Ci sono film che funzionano ma non basta. Ci sono film che quando escono, dopo mesi di ricerca della propria strada verso il pubblico, ottengono una media sala alta ma ancora non sufficiente a far sì che in loro si creda un po’ di più. Ci sono film che escono in poche sale in giro per l’Italia e che è davvero complicato riuscire a vedere. Ci sono film che raccontano il nostro Paese, il nostro tempo, le nostre vite ma che ‘O Sistema cinematografico non vuole che siano visti. Ci sono film, come Piccola Patria di Alessandro Rossetto, che meriterebbero ben altro spazio.
Presentato in concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 2013, passato per Rotterdam e il CPH PIX di Copenhagen, è giunto nelle sale italiane il 10 aprile (sulla pagina facebook del film trovate il calendario delle proiezioni), distribuito da Cinecittà Luce (e sospinto dal regista stesso e dalla sua squadra attraverso una capillare “chiamata alle armi” via SMS e posta elettronica), l’esordio al lungometraggio di finzione di uno dei documentaristi italiani più solidi e apprezzati, anche all’estero, è un noir che è un pugno allo stomaco ambientato in un Nordest iperrealista fra centri commerciali e aree industriali, fra feste indipendentiste e raduni di musica country (qui la nostra recensione).
Piccola Patria è un film di cui vale la pena parlare.
Alessio Galbiati: Qual è stata l’idea di partenza del progetto? Qual è stata la scintilla, il seme, che ti ha fatto capire che avresti voluto realizzare quest’opera?
Alessandro Rossetto: Con Caterina Serra abbiamo scritto il soggetto partendo da due idee, raccontare il tempo del passaggio tra la giovinezza e la prima età adulta e trattare del corpo e del futuro dei giovani, messo in pericolo da adulti senza scrupoli. C’erano poi pratiche da sperimentare sul procedere della scrittura, con una ricerca sul campo di storie e di profili che fossero d’ispirazione e che portassero ad approfondire aspetti interstiziali, spesso dimenticati nelle storie cinematografiche. Personalmente volevo da tempo confrontarmi con la finzione e volevo farlo in un certo modo, piegando il racconto e le riprese a scelte di regia che venissero dalla mia esperienza.
AG: In tutte le fasi di ripresa la sceneggiatura (scritta con Caterina Serra e Maurizio Braucci) è stata stravolta per lasciare spazio all’improvvisazione. Potresti illustrarmi questo processo? Quanto è stato complesso non perdere il controllo e rimanere fedeli all’idea di partenza? E come è stato possibile operare in questo modo in accordo con la produzione e i finanziatori?
AR: È più giusto dire che la sceneggiatura fu concepita per essere stravolta, lasciando già in scrittura lo spazio previsto per il cambiamento. Possiamo parlare di due ordini d’improvvisazione, l’uno riguarda parte del lavoro degli attori, l’altro appunto la sceneggiatura. Soffermandoci su quest’ultimo, occorre dire che il ”copione” aveva un aspetto classico, con divisione per scene, dialoghi, linea del racconto riconoscibile e una strutturazione generale che lo rendesse comunque comprensibile e appetibile. Produzione e finanziatori hanno quindi maneggiato uno scritto quasi classico, introdotto però da una nota che spiegava le prospettive del cambiamento possibile e accompagnato da una sorta di prontuario di regia che scendeva nei dettagli di queste prospettive.
AG: Improvvisare significa essere aperti a ciò che accade durante le riprese, ma significa pure arrivare al montaggio con ore e ore di girato da dover legare fra loro. Come avete lavorato alla tessitura del film e con quanta fatica?
AR: Non ho girato più di quanto si giri usualmente per un lungometraggio complesso e stratificato. Sono stato l’operatore alla macchina del film, lo ero stato in passato nei mie film documentari girati in pellicola e ho una formazione che non prevede certo la registrazione infinita, per lasciare poi la scelta al montaggio. Ho montato Piccola Patria con Jacopo Quadri, mio collaboratore da anni, abbiamo un’esperienza comune vasta e un’intesa ormai solida, questo è stato essenziale. Le improvvisazioni degli attori, le variazioni delle scene rispetto alla sceneggiatura e il rapporto con i quadri di realtà che costellano il film, sono stati ben preparati e controllati. Montando, la nostra guida rimaneva la sceneggiatura e nonostante in ripresa io abbia molto rimaneggiato struttura e scene rimanendo aperto alle incursioni della realtà, ritrovo nel film il lavoro di scrittura originario.
AG: Mi interessa sapere con quale strumentazione avete lavorato? Quante macchine da presa avevate sul set? Avete lavorato in digitale o in pellicola? E perché l’uno o l’altro?
AR: Abbiamo girato in digitale, con obiettivi cinematografici, raramente con due macchine. L’opzione digitale è ormai diffusa, la qualità d’immagine e le possibilità di post produzione hanno raggiunto alti livelli, che permettono di raggiungere anche il calore della pellicola. Per un po’ ho accarezzato l’idea di girare Piccola Patria in pellicola, sarebbe stato un bell’addio a un supporto che ormai scompare, ma il quadro produttivo non lo avrebbe permesso.
AG: La lingua è un aspetto importantissimo di Piccola Patria. L’uso del dialetto veneto è una soluzione registica estremamente interessante, capace di ampliare il carattere dei personaggi da una dimensione meramente psicologica a uno piano (anche) antropologico. Mi puoi raccontare i motivi di questa scelta?
AR: Dialetti e forti accenti regionali sono una caratteristica del miglior cinema italiano, anche del passato. È raro però un uso significativo e profondo del dialetto veneto, forse questo sorprende. Ma credo che il parallelo debba essere un altro. In Italia vediamo la maggior parte del film stranieri doppiati in un perfetto italiano nazionale, abbiamo perso la coscienza della verità e il piacere delle parole/suoni portati dai corpi degli attori, in fondo sentiamo sempre lo stesso film, che sia ambientato in un sobborgo di Los Angeles, nel centro di Teheran, nel deserto australiano o nella Terra del Fuoco. Invece registi e attori di tutto il mondo lavorano sulla lingua dei luoghi e degli ambienti di appartenenza dei personaggi. Io credo di aver fatto questo.
AG: Con Piccola Patria ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un film che non solo è stato realizzato da persone che quei luoghi li conoscono, ma da persone che di quei luoghi e dell’umanità che li abitano avessero un’opinione assolutamente definita. Un film costruito per dire qualcosa di chiaro e semplice, nella sua cruda tragicità. “Film a tesi” è un termine spesso usato come sinonimo di un qualcosa di “sbagliato”, di un approccio ideologico al materiale; personalmente ritengo che esporre una propria idea forte, e farlo con risoluta chiarezza, sia prima di ogni altra cosa un atto di onestà intellettuale, di sincerità nei confronti del pubblico, del fruitore della propria opera. In Piccola Patria la finzione è indirizzata a raccontare una condizione morale e antropologica degli individui portati in scena; il materiale preso dalla realtà partecipa a questa visione rafforzandola, rendendola politica: penso alle vedute aeree dell’indistinto groviglio di abitazioni private e capannoni, penso alla festa indipendentista dentro alla quale si muovono i personaggi. Piccola Patria è un film coraggioso perché contiene una visione personale di un tempo storico e di un luogo geografico definiti con chiarezza. Quanto è stato complesso, anche da un punto di vista etico, dispiegare la propria visione autoriale distanziandosi dall’ambito documentaristico, facendo a meno della protezione che il cinema del reale offre alla voce del proprio autore?
AR: L’aggettivo “coraggioso” viene usato spesso per Piccola Patria e mi sorprende. Capisco che l’uso del dialetto possa rappresentare una novità, che “nascondere” parte della storia dietro e dentro ai quadri di realtà sia inusuale, che una tragedia che si permette digressioni continue sia spiazzante. Ma il film è anche un noir, con solidi elementi thriller, il plot è un ricatto, i contrasti sono fra generazioni e fra indigeni e straniero, tutti ingredienti che definirei classici. I manuali di cinema spingono e insegnano a lavorare sulla condizione morale e antropologica dei personaggi e, se questo il progetto prevede, a portare una visione personale su un tempo storico e su un territorio definiti. Su questo il film tenta una sintesi che è frutto della mia esperienza documentaria. Mi spiego. Il tempo è quello della contemporaneità, ma uno scarto temporale esiste, è lieve però sostanziale perché location, costumi, scenografie e oggetti di scena sono stati scelti perché potessero raccogliere almeno un decennio, in modo che il necessario “qui e ora” di estendesse a una breve era. Lo stesso vale per la terra che contiene Piccola Patria: siamo in un nord est ideale e senza una chiara toponomastica. I luoghi del film sono un precipitato di sovrapposizioni, di vicinanze, di mescolamenti che sono quel che ci circonda da anni in periferie e in provincie, quello che potremmo anche incrociare facendo un viaggio fuori dai confini nazionali e alloggiando in un hotel vicino a un qualsiasi aeroporto. I film documentari fondano la loro cinematicità su questo, perché, altrimenti, sarebbero dei reportage e perderebbero universalità. Aver usato gli strumenti del documentario per creare la finzione ha permesso la creazione di un microcosmo quasi iperrealista, dove i personaggi diventano monumenti di una certa modernità e dove l’atmosfera è determinante.
AG: La storia produttiva del film è piuttosto complessa, testimoniata dalla coabitazione di ben quattro Film Commission (BLS Südtirol Alto Adige, Trentino Film Commission, Veneto Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film Commission) – ed è forse un record! – , con due piccole case di produzione come Arsenali Medicei e Jump Cut. Ti andrebbe di raccontare ai nostri lettori il percorso che ti ha portato dall’idea all’anteprima veneziana nella sezione Orizzonti della scorsa estate?
AR: L’idea del film ha qualche anno, ho bussato ad alcune porte importanti della produzione italiana, ma senza risultato. La congiuntura ha voluto che la collaborazione con Arsenali Medicei sia nata giusto allo scadere della possibilità di finanziamento da parte della regione del Veneto. Questo è diventato il primo passo di quella che per me era l’unica via di finanziamento possibile: creare una vasta sinergia di piccoli soggetti. Lavoro lungo e difficile, che mi ha visto largamente nel ruolo di promotore e quindi anche di produttore. Se non avessi tessuto io stesso la rete delle collaborazioni, dalla coproduzione con Jump Cut all’intesa fra le film commission del triveneto, fino al sostegno di privati del territorio, il progetto si sarebbe arenato. Mi sono fatto carico dell’attesa che tutte le caselle andassero al loro posto, del location scouting e del casting, solo così – facendosi trovare pronti quando il quadro produttivo è stato (quasi) chiaro – si è potuti partire con le riprese, avendo la certezza di poterle concludere e di arrivare al montaggio.
AG: Dopo il Leone d’oro a Sacro Gra sono rimasto totalmente disorientato dalle reazioni a quel premio. Ho letto e percepito una incredibile approssimazione circa la reale natura del mezzo cinematografico. Con molti amici abbiamo collezionato frasi e titoli di giornali, ma pure conversazioni, all’interno delle quali sembrerebbe esistere un confine invalicabile tra cinema di finzione e documentario. Come se nessuno fosse a conoscenza del fatto che un capolavoro del “documentario” come Nanook of the North di Robert J. Flaherty sia un’opera, del 1922, di assoluta “finzione”. Il tuo percorso professionale rappresenta un caso estremamente interessante di documentarista giunto al primo lungometraggio di finzione con alle spalle una solida filmografia. Mi interesserebbe conoscere la tua opinione in merito a questa dicotomia, che a mio avviso andrebbe risolta in un’unità, che tenderei a nominare ‘cinema’.
AR: Vecchia storia, ormai. Sarà un discorso da specialisti (non ne sono però così sicuro), ma è vero che sarebbe davvero tempo di parlare di cinema tout court. Il tema è vasto e potrebbe essere interessante analizzare questo fittizio confine tra generi cinematografici (anche letterari). Ma riflettiamo soltanto su cosa determina la natura dello spettacolo cinematografico. La differenzia sta nel contratto con il pubblico. La finzione si presenta come invenzione dove qualcosa “viene raccontato”, esiste una sorta di preaccordo con il pubblico su questo piano. Il documentario promette realtà. Lo spettatore ideale dovrebbe essere abbastanza distaccato e critico da poter fruire comunque dello spettacolo offerto e addirittura coraggioso abbastanza per lasciare casa sua per recarsi in un cinema a vedere qualcosa di sconosciuto, come può essere ancor oggi per molti italiani un film documentario. Allo stesso tempo, questo ideale spettatore colto dovrebbe mantenere la sana e primordiale attitudine dei primi spettatori cinematografici, che godevano dell’eccitazione nel vedere sullo schermo simulacri della realtà più forti della realtà stessa e questa offerta la fanno sia i film documentari sia quelli di finzione.
AG: Qual è la differenzia essenziale tra Piccola Patria e i tuoi film precedenti?
AR: Ho imposto alle riprese una serie di pratiche documentarie, nella gestione del tempo, nella flessibilità dei piani di lavoro, nell’attenzione ai corpi, nell’“ascolto” dei luoghi di ripresa, nella disponibilità sempre viva per la visualizzazione frutto di ricerca e apparentemente insensata. Piccola Patria aveva però una sceneggiatura, con snodi narrativi precisi e necessità drammaturgiche. Le ho affrontate con una regia in parte documentaria pur essendo ineludibili e, contrariamente a quanto accade nel lavoro sulla realtà, ne avevo il pieno controllo. Poi c’era la vasta troupe tipica della finzione, che ho reso il più agile possibile, anche sulla base dell’esperienza documentaria dei componenti. Ma, detto questo, Piccola Patria è un film di attori. Ero preparato a dirigerli, il lavoro con loro è stato un aspetto nuovo, un carico esaltante ed enorme, anche se avevo l’esperienza del rapporto con i personaggi e del trattare potenzialità e umanità a servizio del film.
AG: Hai in qualche modo vissuto il tabù di oltrepassare il sopracitato confine tra documentario e fiction? Mi spiego meglio: hai in qualche modo dovuto vincere delle resistenze interiori per realizzare un’opera che, in partenza, si distaccasse dal mondo documentaristico? Quanto è complesso cambiare strada, essere catalogati in maniera differente dal “settore”, dai colleghi e dall’industria? Hai incontrato diffidenze e perplessità?
AR: La mia formazione mi proteggeva dal tabù, ho sempre ammirato in egual modo film e registi di finzione e documentaristi. Non ho mai pensato che gli uni fosse migliori degli altri, questo riguarda anche i miei colleghi. E la mia età e la mia esperienza spero impediscano la catalogazione, anche futura. La finzione rende più visibili e si entra in un cono di luce più ampio e brillante, il rapporto con il pubblico è più immediato, l’organismo finzione t’accoglie e macina, anche nonostante te. Tutto ok però.
AG: Rispetto ai tuoi lavori precedenti ho notato uno sguardo molto più feroce, severo e spietato nei confronti della tua terra. Quell’ironia di fondo verso il rapporto degli esseri umani con gli schèi, così leggera, surreale e metafisica in Bibione Bye Bye One, ha lasciato spazio a uno sguardo morale, senz’altro lucido e (personalmente) condivisibile, assai arrabbiato, se non proprio rabbioso. Ho visto in Piccola Patria un forte disgusto verso quello che racconti, verso la realtà che metti in scena, e una totale assenza di speranza. Disse Pasolini, «La parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario»; ecco, in Piccola Patria questa parola, questa illusione, è totalmente assente e proprio per questo ho amato il film. Hai raccontato una realtà disperata e disperante, molto distante dai tuoi precedenti film, o comunque hai reso questo pessimismo più esplicito. Nel tuo cinema la realtà è divenuta paradossalmente non scusabile proprio con il tuo primo film di “finzione”, come se dovendola dirigere e inventare non sia stato più possibile trovare al suo interno alcun barlume di speranza. Esiste realmente questo paradosso?
AR: Sono in parte d’accordo con Pasolini, ma questo riguarda più la mia posizione di essere umano e di cittadino. I film sono altra cosa, rispondono a pulsioni anche di altro tipo e nella finzione le esigenze delle forme della narrazione s’intersecano con il credo personale, l’espressione della rabbia, dell’amore, della disperazione, con la morale e il pessimismo o l’ottimismo. Piccola Patria è una tragedia classica, è anche un Romeo e Giulietta, l’unica speranza è riposta nell’amore, peraltro calpestato prima di essere riconosciuto come tale anche da chi lo prova. La rabbia e la disperazione sono dei personaggi, tutto è scelto, anche le realtà che affrontano per mostrare di che pasta sono fatti. Surrealtà e metafisica sono demandate all’aspetto visivo del film, caratterizzano la narrazione verticale e punteggiano la storia facendo quasi da contrappunto a una durezza senza sconti.
AG: Ci sono dinamiche del mondo cinematografico che per chi non lo conosce un po’ dall’interno sono imperscrutabili. Come mai Piccola Patria arriva nelle sale il 10 aprile 2014, distribuito da Cinecittà Luce, con ben otto mesi di ritardo rispetto all’anteprima veneziana?
AR: Piccola Patria è arrivato al festival di Venezia senza distributore. Non dovrebbe accadere, un film selezionato in un importante festival internazionale si presume abbia alle spalle un’architettura che già prevede la sua distribuzione. A Piccola Patria non è successo, ma non stupisce, in Italia il sistema cinema è scadente, degno specchio di una società corrotta, familistica, senza mobilità interna, poco aperta alla ricerca (se non dell’immediato tornaconto personale), non meritocratica, ancora bigotta e gerontocratica. Il successo festivaliero ha convinto Cinecittà Luce a inserire il film nel suo listino, ma il potere sul mercato di questa strana società distributrice è molto basso. Anche il rapporto fra distribuzione e rete delle sale (parte del sistema cinema italiano) è specchio del paese; il film è stato relegato a fine stagione ed è di questi giorni la polemica sulla sua semi invisibilità nonostante sia ufficialmente uscito. Nessuno si aspettava di arrivare in centinaia di sale o di raggiungere incassi stellari, ma la critica era ottima, l’attesa c’era, i primi riscontri di apprezzamento del pubblico anche. Non vi è stata cura e preparazione nel portare un film “difficile” nei cinema da parte di chi se ne doveva occupare. Il tutto all’insegna del dilettantismo e dell’insensatezza.
AG: Quando scriviamo di cinema è come se le nostre parole e i nostri ragionamenti evitassero accuratamente, per pudore o non so che altro, di parlare di denaro. Rileggendo un’intervista che hai concesso dieci anni fa, trovata per caso in rete, ho trovato una tua frase che mi ha molto colpito. Era una domanda che tua mamma ti faceva in continuazione durante le riprese di Chiusura (bellissimo documentario del 2002 che raccontava gli ultimi giorni di attività del negozio di parrucchiera di tua mamma): “ma guadagni?”. Dunque ti domando: si guadagna a fare il mestiere che fai? Si guadagna a fare il cinema? Oppure quella del regista cinematografico è una professione che, in Italia, con tutti problemi produttivi e distributivi che ben conosciamo, è impossibile concepire come (anche) portatrice di reddito?
AR: Io sono stato fortunato. Sono stato produttore di alcuni miei film acquisiti dalle televisioni, il mio lavoro è stato riconosciuto internazionalmente e ho seguito progetti che hanno raccolto finanziamenti sin dalla fase di sviluppo, alcuni di questi sono giunti a realizzazione e sono stati circuitati.
AG: Qual è stata la tua formazione e come (e perché) sei giunto al cinema?
AR: Ho studiato antropologia ed ero un giovane cinefilo. Senza però essere un topo di cineteca, ho passato anche molto tempo in viaggi, molti dei quali senza meta. L’antropologia visuale mi ha portato a scoprire il cinema documentario contemporaneo e del passato, che allora erano entrambi poco considerati o sconosciuti in Italia. Ho fatto studi di cinema a Parigi, lì ho visto il cinema di tutto il mondo e ho iniziato ad avere rapporti con l’ambito professionale. I miei autori di riferimento sono molti, impossibile enumerarli. Essere arrivato al cinema attraverso l’idea documentaria mi ha dato uno sguardo ampio sul linguaggio cinematografico e sugli stili, oltre che sulla professione. E realizzare film documentari di lungometraggio, cosiddetti “di creazione”, in cui sono stato anche operatore (in alcuni casi ho lavorato completamente da solo), mi ha costretto a fare lunghe esperienze empiriche sul campo di ripresa, confrontandomi giornalmente e solitariamente con la concezione del film e con il racconto per immagini. Diciamo che il mio stile si è formato quasi nonostante me.
– Maggio 2014
Alessandro Rossetto (Padova, 1963)
Filmografia
2013 | Piccola Patria
2012 | Untitled Alex Zanardi Documentary
2010 | Vacanze di guerra
2007 | L’orchestra di Piazza Vittorio (episodio: Raul)
2006 | Feltrinelli
2005 | Nulla due volte (cortometraggio)
2002 | Chiusura
1999 | Bibione bye bye one
1997 | Il fuoco di Napoli
Piccola Patria
Regia: Alessandro Rossetto
Soggetto: Alessandro Rossetto, Caterina Serra
Sceneggiatura: Alessandro Rossetto, Caterina Serra, Maurizio Braucci
Fotografia: Daniel Mazza
Montaggio: Jacopo Quadri
Scenografia: Renza Mara Calabrese
Musiche: Paolo Segat, Alessandro Cellai, Maria Roveran
Suono: Daniel Covi
Capo elettricista, macchinista: Stefania Bona
Colorist: Sergio Cremasco
Direttore di produzione: Luigi Pepe
Segretaria di edizione: Tiziana Poli
Post produzione: Officina Immagini
Produttori: Gianpaolo Smiraglia (Arsenali Medicei), Luigi Pepe (Jump Cut)
Interpreti: Maria Roveran (Luisa), Roberta Da Soller (Renata), Vladimir Doda (Bilal), Lucia Mascino (Anna Carnielo), Mirko Artuso (Franco Carnielo), Diego Ribon (Rino Menon), Nicoletta Maragno (Itala Menon), Giulio Brogi (il Vecchio), Mateo Cili (Anes), Drival Hajdaraj (cugino di Bilal), Valerio Mazzuccato, Stefano Scandaletti
Produzione: Arsenali Medicei Cinematografica, Jump Cut
Con il contributo di: MiBAC
Con il sostegno di: BLS – Film Südtirol Alto Adige, Trentino Film Commission, Veneto Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film Commission
Formato di ripresa: HD
Paese: Italia
Anno: 2013
Durata: 110′
VAI ALLA RECENSIONE a cura di AG