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Foxcatcher
Paradigmatico come la realtà, unico come un’opera d’arte

I fratelli Mark e Dave Shultz, campioni olimpici di lotta libera a Los Angeles ’84, vivono le proprie giornate, fatte di stringenti difficoltà economiche, allenandosi con dedizione e sempre in coppia. Dave è il cervello dei due, l’allenatore, il preparatore, il mentore e il punto di riferimento di Mark che, dei due, è il più dotato atleticamente, una macchina da combattimento perfetta. Quando a Dave verrà offerta la gestione di un centro di allenamento federale, Mark si troverà disorientato: perdere il contatto quotidiano con il fratello maggiore – che l’ha cresciuto come un padre da quando all’età di due anni i loro genitori si separarono – è per lui un trauma tormentoso e silenzioso. Spaesato e confuso verrà avvicinato dal miliardario John Eleuthère du Pont che gli proporrà di diventare la punta di diamante del Team Foxcatcher, da lui stesso fondato e diretto nella sua tenuta privata in Pennsylvania, per dedicarsi alla preparazione degli imminenti campionati mondali e olimpiadi sudcoreane. Mark accetterà e in breve finirà stritolato dall’instabile e tirannico filantropo, perdendo il proprio già precario equilibrio e, soprattutto, il suo talento sulla materassina. Quando anche Dave verrà comprato da John du Pont, la situazione precipiterà velocemente…

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Da quale verso prendere Foxcatcher? Da quale parte afferrarne il corpo per provare a metterlo al tappeto, per non essere a nostra volta sconfitti, prostrati faccia a terra, battuti, schienati dalle sue trappole, dai suoi specchietti per le allodole (europee) che siamo. Come evitarsi di leggere ogni film statunitense che racconti working o upper class come un’invettiva contro il liberismo o l’american dream e non più semplicemente come drammi esistenziali assai più universali? Come, dunque, aggirare i tic della critica europea che scattano automatici non appena si materializzi sullo sfondo una bandiera a stelle e strisce? Come andare oltre abitudini così ideologiche, d’un pensiero peloso, falso, superficiale, pretestuoso e assai ben oltre ogni anacronismo? Una critica che edifica la propria etica su di un sentito dire ideologico del quale nel quotidiano e nella saggistica varia fatichiamo a trovare una traccia, consistente e concreta, capace di andare oltre il lapalissiano, l’ovvio e il ridicolo di una cultura del piagnisteo (Culture of Complaint) odiosa, frustrante, francamente deprimente, è il nemico più grande e l’ostacolo più nocivo che, oggi, la scrittura si trova ad affrontare ogni qual volta provi a misurarsi con la sfida del confronto con un testo filmico. Banalità ed etichette, «Tutte etichette! Etichetti tutto!» grida Riggan “Birdman” Thomson, all’apice d’un travaso di bile e frustrazione, all’algida critica teatrale. Si banalizza ed etichetta per pigrizia e flaccidità mentale, si sprofonda nella retorica come riflesso condizionato dal vociare assordante del senso comune e per il timore della non omologazione della propria scrittura all’interno di una catena bibliografica di citazioni obbligate, si propinano ovvietà buonistiche per la paura di dire qualcosa che non si è sentito, per la disabitudine a tirar fuori dalla testa un pensiero anche solo sincero o inedito, privo di verifiche, certificazioni e pedigree. La scrittura critica ricorre costantemente a stampelle epistemologiche per sorreggere la propria vacuità, cerca riconoscimento e strizza l’occhio al lettore attraverso una sommatoria di superficialità ideologiche che la condannano alla melassa del politicamente corretto e all’inutilità per i non iniziati.
Anacronistica, afasica e innocua questo è la critica cinematografica oggi, autorelegatasi in un ghetto dentro al quale vince chi è più puro e più dogmatico e lontano dalla realtà del proprio tempo o chi è più sarcastico, ludico, tagliente e cazzone. In mezzo non c’è spazio per molto altro, pur se eccezioni ce ne sono, da leggere sempre con piacere, casi rari di libertà di giudizio e pensiero.

Avrete letto, lo hanno scritto in molti, Foxcatcher mette in scena l’implosione del mito americano, le sue macerie, la deflagrazione dell’edonismo reaganiano – espressione giornalistica assai fortunata che somma tra loro individualismo, liberismo ed egoismo per restituire una legge della giungla aggiornata agli anni ’80 del secolo scorso. Ma questa riflessione condizionata è corretta solo in superficie, non regge alcun approfondimento o attivazione di sinapsi, nasce dall’incremento di salivazione sollecitato dal suono di un campanello. Se così fosse, allora, fine di ogni discorso, abbassiamo la saracinesca del pensiero: il critico si limiti a rintracciare gemmazioni, connessioni e somiglianze con altri film, citazioni, si limiti ad aggettivare le interpretazioni, la regia, la sceneggiatura e l’“ottima fotografia”. Tutto il resto lasciamolo allo spettatore, tutto quello che ovvio non è lasciamolo a chi guarda, liberandolo al cogitare qualcosa di sensato. Occupando tutto il pensiero superfluo dell’ovvietà con la scrittura specialistica, dunque onanistica, la critica cinematografica ha scavato la propria trincea dalla quale sparare al mondo senza, da questo, essere nemmeno percepita. E l’insuccesso è conclamato: dai calvari distributivi incontrati da quegli ottimi film osannati dalla critica ma snobbati dal mercato e lontani dagli occhi del pubblico; dalla distanza sesquipedale di giudizio con il mondo dei non iniziati; dalla scomparsa dei critici dalle giurie dei (grandi) festival. Considerati alla stregua di suppellettili fuori moda i critici si barcamenano nell’autoreferenzialità di giudizi conformisti e conformati, felici di trovarsi come carbonari, in una qualche oscura sala deserta, ad appisolarsi di nascosto l’uno all’altro davanti all’ennesimo e meraviglioso capolavoro.

Non è dunque un caso che la banalizzazione estrema del distributore italiano non possa fare a meno di produrre, per Foxcatcher, una locandina sul cui fondo si stagli il vessillo Stars and Stripes e di includere – ancora una volta deliberatamente, ancora una volta andando a storpiare l’idea originale – il sottotitolo: Una storia americana. Non c’è traccia di questo nelle locandine americane o francesi o tedesche e ciò segnala, di tutta evidenza e in maniera incontrovertibile, il vizio nazionale della pigrizia interpretativa. La visione semplificante del distributore coincide, questa volta più che mai, senza stridere, con il gusto della critica, con i suoi tic e con i suoi riflessi condizionati.

 

Le locandina: USA, Italia, Francia, Germania

Le locandine: USA, Italia, Francia, Germania

 

Foxcatcher è un (ottimo) film sul potere del denaro ispirato a una storia vera. Un film che racconta l’essenza dell’America, scrivono in molti, ma forse ciò che accade nel film di Bennett Miller è un po’ più universale di quel che appare. In fondo l’America è sfondo, contesto, location, scenografia: Foxcatcher è una storia archetìpica, non escludo che da qualche parte nella Bibbia o in un film con Totò si possano rintracciare racconti simili. Oppure, al fondo del discorso, l’America è da sempre metafora universale. Se al film togliessimo la bandiera a stelle e strisce, sostituendola con una qualsiasi altra fantasia geometrica e cromatica, nulla muterebbe nell’economia drammatica di una narrazione tessuta sopra ai concetti di fratellanza e follia, denaro e sangue.
E l’America, a ben guardare (e riguardare), è davvero uno specchietto per le allodole. Viene immediatamente nominata da Mark Shultz, nel discorso che terrà agli alunni di una scuola elementare con medaglia d’oro al collo («Mi chiamo Mark Schultz, voglio parlarvi dell’America e voglio dirvi perché lotto…») e immediatamente evocata da John du Pont, nel primo dialogo faccia a faccia con Mark, durante il quale, con paternalistico patriottismo, lo convincerà ad entrare a far parte del team di lotta libera da lui finanziato e diretto. Ma a ben guardare, l’America è solamente un pretesto, un simbolo privo di senso da propagandare per dare un senso alla propria esistenza (Mark) e al proprio delirio (John). Nello sviluppo del testo filmico gli Stati Uniti tenderanno a scomparire, dissolvendosi in una fumosa cortina retorica dalla quale emergeranno le sinistre ombre del disagio psichico dei suoi protagonisti, lasciando spazio a una Pennsylvania virata in Transilvania dentro alla quale si muoverà un sempre più spettrale John du Pont assetato del sangue delle sue vittime, nella vana speranza di rimanere in vita, di rigenerarsi, di trovare un senso al non senso dinastico di un impero.

L’interpretazione stereotipante della critica è in parte motivata dalla messa in scena che, in maniera insistita, tende a proporre facili equazioni banalizzanti assai più superficiali di quanto la scrittura lasci presumere. La bandiera a stelle e strisce presente con sovrabbondanza all’interno di troppe inquadrature, la figura del figlio degenere di una stirpe in via d’estinzione che ha fondato le proprie fortune sul sangue, la sua impotenza (sessuale e scopica) raffigurata attraverso l’insana passione per enormi e falliche armi da guerra – degne d’una invasione di terra in Medio Oriente più che di un giardino di casa (per quanto sconfinato) – e la sua omosessualità nemmeno troppo troppo latente e pudicamente allusa e confinata ai margini del racconto, paiono scelte un po’ scontate seppur efficaci. Anche la scrittura incappa in questi vizi di forma, in automatismi didascalici che lasciano spazio a poche sfumature, banalizzando un po’ i tipi psicologici messi in scena e il loro disagio. La comparsa della cocaina, ad esempio, precipita Mark in pochissime inquadrature fuori dai binari della propria identità in un territorio inesplorato da attraversare con capello meshato: Mark va in frantumi mentre John Eleuthère è già un prolasso d’essere umano, sformato, sfasciato, psicopatico, pronto a insidiare, anche sessualmente, il giovane talento della lotta libera. Molto in Foxcatcher è manicheo seppur appena accennato e il tonto rimarrà tonto, l’idiota rimarrà idiota, l’assennato rimarrà assennato. Il film parte come finisce, l’esplorazione delle psicologie sulla scena è lasciata a superficiali abbozzi e concrete ed efficacissime immagini. Ed è per questo che il film funziona, perché prima di tutto è cinema, una macchina generante senso in grado di produrre immagini potenti e di orchestrare interpretazioni sbalorditive basate sulla copia estrema del realtà evocata, lasciando quel margine vitale allo spettatore per un gran numero di possibili letture che eccedono lo spazio della messa in scena e della scrittura. Funziona anche perché in grado di orchestrare musicalmente pause, silenzi e stasi, di dilatare la durata delle scene, strutturando il suo ritmo interno in maniera non dissimile a due dei brani più efficaci dell’efficacissima colonna sonora: Für Alina di Arvo Pärt e Alexander Malter e Home Movies di Rob Simonsen (brano composto appositamente per il film dal musicista che ne firma la colonna sonora originale).

 

 

Channing Tatum (Mark Schultz), Mark Ruffalo (Dave Schultz) e Steve Carell (John Eleuthère du Pont) somigliano, in tutto e per tutto, alle persone reali che mettono in scena, sono sosia impressionanti sopra ai quali la produzione ha levigato ogni singolo dettaglio. Tatum e Ruffalo paiono cresciuti in una palestra di lotta libera, padroneggiano tecnica e postura dentro e fuori la materassina delimitata da un cerchio rosso. La forza tragica del film risiede nel rapporto di fratellanza che unisce Mark e Dave, nell’amore e nell’odio che li tiene uniti: il loro legame profondo, fatto di dipendenza e voglia di libertà, giunge sullo schermo muto, depurato dai dialoghi, grazie a due grandi interpretazioni fondate sulla fisicità. Si pensi alla prima scena, all’allenamento nella modesta palestra, alla lotta violenta tra i due sospesa tra esplosione di aggressività e amore e si pensi a quando uno zampillo di sangue irrompe nel quadro e sul volto di Dave, come monito di quel che sarà e immagine emblematica di un rapporto complesso e viscerale, malato come ogni forma d’amore che scorre nelle vene.

La prova di Steve Carell è sbalorditiva perché, in un sol colpo, riesce a far convergere su di sé un gran numero di eccezionalità. Copia conforme del reale du Pont, Carell fornisce un’interpretazione drammatica assolutamente convincente pur mantenendo intatta la sua naturale propensione al comico che, in Foxcatcher, scorre sotterranea – ma non certo invisibile – traslata in disturbante grottesco. Egli si dimostra in grado di sovrapporre i due registri (comico/grottesco e tragico) alla figura del miliardario «Ornitologo, filatelico, filantropo» (fortissima è la somiglianza con il demenziale/demente Brick Tamland interpretato da Carrell nei due Anchorman con Will Farrell), caratterizzando il personaggio attraverso una poderosa carica psicotica via via sempre più inquietante. E viene alla mente la sequenza in elicottero in cui, strafatto di cocaina, blatera a Mark parole prive di senso agghiacciato in una risata isterica. John du Pont è un babbeo frantumato da una piramide di psicosi al cui vertice siede una madre anaffettiva, dispotica e tirannica (Vanessa Redgrave), che detesta ogni sua scelta e non comprende questa sua smodata e sconclusionata passione per la lotta libera. La scelta da parte della produzione d’un attore come Carell è una sentenza sul personaggio e sull’originale e così, i dolori cervicali e la contrazione muscolare e il nasone posticcio, rendono monumentale e lombrosiana la natura patologica di questo sinistro filantropo.

La realtà è sempre più stupefacente di qualsiasi finzione.

 

 

Nei testi scritti che ricadono sotto il nome di critica cinematografica per lo più troverete richiami a film di recenti: The Master (2012), The Wrestler (2008), The Wolf of Wall Street (2012), Maps to the Stars (2014), Gone Girl (2014)… come se la memoria del critico non regga oltre qualche manciata di stagioni di stagioni cinematografiche… certo The Wrestler è del 2008 e parla di lotta libera, ma sai che sforzo mentale andarlo a pescare!… E sempre tra film recenti, allora, ci sarebbe pure l’interessante La plaga del catalano Neus Ballús (2013), che porta in scena, all’interno di un film corale a molti personaggi, un lottatore della medesima disciplina del film di Miller, ed anche in questo caso è, indubbiamente, il denaro a funzionare da motore del dramma. Lotta come condizione esistenziale, materassina o ring come spazi per la conquista di una propria collocazione nel mondo, riscatto sociale e campo di battaglia dentro al quale provare a raggiungere dignità e identità altrimenti negate: sono centinaia i film sul pugilato o le arti marziali, o lo sport più in generale, che portano sul grande schermo corpi della working class che divengono terreni di conquiste per mentori privi di scrupoli, agnelli sacrificali sull’altare dello spettacolo da innalzare e divorare.

Foxcatcher è anche, e indubbiamente, un film sul condizionamento e sulla manipolazione, sulla figura del padre, la sua assenza e i surrogati, come tutto il cinema di P. T. Anderson – dal bellissimo e poco visto Hard Eight (Sydney, 1996), fino a, ovviamente, The Master. È un film che ricorda, per messa in scena e regia (premiata a Cannes 2014 con la Palma d’oro), molto del cinema americano degli anni ’70; penso soprattutto a film come The Deer Hunter di Michael Cimino (Il cacciatore, 1978) e ancor di più a Dog Day Afternoon di Sidney Lumet (Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975). Miller, come Lumet, è consapevole del fatto che la realtà sia molto più strana di ogni finzione e su questa sua particolare predilezione ha saputo costruire una misurata filmografia che da Capote (2005), passando per Moneyball (2011), si distingue per coerenza e abilità cinematografiche, per una meticolosa attenzione all’invenzione della trasposizione di un qualcosa di imprendibile come la realtà.

Ma scavando un po’ di più si potrebbero rintracciare connessioni con film inaspettati. Foxcatcher si apre con una serie di immagini documentarie di scene di caccia alla volpe; ovvero: messa in scena per aristocratici milionari che prevede la morte rituale di un essere vivente. Ed è proprio questo che il film andrà a illustrarci nel suo svolgimento, portando alla luce, in maniera sintetica, il substrato culturale dal quale fuoriesce la dinastia du Pont – una delle più facoltose degli Stati Uniti, attiva in ambito militare dall’epoca della prima guerra di secessione e poi nella chimica. Ed è proprio la sequenza dei titoli di testa l’estrema sintesi dell’intero film, l’allegorìa che lo racchiude. La caccia alla volpe come rituale simbolico dell’aristocrazia prima e della borghesia poi, che al cinema è stata messa in scena abbondantemente, (quasi) sempre con intento metaforico/allegorìco della brutalità di ceto o come condizione esistenziale dell’uomo. Mark e Dave come due piccole volpi lasciate correre a perdifiato nella tenuta du Pont sotto tiro del proprietario, prima attraverso la loro dipendenza economica e poi sotto minaccia della vita stessa. La caccia aristocratica dunque, all’interno delle proprie tenute sterminate, riecheggia l’illustre esempio de La Règle du jeu di Jean Renoir (La regola del gioco, 1939), altro film all’interno del quale sono le regole non scritte che tengono insieme la società ad essere portate al centro della narrazione. La classe dominante e quella subalterna e i limiti invalicabili ai quali l’individuo è chiamato e conformarsi, e così Dave, in Foxcatcher, probabilmente perderà la vita proprio perché dimostratosi superiore, nei fatti, a colui che superiore lo era per ceto e dinastia.

Foxcatcher è un film sulle endorfine che si attivano nel nostro cervello in prossimità di una qualche persona ricca, potente, nota, milionaria, miliardaria, in possesso di ciò che riteniamo ci manchi, della ciotola che possa placare la nostra fame di schiavi. Miller riesce a mettere in scena questa esatta adrenalinica emozione, cogliendo il moto di entusiasmo che attraversa Mark mentre si specchia nei bagni di un aeroporto, di ritorno dal primo incontro con du Pont, durante il quale gli sono stati promessi 25’000 dollari all’anno. La sua è un’espressione di gioia e un’esplosione di rabbia, un senso di rivincita, la concreta sensazione di avercela fatta, di avere finalmente svoltato, di poter smettere il patimento devastante della condizione di povertà. Un’immagine raggelata, spaventosa, più ancora della morte, un sentimento con il quale tutti ci troviamo a specchiarci, ogni giorno, in questo affanno.

Foxcatcher è un film ricco di letture possibili, tratto da un fatto di cronaca, paradigmatico come la realtà, unico come un’opera d’arte. •

Alessio Galbiati

 

Foxcatcher

 

FOXCATCHER
Regia: Bennett Miller • Sceneggiatura: Dan Futterman, E. Max Frye dall’autobiografia di Mark Schultz Foxcatcher: The True Story of My Brother’s Murder, John du Pont’s Madness, and the Quest for Olympic Gold • Fotografia: Greig Fraser • Montaggio: Stuart Levy, Conor O’Neill, Jay Cassidy • Colonna sonora originale: Rob Simonsen • Casting: Jeanne McCarthy • Art Direction: Jess Gonchor • Scenografie: Brad Ricker, Kathy Lucas • Costumi: Kasia Walicka-Maimone • Produttori: Anthony Bregman, Megan Ellison, Jon Kilik, Bennett Miller • Coproduttore: Scott Robertson • Produttori esecutivi: Mark Bakshi, Chelsea Barnard, Michael Coleman, John P. Giura, Tom Heller, Ron Schmidt • Produttori associati: Hank Bedford, Kristin Gore, Mark Schultz • Interpreti: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo, Sienna Miller, Vanessa Redgrave, Anthony Michael Hall, Guy Boyd, Brett Rice, Jackson Frazer, Samara Lee, Francis J. Murphy III, Jane Mowder, David ‘Doc’ Bennett, Lee Perkins, Robert Haramia • Produzione: Annapurna Pictures, Likely Story, Media Rights Capital • Rapporto: 1,85:1 • Suono: Datasat, Dolby Digital • Macchine da presa: Arriflex 235 (Panavision Primo e lenti Ultra Speed MKII), Panavision Panaflex Millennium XL2 (Panavision Primo e lenti Ultra Speed MKII) • Laboratori: Company 3 Los Angeles, Company 3 New York (digital intermediate), DeLuxe Hollywood (processing) • Negativo: 35 mm (Kodak Vision3 50D 5203, Vision3 250D 5207, 500T 5230) • Processo fotografico digitale: 2K (master format) • Processo fotografico negativo: Super 35 (3-perf) • Formati di proiezione: 35 mm (sferico), D-Cinema • Paese: USA • Anno: 2014 • Durata: 134′

 



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