João Ferreira, direttore di Queer Lisboa

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João Ferreira membro di giuria al Sicilia Queer FilmFest di Palermo (foto: Angelo De Stefani)

Sicilia Queer 2016
Giuria internazionale

Durante la prima tappa di RapportoQueer, la nostra indagine sul cinema e i festival queer che ha avuto la sua prima tappa al Sicilia Queer FilmFest di Palermo, abbiamo incontrato João Ferreira.
Direttore dal 2004 di Queer Lisboa, il festival queer di Lisbona, Ferreira dal 2015 è direttore anche del festival queer di Porto. È stato membro della giuria di numerosi festival internazionali. È anche docente, critico, attore e drammaturgo. È tra gli autori del volume Queer Film and Culture. Insomma, chi meglio di lui per dare inizio alla nostra ricerca?

Intervista di Roberto Rippa e Chiara Zanini

 

Rapporto Confidenziale: Com’è nato Queer Lisboa?

João Ferreira: Queer Lisboa nasce quasi vent’anni fa, nel 1997. Il direttore artistico lo ideò insieme all’Ilga (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), ma fu presto indipendente: risultò chiaro che un festival non può essere così strettamente legato al un’associazione, e altrettanto chiaro che non deve avere condizionamenti politici. Inizialmente era supportato dal Comune di Lisbona, poi alla settima edizione non fu più così, e lo è stato di nuovo successivamente. Tutto il gruppo di lavoro viene retribuito. Alcune persone ci lavorano durante tutto l’anno, e questo è inusuale per un festival.

RC: Anche il pubblico è cambiato?

JF: Senz’altro, e per molti aspetti. Il nostro è in assoluto il primo festival di cinema a Lisbona. Tutti i grandi registi europei ci venivano, da Ozon ad Almodovar e questo è stato fondamentale per attrarre tanto la cittadinanza quanto cinefili di qualsiasi orientamento sessuale. Siamo invece stati a volte criticati da persone lgbt per non aver scelto esclusivamente film a tematica lgbt, proponendo opere che avessero comunque uno sguardo queer sul cinema.
Ripensando a come è cambiato il pubblico posso citare questo episodio: era il 2000, o forse il 2001 e un’emittente televisiva era presente al festival con l’intenzione di mandare in onda a tutti i costi qualcosa che fosse fuori dall’ordinario. Quella volta la maggior parte delle persone sparì immediatamente alla vista delle telecamere: nessuno voleva essere “sospettato” di essere lgbt se riconosciuto in tv. Otto anni fa arrivarono di nuovo le televisioni, sempre alla ricerca di qualcosa di bizzarro. Nemmeno quest’altra volta trovarono che cercavano, ma riuscirono a fare le interviste al pubblico senza problemi. Sì, molto è cambiato nel corso degli anni.

 

Ferreira02João Ferreira (foto: Angelo De Stefani)

 

RC: Tornando allo sguardo queer, si può definire quali siano le sue origini nel cinema?

JF: Per decenni le persone lgbt non hanno trovato rappresentazioni di sé al cinema. Ne sono state escluse. Hollywood e il cinema mainstream in generale non accettavano storie di persone lgbt, quindi eravamo costretti a cercare il queer negli stessi film mainstream: spettava a noi riconoscere quei segnali nelle varie soluzioni adottate dai cineasti. Un esempio è Marlon Brando che in Un tram che si chiama desiderio rimaneva senza maglietta parlando chiaramente di liberazione sessuale ad un pubblico maschile dei primi anni Cinquanta. Questo per ricordare che la storia del cinema queer non si deve solo a personaggi e registi lgbt né a una storia d’amore. Il queer look è un modo di guardare il mondo.

 

Marlon Brando01Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire) di Elia Kazan, 1951

 

RC: Molto è cambiato, è vero, oggi si può raccontare qualsiasi storia e non è più necessario nascondere una sotto-trama nella trama per il divieto di essere espliciti. Com’è cambiato quindi, in relazione a questo mutamento, lo sguardo queer? Le capita di pensare che determinati film siano indirizzati in modo specifico al solo pubblico lgbt, ossia che lancino messaggi senza preoccuparsi di essere anche film di qualità?

JF: Il problema è che c’è chi sente il dovere di costruire immagini positive. Per parecchio tempo soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, all’epoca della pandemia dell’Aids, ci sono stati molti film con messaggi positivi, con gay non-promiscui, che vivono in famiglia, che hanno una vita “normale” e sono politicamente corretti. E politicamente parlando lo capisco: andava fatto. Ma cinematograficamente parlando questi film sono meno interessanti. Lo sono molto di più i registi del cosiddetto New Queer Cinema, come Todd Haynes, Gus Van Sant, Tom Kalin, Barbara Hammer o Cheryl Dunye, che hanno invece dato vita ad un cinema in cui anche le persone lgbt possono essere cattive. Possono essere anche assassine, o comunque non sempre buone e carine. Oggi esiste ancora un cinema a tematica lgbt commerciale che cerca solo il proprio mercato. Anche il pubblico dei vari paesi del mondo è molto diverso, e ci sono paesi in cui questi film sono ancora importanti per chi deve accettarsi.

RC: Conoscendo bene le diverse realtà dei festival queer internazionali, direbbe che c’è una relazione tra la libertà artistica dei direttori di festival e il proprio paese in rapporto ai diritti che questo concede alle persone lgbt?

JF: Non c’è necessariamente una relazione tra le due cose, ma ci sono curatori di festival (ad esempio negli Stati Uniti e in Canada, paesi che hanno legiferato in favore dei diritti delle persone lgbt) che tendono ad escludere i film che non hanno un messaggio del tutto positivo, perché si sentono legati alle istituzioni politiche e sono meno aperti nei confronti del cinema queer alternativo. E di questo i registi sono ben consapevoli. Poi ci sono festival in paesi con assenza di diritti i cui curatori sperimentano scelte più rischiose selezionando film indipendenti.

RC: Pensa sia possibile che oggi in paesi con una forte propaganda anti-lgbt come la Russia si abbia una rivolta come accadde ad esempio negli Stati Uniti?

JF: In una società complessa come quella russa la repressione inferta a questi artisti oggi è alta. Sono tenuti sotto osservazione anche attraverso Internet proprio perché Internet è un posto in cui ci sentiamo liberi. Alcuni riflettono sulla situazione nel proprio paese da emigrati all’estero. Sta accadendo, è sempre accaduto e sempre accadrà. Quegli artisti trovano nuove vie per lanciare i propri appelli. Molti altri non intendono lasciare il proprio paese e lottano da dentro, come gli organizzatori del Festival queer di San Pietroburgo.

 

Ferreira04João Ferreira (foto: Angelo De Stefani)

RC: Il cinema è ancora un modo per riconoscersi, per identificarsi, oppure non può più esserlo come prima?

JF: Sono cresciuto senza Internet, ora è tutto diverso. Tuttora non lo uso molto, ma sono consapevole di come permetta di vedere il mondo in modo diverso. Oggi l’impatto con la rappresentazione dei corpi rimane però fortissima nel cinema e nel teatro. È anche per questo che la pornografia è stata importante per i gay, nel senso che era l’unico spazio in cui avevano la possibilità di vedere altri uomini che tra loro provano piacere e riconoscevano nei film un corpo come il proprio. Finalmente, tutto questo era normale.

RC: Per le donne lesbiche però questo non c’è stato. Per le donne è molto diverso.

JF: Esatto. Per le lesbiche è sempre stato tutto più nascosto. Nemmeno l’industria del cinema supporta adeguatamente, ossia economicamente, le donne registe, nemmeno ad Hollywood e nemmeno le più premiate. Ma c’è davvero bisogno di narrazioni fatte da donne e non possiamo certo lasciare che siano solo uomini eterosessuali a filmare i corpi delle donne lesbiche con il proprio sguardo maschile.

 

tangerine_02Tangerine, Sean Baker, 2015

 

RC: A questo proposito cosa pensa de La vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche?

JF: Ho odiato La vie d’Adele, ho persino rinunciato a vederlo fino alla fine. La storia non è credibile. È misogino. Forse è la mia parte lesbica a parlare ora!
Comunque, le donne faticano maggiormente a trovare finanziamenti in questo ambiente.

RC: Si può allora dire che se la comunità lgbt fosse più unita la lotta contro gli stereotipi farebbe un passo avanti superando almeno questa discriminazione?

JF: Ho avuto una discussione a riguardo. In alcuni casi, ad un micro-livello, o a un livello locale sì, siamo comunità. Ma non a un livello globale. Ci sono delle lobby. Ad Hollywood, ad esempio. Ma come queer a livello globale non siamo una comunità, altrimenti in quest’epoca di informazione globalizzata che viviamo tutti saprebbero come stanno le cose a Catania, a Palermo e così via. Dovremmo fare rete e agire di più insieme, unendo le nostre piccole forze. Anche il cinema queer sta diventando più individualizzato. Gli artisti possono (tutti, e anch’io nel mio lavoro) indagare la Russia o il Medio Oriente, ad esempio, in modo personale, ma nonostante l’accesso a un’infinità di dati e informazioni oggi è difficile indagare le comunità locali.

RC: Quali titoli consiglierebbe ad una persona che non volesse approfondire la storia del cinema queer ma volesse vedere i film?

JF: Il cortometraggio Mondial 2010, diretto dall’artista Roy Dib, membro come me della giuria del Sicilia Queer Film Fest quest’anno. Road trip di una coppia omosessuale libanese in Medio Oriente, realistico ma anche utopico, quello di Dib è proprio un queer gaze su vari aspetti, anche politici.
E poi Vincent Dieutre [altro regista giurato del SQFF], con il suo queer gaze sull’immigrazione. Perché mai gli immigrati devono essere esclusi dalla cinematografia queer? Non supereremo mai la discriminazione nei confronti delle persone lgbt se ci concentriamo solo sul fatto di essere lgbt. Le morti nel Mediterraneo – centinaia anche in queste settimane – devono essere di nostro interesse come lo sono i diritti lgbt. Non possiamo chiuderci al nostro interno e pensare che gli immigrati siano nostri nemici. Anzi, sono una vera forza. Questo sguardo queer sull’immigrazione può essere importante, può aiutare.

RC: E per quanto riguarda film con protagoniste/i transgender?

JF: Tangerine di Sean Baker è un gran bel film, una bella azione positiva (affermative action – strumento politico che mira a ristabilire e promuovere principi di equità etnica, di genere, sessuale e sociale. Ndr.) e una sfida per il regista in quanto non girato in pellicola ma interamente con l’IPhone. Nominerei anche Wild Side di Sébastien Lifshitz, profondamente poetico. Tra i documentari, Call me Marianna della regista polacca Karolina Bielawska e Julia della fotografa tedesca J. Jackie Baier.

 

Roberto Rippa, Chiara Zanini
Palermo, 3 giugno 2016

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