema della memoria e sullo scontro su base filosofica e politica.
Sonbahar era un film molto compatto, Gelecek uzun sürer, invece, è più sofisticato. Un soggetto attuale. In Turchia ognuno ha una sua idea – di solito basata sul pregiudizio – su questo problema. Poi per lo stile del film mi sentivo di dover provare un nuovo linguaggio, sentivo che il film aveva bisogno di questa novità. Ovviamente, procedere cosi costituiva un rischio e non era facile. Perciò, se Gelecek uzun surer fosse stato il mio primo film, magari non avrei avuto il coraggio di lavorare così ma ho pensato che, avendo fatto Sonbahar, avrei potuto provare altre cose per arrivare un livello alto che discutesse la forma di realtà e memoria. Probabilmente nessuno affronterebbe il rischio di inserire 15 minuti di documentario dentro un film di finzione. Ma io l’ho fatto perché volevo provarci.

RR: Nel film sono presenti molte citazioni cinematografiche e soprattutto poetiche, tanto che nei titoli vengono ringraziati Jean-Luc Godard e Wim Wenders, il poeta e scrittore John Berger, il poeta Andrej Voznesenskij, gli scrittori Mehmed Uzun e il citato Yaşar Kemal, imprigionato nel 1996 per le critiche espresse contro il governo turco nel suo trattamento della minoranza curda. Qual è stata la loro reale influenza sul suo lavoro?

ÖA: Non mi piace fare una cinema chiuso in se stesso. Mi piace l’interazione fra il cinema e altre forme di arte che si nutrano reciprocamente. Quindi i miei film conoscono l’influenza di altre arti come poesia, pittura, letteratura o cinema, ovviamente. Come accade nella vita, anche l’arte contiene in sé diverse influenze. Lo trovo normale e mi piace cosi. A volte faccio citazioni di cose che mi piacciono o che stanno per scomparire, cosi apro una nuova porta per gli altri. In Sonbahar la vita di Yusuf è nata da una poesia di Sergej Esenin. Ho trovato ispirazione anche in Mikhail Lermontov e Čechov. Godard è importante per la sua lotta contro il conformismo, per il coraggio di cambiare continuamente, proseguendo la sua ricerca, anche all’apice della carriera. Perché nel cinema, quando uno conosce un certo successo, non cambia mai perché vuole mantenerlo. La storia del cinema è piena di gente cosi, che a un certo punto inizia a ripetere se stessa. Questo è conformismo. Loro scelgono di muoversi in una spirale verso il centro. Invece io scelgo di girarmi verso l’esterno. È cosi che ho potuto fare Gelecek uzun sürer dopo Sonbahar. Godard mi ha dato il coraggio in questo senso. Godard è un autore che ha avuto il coraggio di scegliere totalmente un altro modo per poter raccontare una storia anche quando era all’apice della sua carriera. Potrebbe essere che i suoi film seguenti non siano stati ben accolti dal pubblico. Ma lui ha avuto il coraggio di creare e cercare nuove forme nell’arte.
Lo stesso discorso vale per altri registi che sono sul punto di estinzione come Angelopoulos, Béla Tarr e Antonioni. Oggi, se uno ha avuto il successo in una certa maniera, lo sfrutta e non abbandona la formula. Wim Wenders, ad esempio, prova sempre, come Godard, nuove forme. Wenders ha fatto, con le sue prime opere, alcuni tra i più bei film mai realizzati sulla città, sulla memoria, sul cinema, il viaggio e la poesia.
John Berger (critico d’arte, scrittore e pittore inglese. Con il suo romanzo G. ha vinto il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972; NdR.) è uno che adoro davvero. Se mi si chiedesse che cosa desidero di più nella mia vita, risponderei di voler conoscere John Berger per parlare con lui anche solo cinque minuti. Penso che la sua anima si possa vedere nei due film che ho realizzato. Lui dice che i padroni non distruggono solo la verità ma anche i documenti, per questo dobbiamo ricordare ogni cosa nell’eventualità che questo accada. Questa considerazione mi ha portato a costruire un “centro sulla memoria” (vedi articolo sul film; NdR.) in Gelecek uzun sürer. Penso che lui sia non solo un letterato ma anche un autore che unisce filosofia, pittura e letteratura. Lui crea un sogno da questa unità, crea un futuro dal passato e parla dell’umanità buona. L’aspetto che mi impressiona maggiormente di lui è che è un filosofo più che un letterato. Poi ci sono i poeti importanti per il loro periodo ma dei quali il pubblico odierno pare essersi dimenticato. Ad esempio Andrej Voznesenskij. Lui mi ha impressionato molto e quindi l’ho ringraziato nei miei film. Mehmed Uzun (Mehmed Uzun, 1953-2007, è stato un romanziere e scrittore zaza-curdo. Malgrado la lingua curda fosse stata bandita dal 1920 al 1990, scriveva nella sua lingua madre; NdR.) è stato importante per Gelecek uzun sürer. Perché la sua anima era presente sulla strada di Diyarbakır. Ha scritto un libro in curdo mentre si discuteva sull’esistenza o meno di una lingua curda. Yaşar Kemal è un grande scrittore che ha introdotto più di 500 parole nella lingua turca essendo un Curdo. Ha creato una letteratura nuova ed originale dai miti, dai dengbej (i dengbej sono cantastorie o poeti-cantori curdi, depositari delle tradizioni e della lingua curde il cui repertorio è costituito da canti, tramandati oralmente, su avvenimenti storici o epico-leggendari; NdR.), dai racconti. Il suo rapporto con la natura è importante. Mi interessa molto come lui interagisce con la natura in ogni romanzo. Lui mi ha commosso ogni volta che ha scritto un nuovo romanzo e quindi lo ringrazierò sempre. Inoltre il mio nuovo film avrà un prologo che è ispirato a un suo racconto.

RR: In effetti, il film diventa una raccolta di elegie commentate proprio come aveva fatto Yaşar Kemal in un libro scritto in gioventù. Quanto è stato importante il suo lavoro nella costruzione del film?

ÖA: Quella è stata forse la sua prima opera. Negli anni ’40 lui aveva conosciuto Abidin Dino, Arif Dino e Güzin Dino (Abidin Dino, 1913-1993, è stato un celebre pittore turco. Sua moglie Güzin Dino, una linguista, traduttrice e scrittrice. Arif Dino – 1893-1957 – pittore e poeta, era fratello maggiore di Abidin; NdR.) che gli hanno dato il coraggio di scrivere le elegie che ha raccolto. Il libro è stato pubblicato tanti anni dopo essere stato scritto. Ho letto quasi tutti i suoi libri e mi interessa non solo la raccolta di elegie ma anche il significato delle elegie nelle culture come la nostra. La loro rappresentazione, sia nella letteratura che nel cinema, è importante anche per il discorso su “realismo-realtà”. Quindi Gelecek uzun sürer, come Sonbahar, è un film che è un’elegia in totale. Posso dire che le elegie hanno influenzato sia la forma che del contenuto in Gelecek uzun sürer.

RR: Guardando il film, mi sono chiesto quale sia stata la reazione della censura verso un film in cui il termine genocidio è usato esplicitamente. Ci sono stati problemi o qualcosa è cambiato dopo la modifica dell’articolo 301? Ed è cambiata anche la percezione da parte delle persone comuni?

ÖA: Nel film, il termine genocidio viene usato quando zio Anto parla di sua madre, che ha perso suo fratello nel 1915, ascoltando un’elegia con la sua stessa madre. La parola “genocidio” si può ormai usare in Turchia. L’articolo 301 è una questione di legge e politica. Dobbiamo fare una distinzione fra lo sguardo del pubblico e lo stato. Comunque, qualcosa è cambiato in Turchia nei primi anni 2000. Ma poi quando un giornalista armeno – Hrant Dink (v. www.rapportoconfidenziale.org/?p=25189; NdR.) – è stato ucciso nel 2007, si è creato un momento critico per la comprensione del pubblico. Hrant Dink era una figura molto potente, in grado di convincere sia il pubblico armeno che quello turco. Grazie a lui e ad altri intellettuali, qualcosa ha cominciato a cambiare. Ma ancora troppo poco. Quindi, a riguardo della censura, noi avevamo usato il termine genocidio in un sottotitolo inglese per la proiezione in Turchia. Ma per il sottotitolo turco avevamo tradotto il termine direttamente dall’armeno, dove la parola ha il significato di “gran massacro”. Non volevo che il film rischiasse di non poter uscire nelle sale solo a causa di un termine. Alcuni giornalisti si sono accorti della parola leggendo il termine in inglese ma poi non è successo niente. Forse il mio primo film ha contribuito in questo senso. Questo problema, in realtà, ha a che fare con lo sguardo del pubblico. Non è facile ma penso che col tempo cambierà.

RR: In Italia si dice che un Paese senza memoria è un Paese senza futuro. Lei crede che il cinema abbia ancora il potere di mantenere viva la memoria grazie alle sue storie?

ÖA: Questa frase vale anche per la Turchia. Definisco la Turchia come un Paese senza memoria. Sono accadute tante cose brutte nel passato ma la Storia e l’educazione ufficiale creano un passato falsificato ed è quindi difficile creare una memoria basata sulla realtà. Quindi, anche creare un futuro diventa difficile. Il cinema potrebbe avvalersi di storie forti e vere del passato. Io lavoro molto in questo senso. Tutti i miei film trattano, e forse continueranno a trattare, il tema della memoria. Cercano di farci dimenticare le storie personali che si nascondono nella Storia e io cerco di mantenermi saldo sulle mie posizioni partendo proprio da qui. È ovvio che il cinema non può assumersi questa responsabilità da solo. Però può offrire il suo contributo.

RR: Quanta importanza ha la sua esperienza personale nella costruzione delle storie? Lo chiedo perché si svolgono spesso nella Turchia orientale, ai confini con la Georgia, luogo di cui lei è originario.

ÖA: La mia esperienza personale mi è d’aiuto nello scrivere una storia. Sonbahar, come abbiamo detto, si svolge ai confini con la Georgia, dove ho vissuto la mia infanzia e gioventù. In Sonbahar e Momi uso l’homshetsi, una lingua che si appresta a scomparire, non solo perché ha a che fare con le mie origini ma anche perché, secondo me, ha a che fare con una lotta politica. Però il mio secondo film si svolge nei territori curdi. Il problema curdo è in realtà un problema di tutti, tocca tutti noi, e quindi il mio rapporto con i film non ha a che vedere con la geografia ma con la politica. Se oggi in Turchia i Curdi ottenessero il diritto all’istruzione nella loro lingua madre, tutto il Paese diventerebbe più democratico. Alla fine, le mie storie nascono non solo dalle mie esperienze personali ma anche dal passato collettivo.

RR: Sonbahar è, secondo me, un film fortemente politico (nel vero senso e ampio del termine) che scaturisce da una storia intima. In Gelecek uzun sürer il tono politico è più esplicito. Immagini di madri, mogli e parenti che raccontano della scomparsa dei loro cari, immagini risalenti agli anni ’90 con le invasioni militari dei villaggi curdi irrompono nella finzione rompendo ogni barriera tra i generi. Era una cosa che le era già chiara in fase di scrittura?

ÖA: Mentre scrivo un film, considero sempre la forma come conseguenza del contenuto. Per Gelecek uzun sürer, la forma è nata certamente in fase di sceneggiatura. Ma c’è comunque sempre un’interazione. Nel corso della prima stesura della sceneggiatura non pensavo che avrei potuto usare in maniera così presente le interviste o le voci ma poi la forma e lo stile piano piano sono maturati scrivendolo. Quindi posso dire che all’inizio ho qualcosa in mente ma poi, scrivendo una storia, il contenuto mi aiuta molto nella costruzione della forma.

RR: I temi ricorrenti del suo cinema – l’identità, la memoria, la repressione, la persecuzione – sono universali, condivisibili in tutto il mondo. Quali sono le reazioni del pubblico fuori dalla Turchia?

ÖA: Lavoro molto su questo aspetto internazionale realizzando i miei film. Faccio film che si svolgono in Turchia ma che sono in grado di parlare anche agli spettatori di Argentina, India, Palestina. Oppure che parleranno al pubblico tra 10 anni. Non sono un regista famoso ma, quando vado all’estero con un mio film, vedo che riesce a suscitare interesse nelle persone e parlo davanti a sale piene. Sonbahar è stato proiettato in tanti festival. Poi la gente è venuta a vedere Gelecek uzun sürer sapendo di Sonbahar. A causa della forma, nuova per il pubblico turco, Gelecek uzun sürer ha ottenuto reazioni migliori all’estero. Il tema era difficile e per questo motivo ho voluto utilizzare interviste e citazioni politiche senza limitarmi a raccontare solamente una storia. Pensando ai riscontri all’estero, penso che la forma del film fosse quella giusta. Il film è stato accolto bene, soprattutto nei festival. Sfortunatamente, come dicevo, i film indipendenti hanno poca fortuna nella distribuzione nelle sale. Tuttavia, il film potrebbe trovare spazio nelle sale in Germania, Francia o Grecia. Ho notato un certo interesse per il film in Georgia, Armenia e Stati Uniti. In Italia non abbiamo distribuzione ma spero possa uscire.

RR: «I Curdi sono diventati oggetto di indagine sociologica» commenta sconsolato un personaggio del film. Pensa che il rischio che le lotte dei Curdi vengano recepita così sia reale?

ÖA: Quella frase è un riferimento al problema curdo, attuale in quel momento e ancora oggi. Per un certo periodo si è visto un popolo venire rifiutato. Dopo una lotta politica lunga anni, è venuto un momento di accettazione ma anche di emarginazione. Poi c’è un periodo in cui il potere lo ridefinisce attraverso i suoi argomenti. La frase viene pronunciata nel film da un Curdo a un Turco. La ricercatrice del film rappresenta il pubblico turco. Qui il discorso è che i Turchi non possono avere la possibilità di dare la libertà ai Curdi oppure definire il loro destino. Questo è ciò che Fanon (Frantz Fanon, 1925-1961, è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese-martinicano, nato da una famiglia discendente da schiavi africani, servi tamil e bianchi; NdR.) dice sul problema tra bianchi-neri e Algeria-Francia: «Gli altri possono ancora decidere della nostra libertà?».
C’è l’idea comune che i Turchi abbiano il diritto di decidere il futuro dei Curdi. Sfortunatamente questa idea si può trovare in accademia a causa di ricercatori che non sono consapevoli di essere razzisti. Diciamo che questa era una critica per questo tipo di ricercatori e per un tipo di Sinistra.

RR: Un’immagine spaventosa del film vede i due protagonisti trovare le VHS contenenti le testimonianze dei sopravvissuti ammucchiate in scatoloni, dove nessuno potrebbe trovarle. E sono anche soli in una stanza come se fossero gli unici interessati al tema. L’ho trovata un’immagine fortemente simbolica della rimozione del passato. È davvero questa la situazione secondo lei?

ÖA: Volevo ricostruire la memoria non solo con il film ma dentro al film. Come il detto italiano che dice un Paese senza memoria è un Paese senza futuro, John Berger ha sottolineato che il potere assale sempre la memoria e i documenti. Penso che per risolvere il problema di come vivono i Curdi in questo Paese, i documenti e i ricordi di questo tipo siano essenziali. Anche per evitare di vivere la stessa situazione in futuro. Nella realtà, non esiste un centro di memoria audiovisiva a Diyarbakır. Ho costruito io una stanza sopra la biblioteca di Diyarbakır e l’ho chiamata Ape Musa – con riferimento al mitico Musa Anter (Musa Anter, noto anche con il nomignolo “Ape Musa” – letteralmente “zio Musa” – è stato un dissidente curdo, uno scrittore e attivista. È stato ucciso a Diyarbakır nel 1992; NdR.). Sotto c’è una biblioteca dedicata a Mehmed Uzun che si vede anche nel film. Quella biblioteca era il mio posto preferito quando lavoravo al film. C’erano tre stanze vuote sopra. Ho chiesto questa stanza alla municipalità perché non esiste un posto cosi. I documenti, i ricordi, sono davvero in disordine. Me ne sono occupato io preparando il film. Ma non esisteva un posto dove poter mettere ordine al materiale. Ecco perché i due personaggi si trovano lì.

RR: Nel tempo, e con soli due lungometraggi, lei è riuscito a sviluppare un suo proprio linguaggio cinematografico, uno stile molto personale che si evolve di film in film restando riconoscibile. Com’è sta cambiando nel tempo il suo modo di fare film secondo lei?

ÖA: Il cinema è un’arte che si impara facendola. Però, vedendo la mia filmografia, posso vedere l’integrità nello stile. Ovviamente non è una cosa che si possa prevedere, lo stile nasce da un’intuizione. Nei primi due film è così ma sento che per il terzo stile e forma saranno maturati, o forse voglio pensare che sia così. Finisco il 90% del film nella mia mente, prima di andare sul set, cerco di prepararmi al meglio. Spero che, come ha detto lei, nel mio terzo film si sentirà più forte uno stile originale.

RR: Per Gelecek uzun sürer torna a lavorare con il direttore della fotografia di Sonbahar Feza Çaldıran e anche qui il paesaggio ha una parte fondamentale nella storia raccontata. Come lavorate insieme?

ÖA: Ho lavorato con Feza sia per Sonbahar che per Gelecek uzun sürer. L’ho conosciuto mentre lavoravo come aiuto regista in un film per cui lavorava anche lui. Avere un direttore della fotografia con cui si possa discutere delle scelte è molto importante. Io mi reco spesso sui luoghi della storia mentre scrivo un film. Per me sono importanti il modo di usare luci, natura e luoghi. A volte faccio ricerche anche attraverso dipinti e letteratura per capire cosa c’è stato prima. Mostro i disegni per quasi tutte le scene sia al direttore della fotografia che allo scenografo per offrire loro esempi che facciano capire cosa voglio: dal colore dei muri a quello degli abiti. Poi scatto fotografie, anche se non sono un fotografo professionista. Lo faccio per fare capire cosa voglio ottenere. Faccio quindi il découpage della sceneggiatura per definire i piani e le lenti. Lavoro con la luce naturale e quindi definisco gli orari di sole per ottenere le atmosfere che voglio, è un lavoro molto dettagliato. Poi spiego tutto alla troupe, e questo è un punto cruciale. Vado con il direttore della fotografia, i tecnici, il capo macchinista, lo scenografo, l’assistente di produzione e spiego il film scena per scena. Poi loro si preparano. Feza è un direttore della fotografia che lavora sempre per il bene del progetto. Con lui si discute sempre su cosa sia meglio per il film. Se litighiamo, lo facciamo per il bene del film. Per agire così, occorre che ci sia un’amicizia e io e Feza siamo amici.

RR: Il film è prodotto da lei attraverso la sua casa di produzione Nar Film ed è stato sostenuto da Eurimages e Centre National de la Cinématographie (CNC). Sarebbe stato difficile trovare una produzione turca per un tema così scottante della storia del Paese?

ÖA: Per il mio secondo film sono stato fortunato perché ho potuto trovare il finanziamento dal Ministero. Per film come i miei diventa sempre più difficile trovare sostegno dalla Turchia. Sonbahar mi è stato di aiuto per il mio secondo film però, dopo avere realizzato un film che toccava il problema dei Curdi, sentivo che prima o poi sarebbe giunta la punizione. Ed ecco che mi capita oggi per il terzo film: ottenere il finanziamento dalla Turchia è quasi impossibile. Cerco fondi non solo presso il CNC e Eurimage ma anche dalla Germania, Georgia e alcuni altri Paesi. Voglio comunque fare questo film.

RR: Hüseyin Karabey mi ha fatto il suo nome in un’intervista realizzata due mesi fa quando gli ho chiesto alcuni nomi del cinema turco attuale degni di interesse. Esiste una nuova generazione di registi in Turchia?

ÖA: Sì, esiste. Io e i miei colleghi apparteniamo a una nuova generazione. Siamo in 10 o 15, coloro che stanno girando o si apprestano a girare il loro secondo o terzo film. La generazione precedente – Yeşim Ustaoğlu, Nuri Bilge Ceylan, Zeki Demirkubuz, Semih Kaplanoğlu e pochi altri – ci hanno aperto la porta. Tutti abbiamo un nostro stile. Però non so se, oltre alla passione per il cinema, ci sia altro ad accomunarci. Io vorrei che avessimo tutti un obiettivo comune. Parlando della mia generazione, siamo 4 o 5 registi che cercano di sostenersi in qualche maniera. Comunque gli accademici possono rispondere questa domanda meglio di me, penso.

RR: Tornando al suo terzo lungometraggio Rüzgarın Hatıraları la cui sceneggiatura ha ottenuto il sostegno del fondo Hubert Bals del Rotterdam Film Festival, si può sapere di cosa tratterà e se sa già quando inizierà a girarlo?

ÖA: Il mio terzo film Rüzgarin Hatıraları (letteralmente: “Le memorie del vento”) ha ottenuto il sostegno alla sceneggiatura dal fondo Hubert Bals. Nel frattempo ha vinto il sostegno dal Montpellier Cinemed, sempre per lo sviluppo della sceneggiatura. Poi abbiamo avuto un altro sostegno e sopratutto questo mi potrebbe portare nuove opportunità, soprattutto dopo non avere potuto trovare il sostegno dalla Turchia! Di solito non mi piace spiegare il soggetto dei miei film prima delle riprese ma diciamo che il film tratta del Nazismo in ascesa nella Seconda guerra mondiale – forse questo potrebbe interessare al pubblico italiano – e i suoi effetti in Turchia. La storia ha uno sfondo politico. Partendo da questo spunto, si arriva a una storia umana e il film tratterà dell’essere in esilio, senza una patria. Seguiamo le tracce di memoria soprattutto a riguardo del passato di questo Paese ma allo stesso tempo ci sono aspetti personali. Da un lato ci sono i veri eventi, ma dall’altro il film cercherà di costruire una sua realtà. Penso che sarà un film poetico. Pensavo di cominciare le riprese nel maggio del 2013 ma, a causa dei problemi finanziari, abbiamo rimandato a settembre. Se non troverò i finanziamenti, dovrò per forza rimandarlo ancora a maggio del 2014. Spero però di poterlo girare il prima possibile. •

Febbraio 2013

 

Un ringraziamento particolare va a Kıvanç Sezer, per la traduzione e la preziosa assistenza.
Le note sono state compilate attraverso Wikipedia, Vikipedi e altre fonti.
Per tutte le immagini: © Nar Film (www.narfilm.com)

 

 

ÖZCAN ALPER / FILMOGRAFIA

REGIA E SCENEGGIATURA
2001
Momi (Grandmother)
Scritto con Özkan Küçük
2007
Sonbahar (Autumn)
2010
Kars öyküleri (Tales from Kars)
episodio Moto Guzzi
2011
Gelecek uzun sürer (Future Lasts Forever)

DOCUMENTARI
2002
Bir Bilimadamıyla Zaman Enleminde Yolculuk (Voyage in Time with a Scientist)
2005
Tokai City’de Melankoli ve Rapsodi (Rhapsody and Melancholy in Tokai City)

 

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speciale NUOVO CINEMA TURCO

 

 

Rapporto Confidenziale
numero 38
marzo/aprile 2013
ISSN: 2235-1329

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