The Slams > Jonathan Kaplan

The Slams (Slam! Colpo forte)
regia di Jonathan Kaplan (USA/1973)
recensione a cura di Leonardo Persia

Invisibile e dimenticato per un po’ persino negli States, ma fresco di rimasterizzazione digitale (un dvd Warner, per ora disponibile solo in America), Slam! Colpo forte (1973), con la superstar Jim Brown, è un film-test per rileggere in maniera non schematica e ovvia la Blaxploitation, genere ultra-cool e ultra bistrattato degli anni ’70. Pellicole d’azione a centralità e ossessione nere, anche se spesso dirette da bianchi, come in questo caso: Jonathan Kaplan, che farà il bis con l’Isaac “Shaft” Hayes di Truck Turner. Accusate di razzismo più o meno consapevole, sia nel delineare luoghi rovesciati (neri forti, bianchi scemi) o, in maniera più chic e choc, nel creare feticci black a forte caratura sessuale di idealismo comunque squilibrato (l’attrazione che vanifica e annulla l’altro, facendone un mero oggetto di proiezione, lontano dal vero).

The Slams (questo il titolo originale) va invece oltre la definizione circoscritta del bianco e del nero, sabotando il culto della particolarità etnica. Il plurale del titolo originale sembra indicare i vari livelli di significato della parola slam. E’ sicuramente il colpo forte del sottotitolo italiano, ma indica anche la prigione (il luogo deputato del plot), l’urto che in essa si scatena, la morte e l’insulto che vi si determinano, il sound vitale della colonna sonora (di Luther Henderson), la droga che il protagonista butta nel mare, la schiacciata vincente che si rivela il suo piano, la dinamicità e la coolness del suo personaggio. Tutti significati del termine, in slang oppure no.

Anche i titoli di testa, poeticamente, dinamitardano l’idea di simmetria, spezzettano l’azione in frammenti d’immagini su sfondo nero, finestre di movimento e produttività sparse che si contrappongono e si rispecchiano al riparo da qualsiasi incanalamento. Slam è infatti anche la poesia di strada, urbana e fuori dalle calligrafie accademiche, come sanno anche gli spettatori di un bel film omonimo di Marc Levin del 1998, con Saul Williams nelle vesti di un pusher slammer (quest’ultima parola nel duplice senso di carcerato e di versificatore orale, rapper). Nel gergo dell’hip hop, to slam è darci dentro, darci forte (con musica e parole).

All’inizio del film, l’identità razziale del protagonista è celata da maschera e tuta blu che lo confondono con i due soci bianchi, con i quali ruba alla mafia un milione e mezzo di dollari, oltre che una valigia di polvere bianca, per poi eliminarli (precedendoli nelle intenzioni). Uno dei due, non senza ragione razzistica, lo invita a togliersi “quella stupida maschera”.

Lo scontro è anche e soprattutto etico. Il nero non condivide il furto della droga, “è un pericolo per tutti i fratelli”. Curtis Hook, il protagonista, si pone oltre e al di là di distanze e legami, di padroni e dipendenze: nowhere. In una linea limite vitale che ne fa, pur ironicamente ingabbiato in un carcere (slammer) dove spetta la cella di isolamento a chi scambia il tesserino di identità, un fichissimo (slam) tiratore di colpi (slams) metaforici e poetici (slam). Uno statico eroe itinerante né bianco né nero. “Dovresti fregartene dei neri” dice a Glover, il cattivo bianco simbolo centrale della ristrettezza etnica preservata, della prepotenza e della violenza, eppure comandato e manipolato, privo di identità, pedina del capitalismo schiavista di cui il carcere è un riflesso-mondo.

Come osserverà lo stesso Hook, lo scontro tra lui e Macy (nero), l’altro carcerato leader, rientra in una strategia divide et impera, per rendere la vita facile a chi comanda. Gli assolutismi etnici del carcere rivelano la contropartita di una assoluta omologazione tra poliziotti, watch commanders, mafiosi potenti, agenti FBI, secondini e detenuti. Il capitano Stambell, come il potente mafioso Capiello (con lacché nero) oltrepassano la linea di demarcazione del ruolo e della razza per incanalarsi in un soffocante e preciso solipsismo dominato da violenza, autoritarietà e dipendenza, con qualche diretto riferimento a Nixon e al Watergate. La tanto sbandierata specificità razziale si sgretola nel momento in cui essa non appare più funzionale al gioco di dominio capitalista.

L’uncino-esca Hook è emarginato e contemporaneamente concupito (per via dei soldi che nasconde), delinquente morale (rifiuta armi e droghe), prigioniero inafferrabile, corpo muscolare che disprezza la forza fisica, maestro dell’identità fluttuante (nell’organizzare la fuga, anche identitaria, con un falso riconoscimento e un finto decesso), invisibile man (proprio nel senso datogli da Ralph Ellison nel suo capolavoro letterario) che tutti notano, perdente vincitore, povero ricco, musone super-ironico, macho gentile e monogamico, seduttore di donne attira-checche, stoico e risoluto, solitario network di flussi comportamentali (anche altrui). La sua destinazione finale non può che essere il utopico del mare, dell’isola aperta, del processo narrativo multiforme della diaspora.

Il finale sul mare apre un circuito diretto con l’immagine di Hook che butta nelle acque la droga e che sembra assurgere, da quel momento, a controcanto spirituale (la guida del furgone Sweetwater Petroleum). La seconda identità, che nasce a partire dall’ideazione del suo piano di fuga, parte da un incontro simbolico con il femminile (la fidanzata Iris) che farà da tramite con l’amico pappone Jackson. L’accesso di Iris al regno di quest’ultimo, dove abbandono i nudi femminili anche saffici, è preceduto dal racconto di un nero del quartiere, che rivela di aver scambiato un travestito per una donna, e dal benvenuto a Iris da parte di un gay. D’altronde anche nel carcere, le allusioni, ironiche, vere o strumentali, all’omosessualità sono una specie di leit motiv.

Quello che era, ed è, considerato un topos maschilista e omofobo del genere, è in realtà una concessione al mito dell’androgino, l’uomo/donna che, in molte cosmogonie africane, rappresenta simbolicamente il crossroad degli opposti. Sarà un caso, ma in gran parte delle pellicole african-american, la rivelazione, la scoperta, la risoluzione, il punto di svolta sono sempre preceduti da una figura sessualmente ambigua (fosse pure semplicemente un uomo travestito, per necessità, da donna). In Oscar Micheaux come in Melvin (e Mario) van Peebles, in Spencer Williams o in Spike Lee.

Leonardo Persia

 

 

The Slams (Slam! Colpo forte)
regia: Jonathan Kaplan
sceneggiatura: Richard DeLong Adams
fotografia: Andrew Davis
montaggio: Morton Tubor
musiche: Luther Henderson
suono: William B. Kaplan
art direction: Jack Fisk
stunts: Nate Long, Bob Minor
produttore: Gene Corman
interpreti: Jim Brown (Curtis Hook), Judy Pace (Iris Daniels), Roland Bob Harris (Captain Stambell), Paul Harris (Jackson Barney), Frank DeKova (Capiello), Ted Cassidy (Glover), Frenchia Guizon (Macey), John Dennis (Sergeant Flood), Jac Emel (Zack)
casa di produzione: Penelope Productions Inc.
paese: USA
anno: 1973
durata: 91′

 

 

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