Koudelka Shooting Holy Land (Koudelka fotografa la Terra Santa) > Gilad Baram

Koudelka Shooting Holy Land © Gilad Baram

Koudelka fotografa la Terra Santa è un documentario che mostra il lavoro di un fotografo ottantenne che va in giro con 3 grosse macchine fotografiche vecchio stile, le sue pellicole e che insegna cosa voglia dire amare l’immagine davanti l’obiettivo più di quanto si ami la propria dietro la macchina.
Josef Koudelka è un personaggio eroico che eroe proprio non vuole essere. Parla di miracolo quando scorge una buona foto ma per me lo è già il fatto che un film come questo venga distribuito in sala in Italia, in lingua originale. Associato all’agenzia Magnum, il ceco è stato autore di storici racconti per immagini come quello realizzato durante la primavera di Praga o quello decennale sugli zingari. Ai più potrebbe apparire come un perfetto sconosciuto ma è tra i più importanti fotografici viventi, sicuramente è il più atipico.
Ho trovato di particolare interesse il dialogo che si apre tra cinema e fotografia, tra materia e sua rappresentazione, nei diversi modi di percepire il tempo e lo spazio. Il fluire del cinema incontra la perentoria staticità della fotografia che, al contrario di quanto si possa immaginare, conserva dentro ogni singolo scatto un travaglio notevole. Piccoli spostamenti, misurazioni, angolazioni differenti, prospettive e rotolamenti nella polvere per riuscire a trasformare in fotografia ciò che la vista ha veduto, senza appello. Immortalare.
La cinepresa che lo filma mostra un uomo alla continua ricerca. Non è Wenders che glorifica la Salgado s.p.a ne Il sale della terra, qui piuttosto nessuno cerca di dimostrare nulla o spiegare o narrare, qui il tutto si riduce a ciò che scrisse Roland Barthes: “La veggenza del fotografo non consiste nel vedere ma nell’essere presente”. Nella Terra Santa sono presenti Baram il regista con la sua cinepresa, Koudelka il fotografo con la sua macchina fotografica ma soprattutto un muro mastodontico ed in continua espansione. Ciò che vediamo nel documentario ci permette, indirettamente, di essere presenti noi stessi in quei luoghi e di provare ad intuire ciò che passa per la testa e attraverso le pupille del fotografo Josef. Nessuno poi vieta di dare un proprio giudizio sulla questione politica, mai espressamente richiesto, s’intende. Con il suo lavoro sul muro Koudelka semplicemente prende atto visivamente della divisione in essere, delle due parti in campo, dell’assenza di comunicazione e dell’assurdità della situazione. Tutto questo senza spendere nemmeno una parola. Vi pare poco?

 

 

Ma veniamo al discorso formale. Perché utilizzare, per le fotografie, un formato panoramico? La risposta è semplice, perché è sempre bene seguire la forma e la direzione di ciò che si sta fotografando e un muro si estende in larghezza più che in altezza e quindi ecco spiegato perché le fotografie di Koudelka sono più lunghe che alte. Le lezioni che impartisce Josef sono lì alla portata di tutti, semplici, intuitive, frutto di un metodo rigoroso e di un amore sincero e sconfinato per l’immagine che sta lì ad attenderlo ma che non per questo gli si mostra al primo sguardo. Lessi tempo fa una bellissima intervista della serie Maledetti fotografi nella quale diceva, tra le altre cose:

“Io ho avuto la fortuna di poter fare sempre ciò che volevo, di non lavorare mai per altri. Forse è un principio stupido, ma l’idea che nessuno possa comprarmi è importante per me. Io rifiuto di lavorare su commissione, anche per progetti che sono deciso a portare avanti comunque, per me stesso. È un po’ uguale con i miei libri. Quando il mio primo libro, quello sugli Zingari, è stato pubblicato, ho fatto fatica ad accettare l’idea di non poter più scegliere le persone a cui mostrare le mie foto, l’idea che chiunque potesse comprarle. Non mi è mai sembrato importante che le mie foto fossero pubblicate. È importante che io le abbia fatte. Ci sono stati periodi in cui non avevo soldi e immaginavo che qualcuno venisse a dirmi: Ecco i soldi, puoi andare a fare delle foto, ma non devi mostrarle. Avrei accettato subito. Ma al contrario, se qualcuno fosse venuto a dirmi: Ecco i soldi per fare le foto, ma alla tua morte dovranno essere distrutte, avrei rifiutato. Mi capisci?”

Certo che ti capisco Josef! Koudelka sottolinea che prima di scattare una foto deve guardare, conoscere, cercare, trovare cosa lo interessa e poi il modo migliore per fissare tutto sulla pellicola. Capire no, non c’è nulla da capire. Tutto consiste nel reagire a ciò che si presenta. A tal proposito mi è tornata in mente un’affermazione di Albert Serra che diceva:
“When I shoot a movie I am used to reject any kind of communication: I don’t talk with actors and technicians, then God is everywhere, His presence is total. Everything comes up on the set is because of Him, not because of me. I am doing nothing, I just let Him work. Tranquil. I let Him work tranquil.”

 

Koudelka Shooting Holy Land © Gilad Baram

 

Koudelka anche alla soglia degli 80 anni continua a lavorare col suo metodo, dispendioso, lento, incerto, faticoso ma che conosce bene e del quale si fida ciecamente. Lavorare con la pellicola significa che il risultato del lavoro potrà vederlo solo in un secondo momento, non subito dopo lo scatto come con le moderne macchine digitali. Durante il percorso di ricerca, improvvisamente, il dito del nostro Josef fa scattare l’otturatore e l’immagine viene catturata; ma resta invisibile, latente. Il risultato di un lunghissimo cammino rimane però celato, portandosi dietro il dubbio di aver sbagliato, di non aver colto ciò che aveva abbagliato l’occhio e mosso l’indice a serrare le lamelle imprigionando la luce. Perché? Per quale motivo rischiare di dover tornare sugli stessi luoghi per cercare di nuovo quell’immagine? Perché aspettare di sviluppare le pellicole, stampare i provini e solo allora osservare il risultato di tanta fatica? Perché? La risposta forse sta nel fatto che diamo troppa importanza al risultato e poca al processo creativo, nel fatto che spesso la paura di fallire di scoprirci mediocri ci fa stare nei sentieri tracciati, quelli comodi, ben illuminati e rassicuranti. Inutile dire che non mi passa nemmeno per la testa di affermare che esiste una vera fotografia e una un po’ meno vera, quella digitale. Dico solo che quando l’immagine non è latente il fotografo è latitante, meno curioso, osserva il minimo indispensabile e spesso lo fa attraverso lo schermo della sua macchina, una volta scattata una della migliaia di foto; andando così alla ricerca postuma di una di quelle da non cestinare. E già, perché la differenza risiede qui, tra la realtà fotografata e la foto non passa che una frazione minima di secondo, un tempo brevissimo nel quale nessuna tensione può nascere, nessuna aspettativa, nessun affetto; il responso è immediato, si cancella l’errore e si riscatta fino ad ottenere ciò che si ritiene soddisfacente. Il digitale è questo, una produzione bulimica e inanimata di immagini nate morte che si portano sulla coscienza una vera ecatombe di istanti cestinati all’istante. Col multi-scatto anche una scimmia riuscirebbe a ricavare una buona immagine.
Per Koudelka invece “Una buona foto è un miracolo”. Ed è un miracolo anche vedere questo maestro della fotografia tornare sugli stessi luoghi già fotografati, con i suoi provini stampati e confrontare la realtà con le sue fotografie, per cercare di capire se sia o meno riuscito a ricavare il massimo da quello scorcio di muro, dal filo spinato o da quell’orizzonte così mutevole. E il cinema, alle sue spalle cerca di fare lo stesso, mostrando i pensieri del ceco, le macchine che scattano e con un salto temporale, proprio della settima arte, le foto in bianco e nero in bella mostra, che ci obbligano a rielaborare tutto quanto appena visto, a confrontare il nostro sguardo, la nostra visione con quella di Koudelka. Che sia valido anche per il cinema il discorso fatto per la fotografia poco sopra? Non saprei dirlo. La fotografia è sintesi, è tirare le somme di una vita in una frazione di secondo. Scegliere se lavorare in digitale oppure analogico è una scelta personale, possibile, con poche differenze a livello economico. Al solito il cinema è una macchina assai costosa e la pellicola 35mm , davvero, è roba da ricchi. Nel cinema però si può scegliere il Super 8, la vecchia e sgangherata pellicola dei nostri nonni che oggi pare vivere una nuova giovinezza, assunta quale forma obbligatoria di un cinema di ricerca, ricercato, sperimentale che poi spesso si riduce a confuse sequenze astratte, dubbie nitidezze, linguaggio balbettante e formalismo utile solo dare una parvenza esteriore al vuoto.

 

Koudelka Shooting Holy Land © Gilad Baram

 

Per me il punto è che quando si parte da una forma, scelta arbitrariamente per moda o per volontà di rappresentare se stessi in un modo preciso, si finisce poi col ficcarci dentro a forza un qualsiasi contenuto, slegandoli. Koudelka usa la pellicola perché è questo ciò di cui ha bisogno e usa il formato panoramico per fotografare il muro perché c’è sintonia tra forma e sua rappresentazione. Non è dunque un problema di formati, di supporti o di tecnologia, il problema è al solito l’autenticità delle intenzioni di chi si cimenta in una qualsiasi delle arti. Consiglio a tutti non solo la visione di questo documentario ma anche di approfondire la figura di Josef Koudelka, in immagini e parole. Mi piace chiudere con altri due estratti dell’intervista di cui sopra:

“È bene quando è il massimo di una situazione e allo stesso tempo il massimo di me stesso. Può succedere che io raggiunga questo massimo la prima volta, per caso, e che io ritorni nello stesso posto dieci volte di seguito, per dieci anni, senza riuscire a far meglio. O che cercando un certo massimo ne trovi un altro, a cui non avevo pensato. Quello che importa è la ricerca, la motivazione a spingersi oltre. Ma non posso proporre questo modo di lavorare a un giornale, non posso farmi mandare dieci volte a Lourdes per tornare con una foto che non ha niente a che fare con Lourdes.”

E infine: “Troppo spesso persone che hanno talento vanno dove si trovano i soldi. Cominciano a scambiare un po’ del loro talento contro un po’ di soldi, poi un po’ di più, e alla fine non gli resta niente.”

Viva Koudelka! •

Michele Salvezza

 

 

Koudelka fotografa la Terra Santa (Koudelka Shooting Holy Land)
Regia: Gilad Baram • Sceneggiatura: Gilad Baram, Elisa Purfürst • Fotografia: Gilad Baram • Montaggio: Elisa Purfürst • Musica: Tobias Purfürst • Con: Josef Koudelka • Produzione: Nowhere Films • Co-produzione: Czech Television – Film Center, in collaborazione con The Post Republic • Distribuzione italiana: Lab 80 film in collaborazione con Trieste Film Festival • Paese: Germania, Repubblica Ceca • Anno: 2015 • Durata: 76′

lab80.it/koudelka

 

Gilad Baram & Josef Koudelka © Frederic Brener



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