Chi sono io per scrivere di un film? A chi potrebbe interessare ciò che ho da dire?
Me lo domando ogni volta che inizio un pezzo; peraltro non richiesto da nessuno.
Per i registi non sono un regista.
Per i fotografi non sono un fotografo.
Per i critici non sono un critico.
Per mia madre sono un genio ed un fallito, alternativamente.
Per me sono tutte affermazioni vere e false allo stesso tempo; perché come diceva Ferdinand de Saussure: “C’est le point de vue qui FAIT la chose.” (È il punto di vista che FA la cosa.)
Ecco, appunto.
Scrivere di cinema, scattare fotografie o girare un film è un modo per porsi domande su se stessi e per cercare nuovi punti di vista sulle cose.
Sono certo che chiunque inizi le riprese di una nuova pellicola si domandi: Chi sono io per fare un film? A chi potrebbe interessare il mio film?
C’è un aneddoto di di Curzio Maltese su Tyler Barnum che amo particolarmente:
Una volta, un giornalista chiese all’inventore del circo moderno di definire la chiave del suo successo. Barnum lo portò alla finestra del proprio studio e poi disse: “Quante persone ci sono in questa strada, un centinaio? Quante sono le persone intelligenti? Sette, otto? Bene, io lavoro per le altre novantadue”.
A pensare di filmarla ne verrebbe fuori una gag strepitosa; ma non certo un film.
L’uomo senza gravità.
Il film si apre con la venuta al mondo del fanciullo volante, nato misteriosamente libero dalla forza di gravità.
La scena è notevole, suggestiva e incuriosisce.
Così si segue con una certa attenzione tutta la prima parte del film, dove scopriamo chi sia il protagonista, quale sia il contesto in cui vive, i volti della mamma e della nonna e quale sia il suo obiettivo:
la libertà.
Tutto chiaro, pure troppo e fin sa subito.
Il film getta immediatamente la maschera e lascia intendere ciò che sarà, una sorta di moraleggiante apologia del pauperismo che, sequenza dopo sequenza, si fa sempre più goffa.
La narrazione procede attraverso eventi del tutto forzati e apparentemente primi di ogni logica, seppure all’interno di una fiaba che guarda al realismo magico.
Così accade che la mamma, fino a quel momento carceriera del ragazzo volatile insieme alla nonna, pensi bene di lasciarlo al di fuori della bottega del macellaro, mentre lei sceglie tra una lombata di manzo e un carrè di maiale.
Risultato? Il bambino si defila, conosce la bambina che nella parte finale del film ritroverà (quale colpo di scena più prevedibile dello affondamento del Titanic in Titanic) e in più le mostra il proprio super potere; frase che, detta così, suona pure un po’ ambigua.
Personalmente parlerei di mito più che di fiaba. Definiamolo.
Il mito è da intendersi quale motivo ideale o trasfigurazione della fantasia.
E nel film mi pare ci siano tutti i più classici, quello della donna angelicata dello stilnovismo, il mito della purezza nei lirici del Cinquecento, quello rousseauiano del «buon selvaggio», il mito del «fanciullino» nel Pascoli fino al mito del superuomo (di D’Annunzio). (Fonte: Treccani)
La storia è di quelle semplici, ma questo non sarebbe un difetto, se non fosse che l’autore pare voler ammiccare al pubblico più o meno in ogni scena.
Ed ecco la tenera scena d’amore tra due bambini, ed ora l’amorevole rapporto madre figlio, ed ecco i simpatici anziani con sottofondo di musica fuori contesto, ma anche il buffo adulto eterno bambino con lo zainetto etc. etc.
Quasi le provasse tutte, quasi avesse pensato: “Tra tutte queste, ci dovrà pur essere qualcosa che vi intenerisce!”.
No, a me personalmente no.
Anzi, ho trovato irritante il continuo deporre le armi, tenere un profilo basso, dare al film quello sguardo da cane bastonato che rende impossibile qualsivoglia reazione diversa da una benevola e conciliante carezza.
Inoltre sorprende l’ingenuità della critica mossa al mondo dello spettacolo, a quello dei mass media e alla società in generale: un’invettiva peraltro molle, anacronistica e priva di qualsiasi argomentazione nuova.
Del resto, da tempo è venuta a noia a tutti il dualismo tra ricco corrotto e povero puro di spirito, irreale assai più di una fiaba.
Mentre l’artista che ripudia le lusinghe e i compromessi del mercato, altro non può aspettarsi se non l’esilio; che dovrà affrontare con fierezza e disciplina ferrea.
Il film l’ho visto in quanto costretto a casa; l’ho scelto sfogliando un vasto catalogo nato per soddisfare ogni mia esigenza, dopo avermi profilato in base alle visioni precedenti.
Ecco, appunto. Nessuna sorpresa, nessuna scoperta, solo un desiderio di venire incontro ai miei gusti affinché io torni a scegliere ancora e ancora e ancora. E se io avessi pessimi gusti? Sarei condannato a non averne mai di più raffinati, mi verrebbe negata la possibilità di cambiare idea.
Ma io mi domando, quando è che i film si sono trasformati in prodotti in vendita sugli scaffali dei nuovi supermarket del nostro immaginario?
Possibile che non si riesca più ad andare oltre il desiderio di soddisfare il proprio pubblico di riferimento?
È chiaro che se un film nasce per un certo tipo di piattaforma, difficilmente potrà godere della libertà di urtare la suscettibilità degli abbonati.
“Il cinematografo talvolta è arte, ma è sempre industria”, diceva Mario Soldati.
Il buon Bonfanti, in un’intervista, dichiara di aver rinunciato a movimenti di macchina o scelte registiche troppo sofisticate, in quanto per nulla interessato a mettersi in mostra dal punto di vista tecnico.
Ma cosa vorrebbe dire questo?
Che forse i movimenti di macchina o le scelte di regia più ardite siano solo un pavoneggiarsi senza alcuno scopo?
In un mondo ideale sono molte le possibilità che il vocabolario del cinema offre ai registi per dire qualcosa, sottolineare un passaggio spaziale, temporale o psicologico. Certo questo potrebbe far storcere il naso ad un certo tipo di spettatore, poco paziente verso chi non abbia altro desiderio che venerarlo.
Ma a furia di voler semplificare tutto si finisce inesorabilmente col banalizzare ogni cosa.
E infatti Il film, dopo la prima parte, perde ogni fascinazione, visivamente e a livello narrativo. Ciò che accade diventa prevedibile, con alcuni elementi messi lì nella speranza di creare un certo scalpore a buon mercato.
Come ad esempio Agata, la bambina, che da adulta scopriamo essere diventata una prostituta. Ma il tutto appare talmente gratuito che non farebbe arrossire nemmeno la più pudica delle educande.
Non basta richiamarsi al realismo magico per riuscire a creare una certa misteriosa fascinazione. E l’espediente del ragazzino/ragazzone che vola dappertutto già dopo poche sequenza appare forzatamente reiterato per mettere delle toppe all’impianto narrativo, in verità assai povero.
Il finale è buffo, del tutto fuori contesto rispetto a tutta la seconda parte del film, nella quale si cerca di creare una sorta di cupezza volta a rappresentare lo stato d’animo del giovanotto anti-gravitazionale. I cambiamenti psicologici dei personaggi vengono liquidati con una battuta, un’inquadratura, oppure affidati ad una notizia data alla televisione.
Ma dico io, non sarebbe stato più magico un finale nel quale Agata, novella prostituta, scopre pure ella di avere un super potere: la sua vagina. Nella Milano di fine anni ’80 scopre così che la sua vulva ha il potere di riconoscere ed inghiottire chi, tra i suoi clienti, ha ricevuto o pagato tangenti. Una sorta di socialismo magico.
Mi si dirà che Netflix mai avrebbe prodotto un siffatto film.
Tanto meglio! I soldi non danno la felicità. La felicità sta nelle piccole cose e nel dare forma ai propri sogni più intimi, senza compromessi e accettandone le conseguenze.
Oppure ho capito male il messaggio del film? •
Michele Salvezza
L’UOMO SENZA GRAVITÀ
Regia: Marco Bonfanti • Soggetto: Marco Bonfanti, Fabrizio Bozzetti • Sceneggiatura: Marco Bonfanti, Giulio Carrieri • Fotografia: Michele D’Attanasio • Montaggio: Giogiò Franchini, Sarah McTeigue • Musiche: Danilo Caposeno • Scenografie: Tonino Zera • Costumi: Fiorenza Cipollone • Trucco: Lorenzo Tamburini • Effetti speciali: Digital District, Effetti Digitali Italiani, Vitality Visual Effects • Casting: Daniela Appolloni, Monica De Feudis • Produttori: Anna Godano, Isabella Spinelli • Coproduttori: David Claikens, Caroline Houben, Olivier Rausin, Alex Verbaere • Produttore esecutivo: Giorgio Magliulo • Interpreti principali: Elio Germano (Oscar), Michela Cescon (Natalia), Elena Cotta (Alina), Silvia D’Amico (Agata), Vincent Scarito (David), Pietro Pescara (Oscar bambino), Jennifer Brokshi (Agata bambina), Andrea Pennacchi (Andrea), Cristina Donadio (Lucy) • Produzione: Isaria Productions, Zagora, Climax Films, MACT Productions con il supporto di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT), IDM Südtirol – Alto Adige Film Fund, Regione Lazio • Distribuzione: Fandango, Netflix • Rapporto: 2.35:1 • Camera: Arri Alexa Mini – Leica Summicron-C Lenses (A Camera), Arri Alexa XT Plus – Leica Summicron-C & Angenieux Optimo Lenses (B Camera) • Negativo: CFast 2.0, Codex • Processo fotografico: Cinematographic Process ARRIRAW 2.8K (source), Digital Intermediate 2K (master) • Paese: Italia, Belgio • Anno: 2019 • Durata: 107′
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