Qualche film della 22ma edizione del Festival des cinémas différents et experimentaux de Paris con uno “zoom digitale” sul lavoro di Myriam Jacob-Allard

22ème édition du Festival des cinémas différents et expérimentaux de Paris
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Dev’esser quello che Dorfles definì con arguzia in un saggio (L’intervallo perduto) “horror pleni” così elegantemente filmato nell’ormai lontano Piano Pi_no ad aver condotto Ignazio Fabio Mazzola verso una poetica della rarefazione più estremista: risuona nell’orecchio il Sehr Bewegt weberniano della Sonata per violoncello e pianoforte che in 1′:45” par distillare in un barattolo sotto vuoto l’irraggiungibile “A lungo canta un uccello sul margine del bosco il tuo declino” trakliano. Con gusto d’un meridione proteso verso i frammenti d’una storia d’avanguardie da inventariare in un Baedeker delle scomparse, Mazzola fonde (è il caso di dirlo) un progetto di cancellata per la Facoltà di Bari firmato Capogrossi-Sacripanti-Castelli, abbandonato alla triste sorte del declino. Forse per questo la rarefazione temporale di S MMM è uno sfolgorio, un grido visivo di 30” che vorrebbe scottar la coscienza (“coscienza”: parola proibita nell’Alphaville godardiana, nell’Alphaville contemporanea): “Siamo saliti al sommo di torri / Da cui non si vedeva che la notte” (Gide, I nutrimenti terrestri). La coscienza ci conduce diritti a un’indolenza da I fannulloni nella valle fertile d’Albert Cossery, che sembra percorrere la visiva compostezza di Pistacchi, cortometraggio di 13′:45” di Luca Sorgato: quasi adagiato nell’immobilità di Mendicanti e imbroglioni lo sguardo stuporoso e inebetito dal profilo medievale d’un beckettiano mangiatore di pistacchi – forse consapevole dell’inutilità d’ogni agire – si congiunge alla voluntas d’un compulsatore di riviste alla ricerca d’una chiave di lettura del mondo: in realtà, mai mutato (se le parole non mutano di significato, tutto è stato detto, ci rammenta il calcolatore Alpha 60 di Godard); tutto dipendendo dalla prospettiva da cui si guardi, ci dice un altro personaggio di Pistacchi. Con una ricercata fotografia della stanchezza, questo film propone efficacemente l’antico tema dello scetticismo, in una deliberata lentezza dietro la quale ci pare faccia capolino il demone dell’ansia metafisica. Non sempre la compostezza formale, pur nella costruzione d’un gioco semplice e rigoroso come quello dell’oca sarà sufficiente a garantire – non tanto unità – quanto efficacia complessiva a un progetto filmico ambizioso: Maison Lorraine (en 9 cases) d’Ishrann Silgidjian, cortometraggio di 21′:20” pare infatti alla ricerca costante di coesione, ma il risultato è complessivamente quello d’un bozzettismo visivo ricercatissimo sebbene, per qualità anche solo fotografica, promettente. Vedremo gli sviluppi. Sviluppi che in The flame of the spent hour (8’) di Roger Deutsch pongono dubbi sul senso stesso dell’operazione mnemonica. Citando Pessoa (“Conserviamo, nel calore che ricordiamo, / la fiamma dell’ora trascorsa”) e operando col found footage, Deutsch costruisce una giostra di struggimento per la scomparsa, laddove una pagina bianca (quella che gli editori sempre temevano potesse giungere da Beckett) potrebbe essere l’ineluttabilità della scomparsa della memoria futura; o della dolorosa scomparsa dello stesso passato. Cancellazione o scrittura? Palinsesto o tabula rasa? L’idea d’una forma strutturale primordiale, rigore dell’asciuttezza illuminista, permea il cortometraggio d’Olivier Cheval – visivamente suggestivo, pellicola colorata da un cromatismo settecentista – Die Urpflanze (6′:40”). Senza Goethe, ma rievocando il fantasma del sommo: nella ricerca sperimentale c’è una sottile malvagità. Il gusto d’avvilir la natura, di farla cadere dalla sua grandezza; scoprire le sue meschinità e le sue vergogne. Dimostrare che l’amore è un ormone che Giulietta ha in comune con la foca; dimostrare che il cuore è una pompa idraulica (nella succitata Alphaville godardiana, le idee “sublimi” debbon fare spazio all’efficienza tecnica, oggi realizzatasi al sommo grado d’una iniezione collettiva tecnologica sedativa). Certo, il settecentista ama e ricerca la verità, ma la forma primigenia si scomporrà ineluttabilmente in meraviglie che forse sarà meglio non spiegare: o dinanzi alle quali lo stupirsi e basta, infantilmente, potrebbe costituire una soluzione all’angoscia dell’esserci. Ciò accade nel non perfetto film Durbaar (8′:50”) di Gautam Valluri, che ha però la forza di proporre la progressiva scoperta dell’arte partendo dal buio, in un crescendo quasi musicale di sontuosità coloristica. Oppure può accadere nella scoperta del corpo, al di là delle sue spiegazioni ormonali-meccaniche affette dal rigor mortis logico: ben rende l’idea Special dark glass somewhere (4′:35”) di Charlotte Clermont, che nella ricerca fin ossessiva della fisicità negata da una vetrificazione, verso la quale andiamo a livello societario sempre più rapidamente bon gré mal gré, fantastica sull’eros che può disvelarsi dal contatto dei gomiti. Grande scoperta, per chi scrive queste righe, dell’edizione di quest’anno, è però l’opera della canadese Myriam Jacob-Allard, talentuosa filmmaker che nella consapevolezza deleuziana (della quale abbiam parlato in corrispondenza: De la ritournelle di Deleuze-Guattari, dall’autrice letto mentre lavorava a questo film) realizza il gioiello Les quatre récits d’Alice (5′:45”). Lavoro permeato da sottile ironia visiva e verbale, proposto anche in forma d’installazione con libro dal titolo T’envoler, mette in scena – su d’uno schermo diviso verticalmente – la narrazione d’un vecchio racconto famigliare della nonna legato al terrore per i fortunali che potevano in un contesto rurale – con la loro forza indomabile – far volare via tutto. La stessa autrice, sul fondo verde, narra attraverso le parole della nonna (in un doppiaggio d’effetto surreale, preciso e straniante) ciò che il materiale found footage (trascelto con chirurgia fascinosa) suggerisce visivamente nell’altra metà, aderendo e insieme ri-significando il narrato; quasi un volo chagalliano. Partendo dal tema famigliare e patrio, indagato con un’attenzione profonda di prossimità a cominciare da primi film piuttosto caustici come Les princesses qui pissent (2008, 7′, con la collega Esther Splett) e Fleurs d’artifice (2009, 3′:30”, ancora con la sodale), attente riflessioni linguistiche sul lessico volgare ed esplicito proibito alle ragazze per bene, la Jacob-Allard lavora sempre più a fondo sulla figura femminile da lei incarnata, messa in relazione da un lato con un mondo patriarcale criticato con affettuoso umorismo, dall’altro con una serie di ruoli e azioni legati alla musica country del suo Québec. Così nei film Willie Lamothe: devenir et être le heros (2009, 6′:30”) e Soldat Lebrun: devenir et être le heros (2010, 3′:50” – 6′:50”) l’autrice-attrice-musicista personifica, come donna, due celebrità canore maschili: “eroi” della musica country ed eroi per la sua famiglia, appunto i popolari Willie Lamothe e Soldat Lebrun. Decostruendo, con la forma della ripetizione che “appartiene sempre all’ironia” (Deleuze, Differenza e ripetizione), il mito maschile dell’icona trasportandolo nella quotidianità, fino a far la spesa al supermercato. Nel cortometraggio presentato a quest’edizione del festival, la ricorsività del verde, sorta di Hintergrund o filo conduttore – riteniamo – della poetica visiva della filmmaker, simbolo delle vaste foreste dov’è nata, suggella un’opera che anzitutto lavora sul linguaggio, sulla memoria orale, sull’iterazione: in un contrappunto musica-parola-immagine dolce e satirico al tempo stesso. Ci riproponiamo di pubblicare una futura intervista in francese all’autrice.

Dario Agazzi

 

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