C’è un elemento in comune che attraversa i due film che la coppia artistica Botrugno/Coluccini ha realizzato, ed è la quasi totale identificazione tra la struttura/forma narrativa e la struttura/forma degli edifici scelti per raccontare le proprie storie.
L’esordio (s)folgorante con Et in terra pax, potente e segnante, racconta una serie di storie parallele che si sviluppano all’ombra (e nel “cuore di tenebra”) del Corviale, un palazzone di borgata lungo più di un chilometro, una linea di cemento impressionante e inesorabilmente orizzontale. E proprio come il Corviale, le vite dei protagonisti si dipanano su una orizzontalità priva di slanci e assolutamente asciutta, inquadrata in una logica di distaccato disincanto, privo di ogni giudizio, scevro di ogni moralismo, lontano da qualsiasi atteggiamento conciliatorio.
Da Et in terra pax il secondo film della coppia eredita questa inesorabile linearità che livella miseramente e realisticamente le vite dei protagonisti; soggetto a una lavorazione molto lunga e arrivato onestamente molto tardi rispetto al primo film, Il Contagio forse soffre un po’ le lungaggini della lavorazione, anche considerando che è tratto dall’opera letteraria omonima di Walter Siti, pubblicata nel 2008, ma impregnato di tutti quegli elementi di cronaca ed attualità che in effetti sono emersi solo negli ultimi tre o quattro anni, anche se le Radici del male (giusto per citare un altro autore di noir ambientati a Roma, il bravo Roberto Costantini) affondano in quegli anni Duemila che sono stati il nido di una cucciolata di demoni che ancora oggi devastano la società, l’economia e la politica della Capitale.
Un contagio, quindi, iniziato molto presto e presto diventato un’epidemia, dove la malattia è una sorta di spersonalizzazione della totale mancanza di valori, dove gli individui infetti non sono altro che persone che hanno perso il totale contatto con la realtà circostante, o forse ne sono totalmente inglobati e schiacciati, annullati, livellati e resi uguali come un’anonima borgata di periferia, senza nemmeno rendersi conto della loro totale privazione di dignità.
Qua il male viene esercitato abitualmente, fa integralmente parte delle vite dei protagonisti, non è un aspetto negativo della vita ma un vero e proprio modus vivendi. Se l’umanità che si muoveva attorno al Corviale poteva essere in un certo senso identificata, alienata e isolata, qua abbiamo del materiale umano che si mostra in tutta la sua apparenza, è inscindibile dal contesto, ne fa parte, quasi come fosse arredo urbano.
Fino alla condizione di totale invisibilità che traspare dalle parole dello scrittore “pasoliniano” interpretato da Salemme, che scandisce alcune svolte interne con una voce narrante fuori campo che in un punto esatto del film dichiara «il male non esiste, la pace bussa quando vuole».
Al di là di questa auto citazione che richiama la “pax in terra”, ed evitando generalmente i paragoni tra le diverse opere della stessa regia, in questo caso si incorre inevitabilmente in alcuni parallelismi, proprio perché l’ambientazione, le storie, le tematiche, i conflitti umani e le situazioni di Il Contagio sembrano seguire il solco di Et in terra pax. Anche nel secondo film di Botrugno/Coluccini il punto di partenza è il palazzo dove abitano tutti i protagonisti della storia, i cui destini però sono fin da subito intrecciati tra loro.
Abbandonato il degrado e lo squallore del Corviale, qua siamo in un palazzo dove gli interni e gli esterni sono maggiormente curati, dando l’impressione di un’umanità che tende a elevarsi o, quantomeno, all’illusione di un tentativo in quella direzione. La realtà però ci mostra un’umanità orizzontale, piatta, priva di qualsiasi slancio morale, in una palazzina dove gli accenti si mescolano, facendo emergere un’universalità che esula dal contesto capitolino per abbracciare un’idea più ampia di degrado nazionale.
Il palazzo dove vivono i protagonisti ha una facciata che richiama in maniera piuttosto esplicita il Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR: in questo caso però si tratta di una facciata che dà su un cortile interno, chiuso da altri due muri, una facciata della civiltà italiana (tutto minuscolo) chiusa in sé stessa, lontana dal respiro epico del quartiere costruito da Marcello Piacentini, totalmente intrappolata e privata di quegli ampi spazi capaci di “elargire” un senso di libertà che in Il Contagio viene annullata e svilita.
I protagonisti credono di essere liberi, ne sono pure convinti, ma l’ineluttabile condizione di partenza mostrerà i loro limiti, in particolar modo quelli di Mauro, lacchè di Carmine, a sua volta losco strozzino che entra nel business dell’accoglienza dei migranti. Attualità, cronaca e tragedia contemporanea si mescolano, fino a mostrarci la crescita economica e professionale di Mauro, che esce dalla borgata per trasferirsi a Prati, acquisendo una ricchezza tutta materiale, ma restando spogliato di ogni rigore morale ed etico, privo di qualsiasi ricchezza interiore.
Vite orizzontali che si illudono di poter cambiare direzione, ma che rimangono tali, in perfetta continuità con l’ineluttabilità che caratterizzava Et in terra pax. E in questo film entra in gioco anche la componente letteraria, non solo come espediente narrativo caratterizzato dal personaggio dello scrittore interpretato da Salemme, ma anche come elemento strutturale di una sceneggiatura meta-cinematografica. I momenti narrati dallo scrittore prediligono la scelta stilistica del ralenti, forse un po’ enfatica, ma certo utile a dare un’impronta da èpos a personaggi e situazioni altrimenti miserabili, in una logica di ribaltamento che sceglie di attribuire a un narratore interno gli unici momenti “alti” di un racconto altrimenti assolutamente orizzontale, dove non vi sono distinzioni, dove non vi sono buoni e nemmeno cattivi, dove non vi sono giustificazionismi e nemmeno alcun intento conciliatorio.
A fronte di una prima parte iper-realistica, dove attualità e piattume si avvicendano sullo schermo raccontando vite incapaci di slanci morali ed etici, si sviluppa una seconda parte dove lo stile del duo in un certo senso si denatura, uscendo dalla borgata e universalizzando la condizione umana, mostrando un’umanità deformata e sempre sopra le righe, dando un tono enfatico a ogni situazione. Mauro è la maschera perfetta per questo tipo di scelta stilistica: sempre strafatto, sempre minaccioso, ma anche stralunato e fuori contesto. È il borgataro che si mischia all’alta borghesia che a sua volta non ci pensa due volte a “scendere a patti” con la borgata.
Questa seconda parte è dominata da una sorta di astrattismo dove l’uso del flashback e del ricordo accompagna l’entrata in scena dell’alta società e del mondo dei mass media, disumanizzando e spersonalizzando le tematiche di partenza e rendendole quindi più spaventose, insidiose e pericolose.
Quella di Botrugno/Coluccini è una regia capace di unire la splendida fotografia di Davide Manca a una colonna sonora sottile eppure persistente, elegante eppure disperata, sinfonica eppure capace di imprimere un marchio di solitudine su ognuno dei personaggi. Il cast ci crede e in questo il duo registico si rivela anche capace di una grande “direzione” nel vero e puro senso del termine: Vinicio Marchioni svetta su tutti, dando al personaggio di Marcello una credibilità feroce e angosciata, una maschera di dolore e solitudine che buca lo schermo e la narrazione; la Foglietta e Salemme gli tengono testa portando in scena personaggi che amano e soffrono, che corrono in aiuto pur avendo bisogno di essere sostenuti a loro volta. Da Et in terra pax i registi recuperano Maurizio Tesei e Fabio Gomiero che di quel film erano in assoluto gli interpreti migliori, le facce e i corpi più attinenti all’inquietudine e al malessere che emergeva là come qua.
Vi sono moltissimi personaggi nei 105 minuti scarsi di Il Contagio. Ciò che potrebbe sembrare difetto: molti personaggi sono solo accennati, poco approfonditi, anche tra quelli meglio interpretati; ma l’impressione è che i registi abbiano voluto spennellare un’umanità che è solo di passaggio, che è superficiale. L’idea è che l’intenzione sia quella di creare un affresco umano dove l’elemento fondamentale è l’insieme, la coralità della disperazione. Dove nessuno è davvero degno di troppa attenzione.
I personaggi sono come isole, ognuno con una propria personalità e un proprio bagaglio di “male”, ma ai registi interessa mettere in scena l’arcipelago, molto più che le singole isole. Ai giovani registi sembra interessare la condanna di una società che è fatta sì di persone singole, ma che è fatta anche di responsabilità collettive.
E come isole in un arcipelago, i personaggi sono circondati da un mare/male. Un mare/male di distanza, un mare/male vuoto di valori, un mare/male in burrasca, un mare/male che porta in sé il pericolosissimo virus di un contagio morale ed etico che sembra non avere fine. •
Nicola ‘Nimi’ Cargnoni
IL CONTAGIO
Regia: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini • Sceneggiatura: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini, Nuccio Siano dall’omonimo romanzo di Walter Siti • Fotografia: Davide Manca • Montaggio: Mario Marrone • Costumi: Francesca Di Giuliano • Scenografie: Laura Boni • Colonna sonora: Paolo Vivaldi (originali), Andrea Boccadoro (aggiuntive) • Suono: Andrea Viali, Piergiuseppe Fancellu • Casting: Manuela De Santis • Produttori: Paolo Bogna, Simone Isola, Simona Giacci, Laura Tosti, Ermanno Guida, Guglielmo Marchetti, Francesco Dainotti, Gianluca Arcopinto • Coordinatore di Produzione: Laura Tosti • Interpreti principali: Vincenzo Salemme (Professor Walter), Vinicio Marchioni (Marcello), Anna Foglietta (Chiara), Giulia Bevilacqua (Simona), Maurizio Tesei (Mauro), Nuccio Siano (Carmine), Carmen Giardina (Lucia), Lucianna De Falco (Flaminia), Michele Botrugno (Bruno), Daniele Parisi (Attilio), Alessandra Costanzo (Valeria), Fabio Gomiero (Richetto), Florian Khodeli (Marina) • Produzione: Kimerafilm, Notorious Pictures, Rai Cinema in collaborazione con Gekon Productions • Distribuzione: Notorious Pictures • Paese: Italia • Anno: 2017 • Durata: 110′
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