“Ma cosa vi disse d’altro sul terzo suono?” chiese il ragazzo con la curiosità alla stelle. “Niente di più e niente di meno” bofonchiò il prete. “Devi sapere” proseguì, “che il nostro è il tempo degli stravaganti e che c’è gente che ha fede nelle cose più incredibili. Con i violini, poi, pensano di suonare tutto, anche questo terzo suono…”
da Armando Torno, Il giovane Mozart a Milano – Un saggio e un racconto, La Vita Felice, Milano, 2017, pag. 109
Lunedì 23 aprile al Teatro Elfo Puccini di Milano ho assistito – dopo non saprei dir bene quanto tempo – a un bellissimo concerto. Lo scrivo con non celata soddisfazione, perché si conosce ormai la noia dei concerti odierni: un mix farisaico di benigna approvazione d’ogni lavoro che scaturisca dai pentagrammi d’ameni analfabeti “ispirati” (da “telluriche” o “lunari” sensazioni), in un politicamente corretto che tutto relega nella silenziosa stanza dell’accettazione apatica; anche quando a farne le spese sono “violenze” strumentali: all’accanita ricerca dell’esalazione d’un gorgoglio da parte d’uno strumento contuso o trasformato, d’un leggio strofinato con l’archetto o d’un computer Mac collegato a strumenti elettrici perché la (ormai spossatissima) “novità sonora” non venga mai meno.
Di Lorenzo Ferrero mi sono recentemente occupato su Film Tv, ma confesso che se avessi saputo dell’esistenza dei due pezzi eseguiti l’altra sera – Romanza senza parole del 1976, composta a venticinque anni ed Ellipse per flauto basso, di qualche anno successiva – avrei dovuto aggiungere altri dettagli: e lo spazio vincolato dell’articolo non sarebbe stato sufficiente. Capolavoro il primo pezzo, che l’Autore “non avrebbe voluto fosse eseguito” ma che è poi “piaciuto anche a lui” dopo averlo riascoltato. Conoscendo la precisione grammaticale di Ferrero – noi avemmo il privilegio di leggere anni or sono le bozze non ancora stampate del suo Manuale di scrittura musicale, EDT, che ci permettiamo di consigliare a chi voglia comporre: perché almeno sappia computare le terzine prima di lasciarsi soggiogare da Ferneyhough, che i gruppi irregolari li conteggia assai male – si rimane comunque stupefatti dal controllo della scrittura della Romanza (eseguita in modo perfetto e ammaliante dall’ensemble): magma d’abrasive figure che si sfilacciano, s’addensano e, coagulandosi in un’ironia controllata e quasi nostalgica – il clarinetto a un certo punto reclama una posizione e s’accanisce nell’esporre comicamente il proprio discorso, poi rinunziandovi – ci rimandano a un mondo perduto, quasi fossimo immersi in una giungla e scorgessimo solo in lontananza – verso la fine del pezzo – vette innevate e luminose; in fotografie color seppia. Un Ferrero sconosciuto a chi lo voglia ingabbiare nel Neotonalismo o in una “estrema semplicità”: definizione completamente erronea, per chi ha formulata una tecnica compositiva basata sulla teoria degli armonici (il “terzo suono” che abbiamo evocato in epigrafe: ne seguono altri). Dopo l’ascolto della Romanza e di Ellipse (esecuzione elegantissima di Paola Fre) ci s’accorgerà per lo meno di quanto Ferrero sappia controllare l’entropia delle strutture, gli scaleni ritmi di un’informalità che avrebbe poi assunta la forma del nitore classico. Di rara suggestione è infatti Ellipse, che in una struttura pensata e ricorsiva – come suggerisce il titolo, in una mediazione dalle concezioni “ellittiche” d’Enore Zaffiri – già propende per un’articolazione chiara e dai suoni armonici flebilmente raffinati. Dimostrazione che si possono disegnare musicalmente paesaggi desertici color ocra senza ricorrere a espedienti stucchevoli. Con punti fermi del fraseggio, in un graduale e pensato ritorno alla sintassi dopo il suo splendente sconvolgimento, Ellipse apre la strada a una guerre che Ferrero combatté negli anni del cosiddetto Postmoderno. I titoli degli anni seguenti aggrediscono di petto l’Ancien Régime (che potremmo anche tradurre come “anziano”, più che “antico”). Rock My Tango (eseguito al pianoforte con correttezza un po’ trattenuta da Andrea Rebaudengo), Three Simple Songs (tripartito “concerto” che nei momenti indugianti in palesi piaceri melodici, subito ci riporta a sovrapposizioni strumentali che contraddicono l’eccessiva cantabilità, suggerendo un contrappunto su piani azzardati e non certo prevedibili), My Blues (nella versione per flauto e pianoforte, languoroso pezzo che forse si dilunga qualche minuto di troppo nella descrizione d’una privata mestizia) e Glamorama Spies (frenetico pezzo d’impatto, simpaticamente gagliardo, i cui ritmi c’hanno ricondotti ad alcuni movimenti dei Tempi di quartetto per archi, anche se in questi la profondità è assai maggiore).
Oggi che la guerre è finita, il Postmoderno un ricordo (come scrisse Alan Kirby nel suo importante saggio The Death of Postmodernism and Beyond, del 2006) e quasi una forma “d’avanguardia del tempo”, noi possiamo assistere a queste esecuzioni serenamente: perché al di là d’ogni valore “storico”, “polemico” o “di passaggio” di pezzi come Romanza ed Ellipse (i mortai e le baionette sono stati riposti anche a Fort Niagara, e oggi ciò che ci affascina è il forte in sé con la sua severa bellezza) a noi interessa il valore delle composizioni; il loro charme e quanto abbiano da dirci. Perché le tediose profezie sulla morte dei linguaggi e della musica occidentale sono terriccio per il loro successivo, imprevedibile germogliare. •
Dario Agazzi