La grazia stupefacente di Lady Soul. Amazing Grace

Il passaggio, il transito, la trasformazione, la fusione e la divisione caratterizzano la cultura nera. La Aretha Franklin di Amazing Grace (1972-2018) si pone in between, tra la fama raggiunta e le sconosciute origini gospel. La stella del rhythm’n’blues incontra la cantante formatasi in chiesa e la New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles, ideale luogo di partenza, viene trasfigurato in un ideale palcoscenico d’arrivo, spazio incantato di una prodigiosa auto-anamnesi, la zona sacra (e anche profana) dove il due si fa uno e l’uno il due, secondo quanto delineato dai grandi teorici della blackness (W.E.B. Du Bois, Amiri Baraka, Richard Wright, Huey P. Newton, Fred Hampton, Ishmael Reed, l’intero popolo del blues e quello del jazz).

Un concerto in due serate, il 13 e il 14 gennaio 1972, giovedì e venerdì, un giorno maschile l’altro femminile, consacrati al Dio e alla Dea, e un numero pari e l’altro dispari, dove il 3-cielo sfuma nel 4-terra, perché l’anima si sposa con il corpo, la musica di Dio costeggia quella del Diavolo. Aretha è accompagnata, note o presenza, dalle sue figure centrali: il reverendo James Cleveland, che annuncia le serate e canta e suona con lei; il padre predicatore C. L.; Clara Ward, modello canoro di riferimento, presente tra gli ascoltatori e pronta a protendere le braccia al cielo. Il rito individuale diventa collettivo. Cleveland prega il pubblico di essere «part of this session», «part of it». Una donna viene presa all’improvviso dallo Spirit, il trasporto emozionale e religioso, che la spinge verso le radiose promesse di Lady Soul al pianoforte (We’ll Never Grew Old), costringendo qualcuno a fermarla. Altri piangono, gioiscono, si disperano. Sentono l’emozione e il timor di Dio amico, la concretezza astratta delle cose. Il coro risponde con tutto il corpo e gesticola, ammicca, indica, vede, vive. I canti classici parlano di ritorno a casa, è il lascito degli schiavi africani a prospettare, adesso, un nuovo mondo. Con la sua impressionante estensione vocale e la potenza irraggiungibile del canto, Aretha Franklin è travolgente, posseduta, sudata, e tuttavia anche fisicamente distante, impassibile. Persino, e incredibilmente, fredda. Controlla ogni cosa con assoluto rigore, si concentra decentrandosi. Razionale e in estasi, ispirata e «professionista».

Dopo l’introduzione dello sbalorditivo Southern California Community Choir (Our Way), diretto da Alexander Hamilton, ritmo fatto carne, la solista dispiega l’intima maestosità di Wholy Holy, inno sacro del profano Marvin Gaye, le cui canzoni interscambiavano religiosamente sesso e preghiere. Qui invita all’unione, alla comunione («We’ve got to come together»), alla fede e all’utopia («We should believe in each other’s dream»). Rivelazione e/è rivoluzione, all’epoca delle Black Panthers e di una nuova coscienza nera, mentre, al cinema, la blaxploitation centralizzava la figura degli afro-americani: «Because we need the strenght, the power and all of the feelings». Anche per questo si decise che il doppio concerto divenisse un film, prima di Wattstax (1972-4) (performance della scuderia Stax per i 7 anni dalle rivolte di Watts) o Soul Power (1974-2008) (il festival nero a Kinshasa per accompagnare l’incontro di boxe Ali-Foreman).

Le riprese «impreparate» di Sydney Pollack in un luogo piccolo e pieno, fatte di accensioni e sfocature, ascensioni e ricadute a terra, allargano e stringono, rincorrono il generale e il particolare, sono geometricamente frontali, poi sterzano in libere obliquità che rincorrono o disperdono le note, il calore, l’esperienza. A sprazzi irrompe lo split screen. Proprio nel molteplice si trova un’unità stilistica, in linea con la composita e scomposta carnale esperienza ascetica estetica condivisa. La tradizione è proiettata direttamente nel presente, il tradizionale Precious Lord, Take My Hand s’ innerva su You’ve Got a Friend di Carole King, brano recentissimo, come quello di Marvin Gaye (entrambi del 1971). C’è un accenno di My Sweet Lord (1970) di George Harrison, eseguita dalla band e appena sfiorata da James Cleveland. Tra il pubblico, spuntano Mick Jagger e Charlie Watts, parti del tutto. Erano anni di reale partecipazione e composesso, di vicende godute a pari titolo. Al concerto non c’è traccia di divismo, tutto è santo perché nulla lo è. Dio è “hic et nunc”. Amazing Grace esplode come la scheggia di un futuribile passato remoto, che oggi sembra provenire da un’altra galassia. “It was grace that brought me thus far”.

P.S. Sul territorio nazionale, il film è stato proiettato come «evento speciale» solo nei giorni 14, 15 e 16 giugno. Ha registrato un incasso di 161.175 euro determinato da 27.116 spettatori in 1.736 sale. Si può parlare di flop e spiace davvero. Tuttavia la scelta del distributore Adler Entertainment, che ha omesso di sottotitolare le canzoni del film, resta inqualificabile.

Leonardo Persia

 

 

AMAZING GRACE
Regia: Alan Elliott, Sydney Pollack (uncredited) • Montaggio: Jeff Buchanan • Art Direction: Mathieu Bitton • Produzione: Alan Elliot, Spike Lee, Angie Seegers, Joe Boyd, Aretha Franklin, Rob Johnson, Chiemi Karasawa, Sabrina V. Owens, Jerry Wexler, Tirrell D. Whittley, Joseph Woolf • Starring: Aretha Franklin, James Cleveland, Alexander Hamilton, The Southern California Community Choir • Produzione: Al’s Records & Tapes Production • Paese: USA • Anno: 2018 • Durata: 87′



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