Mi chiamo Covid (Homemade docuseries). Una docuserie casalinga di Liliana Colombo

“Solo in me e in quel sole c’è tanta felicità, qui invece… gemiti, sofferenze, paura, e questa incertezza, questa precipitazione… Ecco che tornano a gridare qualcosa, e tutti sono corsi di nuovo indietro, chi sa dove, e anch’io correrò con loro, ed eccola, eccola, la morte.” (Tolstoj, Guerra e pace)

Non è stata molto vista. Al contrario. Eppure, a distanza d’un annetto circa dalla sua pubblicazione a puntate su YouTube, rivedere Mi chiamo Covid di Liliana Colombo se non è catartico – visto che nulla è finito ma anzi s’espande e ben poco “è andato bene” – almeno è anti-retorico. Mentre nella città-Covid-per-eccellenza di chi scrive queste righe – Bergamo – si dà il via a celebrazioni rigonfie di retorica. Mengoni, Dalla a squarciagola. Servono le canzoni per sedare disperazioni? Alberi alla Trucca: un “parco” ch’è la desolazione dell’estrema periferia. Dove sorge lo sbilenco Ospedale Papa Giovanni XXIII costruito su palude: una Baliverna. Non un diario della quarantena, questa docuserie. Come ne son pullulati lo scorso anno da registi-criceti in gabbia; spaventati. Tanto che anche questo lavoro è stato talora frainteso. O preso per l’ennesimo referto inutile e fracico sulla propria solitudine. Mi chiamo Covid è a suo modo rigoroso. Non parla affatto della vita quotidiana confinata. “Scabro” abbiam scritto nel saggio Il cinema d’Eusebio. E non ci pentiamo di questa definizione. Ruvide, aspre, le brevi puntate costruiscono un progressivo discorso che partendo dalla situazione pandemica ritorna su se stesso con alcuni interrogativi. Rigorosamente elaborate con materiale reperibile online (tecnica del found footage della quale la Colombo si serve ampiamente nei suoi lavori YouTube), le puntate si possono considerare collage trascelti col gusto della critica-satira sociale appena accennata. Tanto più forte, quindi. Per la sua essenzialità. Si parte con Milano, la cupola della Galleria Vittorio Emanuele, come l’incipit virtuosistico di Scusi, facciamo l’amore? di Vittorio Caprioli. Il virus è un quadratino che si stacca, pixel, elemento astratto che spezza le immagini. Firma colombiana, questa. Intervento – trattenuto, ma deciso – sul materiale citato. Spezza, con sinistro suono d’interferenza, le persone vagolanti al solicello della metropoli lombarda, gozzoviglianti per le strade con telefoni che scattano foto, in un’insensata gaiezza esistenziale. Fa ripensare alle sgangherate risate degli invisibili turisti-morti-viventi dell’Icemeltland Park, film della Colombo che ci pregiamo esser stati fra i primi a sostenere. E questa dei telefoni diviene la sottotraccia, l’ipotesi fornita dall’Autrice alla sua docuserie. Realizzata in una stanzetta londinese dell’East, fra rigagnoli e canali pieni d’immondizie (non a caso aveva girato Icemeltland Park). Se non proprio a costo zero, quasi. Si può far cinema anche senza danari. La tecnologia come veicolo di malattia. La polemica sul 5G, mai esplicitamente citato (sarebbe stata una caduta, ma non avviene mai): quasi presenza spettrale. Allorché in una delle puntate si segue l’armeggiare d’un operaio spaziale che pianta antenne. Favorendo il diffondersi dei contagi? L’ipotesi era stata fatta. Poi confutata. Ma di certo, i fili neri che avvolgono sinistri il Duomo e poi i tracciati tramviari, le case, ci parlano – visivamente – d’un serpeggiare senza freni. Tutto la morte avvolge. I canti coi tamburelli, biascicati dai balconi. Le allegrie di casalinghi naufragi. Le stremate persone, incapaci di pensiero tanto prima quanto dopo il sorgere della pandemia, affette da svaporamento mentale, che deambulano coi piumini e rispondono incazzate ai militari, intimanti loro di starsene a casa. Tutto avvolge la morte. Fino al corteo di bare che sfilano dal cimitero monumentale di Bergamo. Con lugubre sottofondo sonoro che rimanda per associazione alla prima versione di Feeling just wonderful all over, un corto ipnotico dell’Autrice di diversi anni addietro, poi epurato del sinistro sound. E si ritorna daccapo. La Galleria di Milano dalla cui cupola giunse il virus-quadratino. Le persone tornano sui propri passi. Camminano all’indietro: effetto schernitore. Marionette di René Clair. Ironia solo accennata. Si può tornare sui propri passi e redimere gli errori? Il sogno è sempre possibile. Come l’umorismo. Presente persino in un lavoro pensoso e sottile come questo: docuserie “fatta in casa”. Finesse: dove mai avrebbe potuto – a ben vedere – esser realizzata?

Dario Agazzi

 

 

 

 

 

 

 

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LILIANA COLOMBO, UN’INTERVISTA (23.08.2019)
LILIANA COLOMBO / CANALE YOUTUBE



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