Sono tanti, forse troppi anni che vado a Ypsigrock, a Castelbuono, cento stradine medievali che ho battuto per lunghe estati convesse, girate attorno al festival, accartocciato ed essiccato su un letto fresco, lenzuola bianco cascante, avorio, al riparo delle mura antiche di una casa di borgo: un’anziana dal viso di porcellana cinese importata primi novecento, levigato, cerchiato, pelle di siciliana agra, accogliente; la sua voce preservata dalla cottura del sole, destinato agli uomini; le sue mani rigate come dal mare, che essa non conosce, un affare troppo pericoloso e selvaggio; le sue dita affilate dalla liscìa, per secoli unico candore concesso al prêt-à-porter quotidiano.
Tutto mi turba, questa bellezza mi disturba: non parliamo che di tempo, di clima, quando non fa affatto caldo; che di cibo, quando la noia supera la propria piena esistenza; che di tradizione, quando non siamo che degli imbecilli, dei porchettari; che di retaggio, quando siamo stati colonizzati e contaminati.. per fortuna.
Sento il bisogno di negare tutto ciò che esiste in questa terra eternamente passiva, prona, che guarda indietro anche quando fa dei passi avanti. Io conosco questa terra. Ecco perché Castelbuono pesa, pesa la sua calma, pesa il suo riposo dal niente.
L’autostrada è là e ci dividerà. Arrivo su a quello che per cinque giorni all’anno risponde al nome di Ypsicamping, ma che è San Focà, una pineta d’una mistica antica, claustrale, nulla di lisergico. Un luogo accomodato su piccoli pendii oltre le spalle del paese.
Qui, in pieno agosto, in Sicilia, bisogna indossare un cardigan di cotone caldo per restar fuori la notte, qui il vento passeggia sempre, qui è dove le foglie in piena estate ingialliscono e piovono creando un senso di spaesamento e distanza e dove finisce spesso per piovere per davvero, sembra alle volte la parte rurale di ciò che immagino possa essere Twin Peaks: posiziono la mia tenda alle spalle della montagna catalana, prospettiva d’affetto e sicurezza.
Questa è l’estate dei francesi e non potrei essere più felice.
Ho fatto una passeggiata con Paul oltre l’accampamento scolorito, tende e fili di cotone, drappi di un verde croce farmaceutica e blu spento viagra, abbiamo esplorato una lingua di terra abbarbicata al costone d’una montagna coperta d’alberi, il massiccio centrale davanti a noi, abbiamo sostato su massi seduti, e poi alle nostre spalle abbiamo notato una montagna brulla, totalmente spogliata, e sulla strada grossi alberi senza la vestina di nero raso appena trasparente a coprirne le radici, che contro tutti tengono assieme la terra a pini che piangono al vento assieme a rumori d’animali familiari, urla di donne che fuggono un ratto, il crepitio di legnetti calpestati, abbiamo letto qualche pagina dei rispettivi libri, abbiamo dormito e non abbiamo parlato, perché in fondo l’arte della gioia è il silenzio.
Parco delle Madonie © Elisabetta Brian
Ypsigrock è la cosa da fare in estate in Italia, sicuramente è la cosa migliore che avviene in Sicilia durante tutto l’anno.
Quest’anno l’aria concerti del campeggio, il Cuzzocrea Stage, è stata riposizionata secondo un’abilissima mossa padronale, che ha giocato bene nello scacchiere della gioventù godereccia. Come d’abitudine, discutibile la qualità dei djset: dateci solo Smiths, Cure, New Order e Joy Division, come avviene malauguratamente solo a piccoli cucchiai educati, da caffè, mentre noi vorremmo dei mestoloni – qui mi sento di voler guidare la rivolta – e non osate nulla perché è vero che quando non sai, inventa, ma anche che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Tranne il concerto dei Bruce Harper del sabato, poi, anche la linea dei gruppi proposti al palco su al campeggio, nel post-castello, è rimasta tra il vago e l’anonimo.
Ypsicamping, Cuzzocrea Stage (© Elisabetta Brian)
Se la carne locale non è buona, il manzo irlandese è nulla più che tritato di seconda scelta, Bry giù al Chiostro a San Francesco – indimenticabile lì, anni fa, il concerto di Mark Kozelek – ci serve un college rock melenso senza intensità, guarnito da un’atmosfera che sembra ripresentarci i Paramore in chiave gaelica.
Poco dopo, ascolto Hån, un pop elettronico intimo che ricerca atmosfere empatiche ma che risulta di maniera, poco incisivo, costruito.
Una nota sul Crocifisso: un posto magnifico per un concerto, un ex chiesetta stuccata alla Serpotta, d’un bianco accecante, ma troppo caldo, umido e afoso, una fornace, basterebbe solo acquistare qualche condizionatore d’aria mobile e piazzarlo un’oretta prima delle esibizioni per rendere possibile una fruizione umana e gradevole. Parole da bottegaio di cui forse mi pentirò, ma sono anni che va così.
Quando credevo di avere bisogno di dubbi Adrien m’ha donato una certezza risoluta e solida, non gliene sarò mai abbastanza grato.
Prima sera al Castello, dominati da questo imponente maniero arabo-normanno dal grido semplice e amichevole, davvero buono, sentiamo i Cabbage. Manchester è la capitale musicale del Regno Unito. Sono loro la vera sorpresa della line-up, un caro amico mancunian me ne aveva già parlato con un sorriso furbo sulle labbra, il loro approccio oltranzista stende e scalda, dentro ci sono i Sex Pistols, i primi Arctic Monkeys, forse qualche ascolto dei Dead Kennedys, ma non c’è nostalgia. L’ascolto dello studio è poi piacevolissimo. Da seguire, un impatto così non lo ricordavo dai Fat White Family.
Riporto partigianamente il testo di “Free Steven Avery (Wrong America)”.
Free Steven Avery, free Steven Avery
It epitomises everything that’s wrong with America
Free Steven Avery, free Steven Avery
It epitomises everything that’s wrong with America
Death to Donald Trump, death to Donald Trump
There’s something about politics in America
Death to Donald Trump, death to Donald Trump
There’s something about politics in America
America, America
Land of the free, it’s wrong America
America, America
Land of the free, it’s wrong America
Free Steven Avery, free Steven Avery
It epitomises everything that’s wrong with America
Free Steven Avery, free Steven Avery
It epitomises everything that’s wrong with America
Death to Donald Trump, death to Donald Trump
There’s something about politics in America
Death to Donald Trump, death to Donald Trump
There’s something about politics in America
America, America
Land of the free, it’s wrong America
America, America
Land of the free, it’s wrong America
Mi piace l’idea d’una musica che rifiuti di ripulirsi, di prodursi, di venire incontro, mi sembra che nei Cabbage quest’idea trovi conferme.
Dei Preoccupations, secondo gruppo sul palco, resta poco se non una certa pretenziosità, nel finire un set con un lunghissimo scampanio a morte di batteria.
I Ride sono al contrario oltreumani, un concerto memorabile, è un’altra categoria di musicisti, anche nel goffo tentativo di fare gli auguri a Andy Bell (ex Oasis) Mark Gardner riesce a risultare elegante così come il loro shoegaze britannico, melodico, martellante, a tratti sognate, trascinante, quasi due ore che durano troppo poco, sicuramente il concerto più bello di questo Ypsigrock.
Il secondo giorno comincio direttamente dal Castello, ascolto la noiosa fine di Christaux e l’altrettanto poco interessante tentativo di un rock non-rock dei Beak, certo le linee melodiche di Geoff Barrow (Portishead) restano comunque notevoli, ma nulla oltre questo da notare.
Rejjie Snow sorprende tutti con un set hip-hop leggero e godibilissimo, la piazza è improvvisamente una bolgia e la sua furia non si placa mai: saltiamo e balliamo, è così che immagino sia stata Brooklyn negli anni 90′.
Sono anche queste le cose per cui adoro Ypsigrock, una cosa del tutto inaspettata che dà senso a un’intera giornata e che sto ancora riascoltando, perché The Moon & You, l’album di Rejjie Snow, è una vera perla.
Rejjie Snow
I Digitalism confermano le mie attese, chiudono la serata con un set divertente e ballabile, ma poco interessante, restano confinati ad una galassia M2O che non m’appartiene.
Uno dei concerti più attesi del festival, soprattutto dal pubblico italiano, era senz’altro quello di Edda, ex Ritmo Tribale, che ha intrapreso una carriera solista travagliata e densa. La direzione artistica del festival ha scelto di destinare il suo set al cortile interno del Castello, un luogo capace di accogliere pochissimi partecipanti, la scelta è stata molto critica, io stesso ho fatto la fila per 40 minuti perdendo il concerto precedente al Crocifisso senza riuscire a entrare, tuttavia mi sento di difendere la decisione per due motivi: è da un po’ di anni che quella cornice viene concessa ad un nome affermato del panorama italiano, i grandi festival innestano al loro interno linee di nuova tradizione che danno senso all’idea generale della manifestazione; data la produzione di Edda, più intima è la cornice, migliore è il risultato live. Ergo: beato chi ha partecipato. Malauguratamente non sono riuscito che ad ottenere opinioni di terza mano.
Alla sera al Castello i due nomi più attesi: Cigarettes After Sex e Beach House.
I primi hanno messo su un concerto molto cupo, ma ricco ed espressivo, dai toni raccolti, un concerto esattamente come ce lo si aspetta quando si ascolta un loro disco. Suggestiva l’architettonica dei fumi e delle luci palco.
Una cattedrale gotica di suono, una voce androgina che sussura: Quoth the Raven “Nevermore.
I Beach House mi hanno lasciato dentro il solco d’una grandezza accarezzata, Victoria Legrand ha una voce imponente e il set ha restituito tutto il loro immaginario onirico che pesca in giocattoli d’infanzia rotti, nella loro nostalgia di eterni adolescenti, in sinfonie soffocate, nel fischiettio di melodie quando si rientra a casa a piedi sfiorando le mura dei palazzi screpolati. E poi urla. Cadono le torri, una risoluta voglia di scappare, Baltimora deve essere una città stretta che lascia aperte le possibilità d’immaginare ciò che si vuole senza realizzare nulla, un po’ come Palermo. Una vecchia imbellettata che serve il té in tazze spaiate.