En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza) > Roy Andersson

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Immaginiamo per un momento che sia possibile cogliere in un unico atto conoscitivo, in un unico sguardo, la totalità degli eventi, delle relazioni e delle concatenazioni causali che costituiscono l’esistenza umana. Può il cinema aspirare a rappresentare tale sguardo?

Non vi è dubbio che il regista svedese Roy Andersson avesse esattamente questa intenzione, con il suo ultimo lungometraggio Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (Leone d’stero a Venezia 2014), terzo capitolo della cosiddetta Living Trilogy, iniziata con Songs from the second floor (2000) e proseguita con You, the living (2007). Rappresentare sul grande schermo la totalità dell’esistenza umana, cogliendone gli aspetti e gli elementi essenziali che la caratterizzano. Il punto di vista scelto dal regista è, metaforicamente, quello di un comune “piccione”, ossia semplicemente altro rispetto al mondo degli uomini, ma non per questo trascendente. Tale espediente permette di rappresentare l’intero quadro dell’esistenza umana nella sua fragile inutilità, nella sua brutalità, ma anche in tutta la sua bellezza, da una prospettiva che potremmo definire “oggettiva” e non mistificante.

 

Essenzialità dello sguardo – forma e contenuto

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è in un certo senso, non-cinema, negazione della sostanza cinematografica, che per definizione risiede nella dinamicità del movimento delle immagini. Il film è costituito da 39 inquadrature fisse, all’interno delle quali si svolgono azioni in sé compiute e separate l’una dall’altra, del tutto autosufficienti, nella totale assenza di movimenti di macchina. Andersson coglie la migliore eredità del cinema bressoniano e kaurismäkiano, e spoglia di ogni elemento superfluo la gestualità corporea e vocale dei suoi attori, pallidi in volto e simili a mimi su un palcoscenico spoglio e simmetrico, dai colori freddi e opachi. L’essenzialità della forma appare funzionale a un’enfatizzazione estrema del contenuto: ogni movimento, ogni gesto degli attori all’interno dell’inquadratura assume una rilevanza particolare, quasi teatrale, e diviene efficace veicolo di emozioni che si trasmettono allo spettatore. La forza comunicativa ed emozionale della scena ambientata nell’osteria, in cui un vecchio sordo e pieno di acciacchi ricorda la sua giovinezza, in quella stessa osteria nel 1943, risulta amplificata dal contrasto con la freddezza e la staticità delle altre inquadrature. Grazie a questo contrasto espressivo la scena, forse una delle più riuscite dell’intero film, riesce a comunicare, nel personaggio della giovane oste, la forza di un amore per l’uomo che riesce a superare qualsiasi forma di deprivazione materiale e morale, che in questo caso ha origine negli orrori della guerra.

 

Il non-senso dell’esistenza

Andersson mette in scena in modo originale e divertito, ma con una punta di amarezza, la banalità dell’esistenza umana, mettendola subito a confronto con la morte, sin dalla prima scena del film, in cui un uomo di mezza età viene silenziosamente e improvvisamente colto da un attacco cardiaco mentre cerca di stappare una bottiglia di vino, senza che la moglie se ne accorga, impegnata a preparare la cena in cucina. La morte accade e scorre subito via, nell’indifferenza generale, come se l’umanità intera si fosse ormai rassegnata al fatto che non valga davvero la pena di vivere. La vita quotidiana sembra essere colmata da una miriade di occupazioni banali, le quali sembrano avere importanza vitale per i personaggi che appaiono nei vari “quadri” che compongono il film. Non possiamo non cogliere inoltre una nuova declinazione dell’incomunicabilità che paralizza e ossifica i rapporti umani, elemento distintivo del cinema di Antonioni, nelle diverse scene in cui più personaggi, parlando al telefono, sembrano non poter dire altro che “sono contento di sapere che state bene”. Tale affermazione risulta persino paradossale, quando a pronunciarla è un uomo evidentemente prossimo al suicidio, solo al centro di una stanza, tenendo la pistola in una mano, e il telefono nell’altra.

 

Artisti-eroi

Indubbiamente tuttavia, due personaggi, all’interno del più ampio affresco “corale” del film, emergono come indiscussi protagonisti. Sono due signori di mezza età, in abito grigio, che girano con una valigetta che contiene scherzi di carnevale: canini da vampiro (disponibili anche con canini extra-lunghi), sacchetto con risata, e maschere di zio dentone (un nuovo articolo su cui puntano molto). “Vogliamo aiutare la gente a divertirsi”, ripetono a tutti coloro che li interrogano sulla loro occupazione. La trascinata cadenza nel parlare, la gestualità lenta, i loro volti tristi e inespressivi creano un paradossale contrasto con la loro “missione”, ma al tempo stesso donano ai due personaggi una statura eroica. In un mondo in cui ogni individuo pare condannato autisticamente a un continuo isolamento dai suoi simili, completamente immerso in una realtà interiore indecifrabile che rende ogni sua azione esteriore fuori luogo e quasi comica, questa strana coppia di individui tenta, senza successo, di portare qualche sorriso in questo solitario e straniato universo. Si è inevitabilmente tentati di concepire i due personaggi come una rappresentazione metaforica del cinema in quanto forma d’arte. In fondo, che cos’era il cinema delle origini se non una grande “maschera di zio dentone”, una semplice forma di intrattenimento, capace di stupire lo spettatore catturandone l’immaginazione? Forse è per questo che non possiamo fare a meno di sentirci vicini a questi due insoliti eroi, e di commuoverci per la tragicomicità di ogni loro gesto, nonché per il viscerale sentimento di amicizia che li lega. E l’incredibile dedizione alla loro missione ci riporta alla mente uno dei personaggi dell’universo felliniano, l’ingenua e dolce Gelsomina de La strada, che decide di dedicare tutta la sua vita e le sue energie al servizio del brutale e violento saltimbanco Zampanò, convinta di poterlo cambiare in un uomo buono.

 

“Homo Sapiens”

Ma in fondo, che cosa può l’arte innanzi alla cieca barbarie dell’uomo nei confronti di esseri ritenuti inferiori a sé, ossia animali e uomini di “razze inferiori”? Andersson, in una sezione del film espressamente dedicata a questo tema, e non a caso intitolata “Homo Sapiens”, mostra in modo crudo e spietato prima le atroci sofferenze di esseri viventi costretti a subire la dis-umanità dei propri simili. Prima una piccola scimmia costretta a subire continui elettroshock a scopo di ricerca scientifica, sullo sfondo una ricercatrice al telefono, “sono contenta di sapere che state bene”, indifferente ai lamenti dell’animale. Poi il dramma della schiavitù e del colonialismo, rappresentato all’interno di una dimensione del tutto surreale: decine di uomini bruciati vivi all’interno di uno strano, enorme strumento musicale, per allietare una schiera di vecchi aristocratici infermi, i loro lamenti e le loro urla trasformati in una melodia leggera, sublime. L’impotenza dell’arte si riflette tristemente nelle lacrime disperate di uno dei due venditori ambulanti.

– Lorenzo Livraghi

 

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En duva satt på en gren och funderade på tillvaron
(titolo italiano: Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Svezia-Germania-Norvegia-Francia/2014)
Regia: Roy Andersson
Sceneggiatura: Roy Andersson
Fotografia: István Borbás, Gergely Pálos
Montaggio: Alexandra Strauss
Colonna sonora: Hani Jazzar, Gorm Sundberg
Costumi: Julia Tegström
Produzione: Johan Carlsson, Linn Kirkenær, Pernilla Sandström, Håkon Øverås
Interpreti: Holger Andersson, Nils Westblom, Viktor Gyllenberg, Lotti Törnros, Jonas Gerholm, Ola Stensson, Oscar Salomonsson, Roger Olsen Livkern

 

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