Kvinnodröm (Sogni di donna) > Ingmar Bergman


Sogni di donna è strutturato a specchio. Le storie parallele di Susanne (Eva Dahlbek) e Doris (Harriet Andersson), titolare e dipendente di un’agenzia fotografica di moda, in viaggio verso Gothenburg, la prima rincorrendo, la seconda fuggendo, un uomo, si riflettono l’una con l’altra, sono la concretizzazione del viaggio/ritorno bergmaniano: contatto con la gioia/dolore, falso movimento il cui approdo è la situazione di partenza, più disillusioni ulteriori.

E’ un film femminile dove il sogno di donna, espressione metaforica di esistenza, sogno creatore di mondi (come in certe rappresentazioni cosmogoniche, dove il dio o la dea creano sognando), incrocia e ricomprende, divenendone soggetto passivo, la realtà dello sguardo maschile, come attestato sin dall’inizio del film. In cui la leggerezza, anche nel senso di futilità, del mondo della moda, una fotomodella in posa, l’apprensione meticolosa di sarto e sarta (sessualmente ambigui), il nervosismo graduale della direttrice artistica, viene vanificato e offeso da un cliente brut(t)o e ciccione che sul tavolo tamburella con le dita, incurante di tanta delicata idealità, ri-creazione, sia pure limitata, seducente e fragile, di un mondo di bellezza e incanto.

La foto di un primo piano di sensuali labbra femminili viene strappata, dopo che i titoli di testa ne hanno mostrato il placido e meticoloso venir alla luce tramite sviluppo e stampa. Sogno fatto a pezzi. Bergman rifugge però, al solito, ogni contrapposizione manichea. Non divide il (suo) mondo in nette categorie maschile (bruto) e femminile (sensibile). La sensibilità diventa spesso brutalità con altri mezzi. Proprio come la rappresentazione del male non occulta lo sguardo empatico, un interrogarsi critico, mai banalmente umanitario, sulle ragioni di tale scelta.

Durante uno degli straordinari momenti drammaturgici del film (contrapposti e correlati alle scene prive di dialoghi, silenzi «in situazione», come li definì Rohmer), Susanne, tra una tenerezza e l’altra, confessa al suo amante il desiderio di voler essere maga, una Medea che abbia il coraggio di uccidergli moglie e figli, tenendo l’uomo in un abbraccio esclusivo. La passionalità femminile è svelata nel suo controtipo di smania di possesso, razionalità folle affacciata sul vuoto, il falso. Ma contemporaneamente vi si lascia intuire, proprio come nella situazione iniziale, quanto tale atteggiamento, esplorato con virtuosistica competenza psicologica e strepitoso gusto per la sfumatura, sia determinato, diretto e condizionato dall’opposto maschile, la cui esplicita miseria non risulta solamente impietosa.

In una delle prime grandi sequenze bergmaniane di cupa visionarietà ottenute semplicemente per mezzo di dialoghi e regia, l’incontro del colonnello Otto (Gunnar Björnstrand) con la figlia (Kerstin Hedeby), quest’ultima viene rappresentata come una nevrotica anaffettiva e accecata dall’odio, un mostro di pretese esclusivamente materiali (percepita dalla madre, subito dopo il parto, come una creatura dalla testa di lupo). E tuttavia la ragazza accusa il padre di averla resa così, avendola condizionata con una patologica incapacità di amare, conseguenza di un’avarizia di tipo anale, che appartiene principalmente al genitore.

Sia vero o no, da quel momento l’uomo s’incupisce, rigettando umorismo e affabilità sino ad allora mostrati. La situazione è resa sinistra. Doris, testimone attonita, coinvolta prima dall’uomo in un gioco di seduzione infantile fatta di regali e promesse, viene invitata ad andar via dalla casa, accogliente e circondata da un giardino e piante rampicanti. L’immagine pensierosa dell’uomo alla finestra, come vista da lei da fuori e ravvicinata da uno zoom hitchcockiano, ammorba il tono del film, lo precipita in un abisso di orrore.

Doris si volta a guardare quello che un attimo prima era stato un simpatico benefattore, con il medesimo tubamento mostrato all’ingresso di un tunnel degli orrori di un luna park, davanti al fantoccio capostazione che con uno scampanio ossessivo aveva scandito le rapide immagini rimbalzate dalla galleria allo spettatore. Montaggio ritmico di primi piani di scimmia, serpente, lupo, teschio, ragno. Segni di ferinità umana. Di morte. Di trascendenza horror (la ragnatela dell’elucubrare esistenziale, l’immagine di un dio/morte tessitore, come lo si ritroverà nelle visioni di Karin, sempre la Andersson, di Come in uno specchio, distrutta dal silenzio d’amore del padre, sempre Björnstrand).

Ancor prima, Otto si era presentato alla ragazza come un mago, non certo un vampiro, come avrebbe potuto credere lei, la cui più grande preoccupazione, fino ad allora, era stato il banale litigio col fidanzato Palle, tradizionalista e terra terra, che proprio per questo lei aveva sfidato, andando a Gothenburg con la sua datrice di lavoro, attiva amante passiva di un uomo sposato fragile quanto vigliacco. Emerso da uno specchio nello stesso modo delle altre figure diaboliche bergmaniane (per esempio, l’amico del protagonista di Verso la gioia), l’uomo l’aveva presentata agli altri come nipote, immessa in una delicata ragnatela di corruzione a base di abiti firmati, gioielli costosi, invito a desideri materiali. Complicità di venditori decrepiti: un’anziana negoziante di abiti alla moda; un gioielliere zoppo seduttivo, nei confronti della ragazza, mediante il feticcio di una collana di perle. Un uomo, vien detto, che trent’anni prima, giocava a scacchi con Otto. Proprio come la Morte dell’imminente Il settimo sigillo. Il nome Barse, colui che vive in alto, conferma il nesso tra dio terribile, demonio (zoppo) che governa il mondo (come in Prigione) e le creature fatte a sua somiglianza. La collana che mostra alla ragazza assume il valore di una molteplicità (l’umanità) dipendente da un potere superiore.

La casa di Otto aveva il solito sapore del luogo bergmaniano un po’ artefatto, un po’ luogo della memoria e del tempo perduto, dove si accumulano oggetti, simulacri, rappresentazioni, ricordi e ci si spalanca verso una dimensione altra dell’esistenza e della stessa messa in scena filmica. La scena in cui, a ritmo di jazz e senza dialogo, Otto e Doris improvvisano una sorta di pantomima, ricorda assai da vicino i momenti di sospensione dal tempo, e di irruzione trascendentale dello spettacolo, già vissuto dalle coppie di Prigione (con la proiezione di una comica muta) e di Un’estate d’amore (il disegno che si anima sulla copertina del disco).

Lubricità e impotenza, sogno luccicante e bacio mortale, passività amorosa che contemporaneamente si definisce come gesto attivo e risoluto, determinazione e forza. L’idea di riflesso speculare che sorregge il film fa sì che per intero esso sia immesso tra il chiuso e l’aperto, l’ideale e il reale, il vero e il falso, il corpo e lo spirito, il maschile e il femminile, il chiaro e lo scuro, la gioia e il dolore, il mobile e lo statico, il giovane e il vecchio, sovrapponendo non alternando i livelli. Lo stile aderisce perfettamente alle dicotomie contenutistiche. La fotografia di Hilding Bladh tratta il buio con fenomenale intensità, rivelandone l’illuminazione epifanica, il contatto con le cose, la fisicità dei sensi. Alla luce è invece riservata tutta la gioia brutale dell’esistenza, il suo malcelato sottofondo oscuro. Anche la partitura dialogica di fitta scrittura si accompagna a stupende immagini mute: arcaismi reinventati e trasformati in modernità stilistica che mescola, con sorprendente omogeneità, la macchina fissa e quella vorticosa, la sequenza breve e quella trattenuta.

Com’è proprio del vero cinema, l’impianto di base si cristallizza in ogni sequenza, ogni singolo momento diventa una variazione sul tema. Dissolvenze incrociate di Susanne pensierosa col binario visto in soggettiva del treno, che irrompe sullo schermo improvviso subito dopo che Doris, vedendo la foto di Palle, esclama irata: «E’ quello l’uomo che dovrei sposare?». La macchina da presa si avvicina al volto di Susanne, assorta nei propri pensieri e come turbata dai rumori del treno su cui viaggia. Il montaggio alterna le scritte sulla porta del treno e il volto di lei, ancora più ravvicinato. Stangdt (chiuso) e öppen (aperto), in mezzo a varning (attenzione). E’ la riproposizione dello stesso dilemma alla base del completamento quaternario di Donne in attesa e di tanti altri personaggi bergmaniani al bivio, subito dopo una tragedia sfiorata o semplicemente evocata. Muoversi (se non fuggire) rischiando, oppure chiudersi in una immobilità atarassica.

Fuga, movimento, partenza e (persino) ritorno si può dire allora che combacino. Il finale, con Susanne tornata a casa e al lavoro, identica situazione di partenza del film, ripropone la sigaretta accesa e lo sguardo in macchina che già furono della protagonista di Monica e il desiderio. Come quell’altro grande, opposto e sovrapposto personaggio femminile, Susanne ha deciso di chiudere la propria storia d’amore, laddove Doris l’ha invece riavviata. Diventa, una volta di più, il segno non netto ma preciso del battito di un cuore pulsante, solo apparentemente una sconfitta. E’ l’immagine che interroga lo spettatore e la propria esistenza. Uno smarrimento umano che è vita.

Leonardo Persia

Kvinnodröm
(“Sogni di donna”, Svezia (1955)
Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman
Musiche: Stuart Görling (non accreditato)
Fotografia: Hilding Bladh
Montaggio: Carl-Olov Skeppstedt
Scenografie: Gittan Gustafsson
Interpreti principali: Eva Dahlbeck (Susanne), Harriet Andersson (Doris), Gunnar Björnstrand (Otto Sönderby), Ulf Palme (Henrik Lobelius), Inga Landgré (Signora Lobelius), Benkt-Åke Benktsson (Signor Magnus), Sven Lindberg (Palle Palt), Kerstin Hedeby (Marianne)
87′

 

speciale INGMAR BERGMAN

 



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