Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte d’estate) > Ingmar Bergman


Un quadro-cammeo di Cupido incastonato nei titoli di testa pone la continuità con la precedente commedia bergmaniana, chiusa sull’immagine del dio bambino che suggellava la riconciliazione di una coppia in crisi. Anche questa è una lezione d’amore, dove l’immagine del sentimento amoroso si estende con grazia cinica, di stile settecentesco, all’intero concetto di esistenza: caotica, capricciosa, imprevedibile, seria e faceta. Il titolo, Sorrisi di una notte d’estate, esplicita anche un diretto riferimento alla commedia elisabettiana, ai suoi incroci di humour e dramma, epoche storiche, commedia e tragedia, al tripudio di opposti complementari concettuali cari a Bergman. Lo Shakespeare di A Midsummer Night’s Dream mette al centro della scena, come qui, tre diverse ma intrecciate storie d’amore, presiedute da una quarta. Il quattro in Bergman, lo si è visto, è l’elemento indeterminato di definizione e chiusura. Sancisce un’ipotesi, una contraddizione, una contrapposizione.

Le coppie ufficiali del film sono quella dell’avvocato Frederik Egerman (Gunnar Björnstrand) sposato con la giovanissima Anne (Ulla Jacobsson); del conte e della contessa Malcom, Charlotte (Margit Calqvist) e Carl Magnus (Jarl Krulle); della procace cameriera Petra (Harriet Andersson) scivolata tra le braccia del maggiordomo Frid (Ake Fridell). Quest’ultima è e non è una coppia ufficiale, in quanto viene ribadito più volte quanto la loro relazione sia effimera e contingente, legata a un bisogno e a una naturalità di sensi che poco hanno a che fare con il sentimento d’amore propriamente detto, impasto di corpo e anima (forse persino di calcolo sociale). Sentimento d’amore che però nel caso delle altre due coppie risulta altrettanto evanescente e fugace, squilibrato e incontrollabile.

Anne continua a restare vergine, nonostante i trascorsi libertini del marito, evidentemente bloccato nei confronti della sin troppo differente consorte (il tema della fanciulla in grado di tener testa, e sconfiggere, l’uomo navigato e demoniaco avrà sviluppo compiuto nei successivi La fontana della vergine e L’occhio del diavolo). Carl Magnus tradisce Charlotte con l’attrice Desirée Armefdt (Eva Dahlbeck), amata pure dall’avvocato Egerman all’epoca in cui era viva la prima moglie.

Dove gli uomini risultano infantili, narcisisti, egoisti e anche facilmente raggirabili, le donne sembrano assecondare e piegare le loro superiori doti di intelligenza e sensibilità allo sguardo meno lucido del sesso opposto. Charlotte trasforma in attrazione la repulsione che nutre nei confronti del marito maschilista e sbruffone. Lo ama in quanto lo odia, perversione diffusa del femminile. Desirée, allo stesso modo di altre eroine bergmaniane, finisce per trasformare l’impossibile trasporto per Fredrik in amore filiale. Ammette che il nome dell’uomo si adatta bene ad un bambino, chiarendo così la funzione, concreta e simbolica a un tempo, del figlio di entrambi (la cui esistenza viene inizialmente tenuta nascosta al padre). Segno di un eros sublimato in maternità, di un aggancio forzato a un sentimento fuggito.

La quarta coppia, l’elemento oscuro (o chiaro) che trascende l’ufficialità, prende forma dal figlio dell’avvocato, Henrik (Björn Bjelfvenstam), studente di teologia problematico, preso dalle tentazioni della carne. Stuzzicato dalle provocazioni di Petra, finirà per innamorarsi, in maniera idealistica e ribelle (edipica?), della moglie del padre. Con tanto di tipica fuga bergmaniana, via dalla pazza folla conformista e corrotta.

Oscillazioni tra risentimento e conservazione, veicolati attraverso sentimento, razionalità, istinto. L’amore comprende tutti e tre gli elementi, non è difficile però che a prevalere resti un solo aspetto. A teatro Desiré era stata chiara: «L’amore è un giocoliere con tre clave i cui nomi sono: cuore, parole, sesso. E’ molto facile giocare con le clave, ma è anche molto facile farne cadere una». La caduta sta per il sopravvento o l’esclusione di un elemento: amore parziale. Quello degli Egerman e dei Malcom è fatto di convenzioni sociali, apparenze. Parole.

Anche per questo la commedia si avvale di modelli classici e «parlati», settecenteschi e razionaleggianti. Maurivaux, Beaumarchais. Bergman rimodula il suo cinema a partire da un abito strutturale manieristico utilizzato come lettura critica di un’epoca, i ’50, contemporaneamente avanzata e rétro. Qualcuno, all’epoca, spinse i riferimenti, con qualche forzatura, persino verso Pirandello (le maschere, le apparenze) e Kafka (l’assurdo e il paradosso della condizione esistenziale).

Il dato ciarliero e cinico finisce per sterzare anche verso l’immoralità razionale di Choderlos de Laclos, in una variazione ancora più incrociata ma che si stempera in pochade per rendere più ameno e accettabile il brutale calcolo di fondo. Come ne Les liasons dangereuses, si assiste a una complicità tra congiunti e rivali ai fini dell’intrigo amoroso e sessuale.

Riguardo al blocco delle nozze non consumate, Frederik chiede consiglio a Desirée, offrendole come ricompensa (si tratta solo di una battuta) il giovane figlio. Quest’ultima, desiderosa di riacciuffare l’avvocato, prega l’anziana madre di organizzare una festa nella propria villa finalizzata allo scopo. Induce persino Charlotte a sedurre Frederik per suscitare la gelosia di Carl Magnus, facendo a un certo punto balenare il rischio che l’uomo resti davvero sedotto, e Charlotte se ne infatui sul serio. La situazione degenera in una parodia di duello tra l’avvocato e il conte, una sfida alla roulette russa, conclusa in quella sorta di grottesco imbevuto di frustrazione già rivelata in altri film (il finale del primo episodio di Donne in attesa, i numerosi momenti in cui un personaggio crede, o sogna, di aver ucciso la moglie).

Sotto il segno del magico e del fatato, invece, viene sospinto il gioco delle coppie e degli scambi, dopo che la madre di Desirée, convocati gli ospiti a tavola, offre a tutti un filtro d’amore. Corrispettivo, in Shakespeare, dell’incanto di Puck o del succo di fiore vermiglio di Cupido che Oberon spreme sugli occhi di Titania. «Un’antica leggenda dice che questo vino proviene da uve il cui succo sprizza come gocce di sangue su una candida pelle. Aggiunge inoltre che in ogni botte riempita di questo vino pregiato era versata una goccia di latte dal seno di una donna al suo primo puerperio e una goccia di seme di un vigoroso stallone. Questa mistura dona a questo vino un potere misterioso e seduttivo, e chiunque si accinga a berlo lo fa a suo rischio e pericolo per le eventuali conseguenze».

E’ durante il banchetto che finisce per emergere l’amore corrisposto di Henrik per la moglie del padre, come rigurgito di sensibilità rivolto alla generazione precedente: «Nemico, offensiva, strategia, mine. Ma parliamo di guerra o parliamo d’amore? Siamo venuti al mondo per amarci, credo». Un personale contributo bergmaniano all’epoca dei ribelli «senza» causa.

Alla concezione delle persone mature che «trattano spesso l’amore come se fosse una spedizione militare o un saggio ginnico» e alle loro complicità finalizzate, si contrapporranno quelle disinteressate e solidali tra le due coppie che, nella loro antitetica quanto complementare naturalità (l’una romanticamente disincantata e sessuale, l’altra passionale e idealizzata), suscitano la maggiore simpatia dell’autore, comunque indulgente e affettuoso anche nei confronti degli altri idillii. Henrik e Anne fuggiranno dalla «menzogna dei compromessi», in un altrove utopico amoroso ed esistenziale (lo stesso delle coppie giovani dei precedenti film «estivi»), grazie all’aiuto della coppia «occasionale» dei servitori.

Proprio a questi ultimi, sotto ogni punto di vista (sociale e sessuale) i più umili, spetta fare da coro alle vicende, illustrarne le dinamiche filosofiche, spiegando il significato dei tre sorrisi d’estate. Riservati, rispettivamente, «ai giovani innamorati che si aprono il cuore a vicenda», quelli «rari su questa terra», che «si potrebbero contare sulle dita» (Henrik e Anne); agli «incoscienti e sciocchi senza alcuna speranza» (essi stessi: «L’amore degli amanti ci è negato, non abbiamo questo dono»); a «coloro che sono tristi e scoraggiati , agli insonni e alle anime perse, a coloro che hanno paura e si sentono soli» (tutti gli altri).

E’ un intero microcosmo comportamentale, non solo amoroso. Una ronde di tipi psicologici a cui corrisponde la turnazione simbolica dei pupazzi di un orologio. Uno di essi, (in)aspettata epifania, è la morte. Da considerare, al solito, come elemento oscuro, di crisi, di negazione. E contemporaneamente di rovescio vitale. Il perno intorno al quale ruota un movimento fertile (destinato probabilmente al fallimento) e uno artefatto, morbosa costruzione psicologica, il consueto viaggio/ritorno dell’autore. In ragione del quale Friedrik torna da Desiré come Charlotte a Carl Magnus. Nessun dolore, nessuna passione. Rischio e (inevitabilmente?) tragedia appartengono a quelli «che l’amore ha sfiorati come un dono e una punizione».

Attraverso tale logica, esposta attraverso il rococò ossimorico o il vitalismo rinascimentale dei modelli teatrali utilizzati, Bergman riesce a rovesciare le categorie correnti e coerenti. Gli adulteri si rivelano i più tradizionalisti. I casti e gli innamorati, equiparati ai proletari sensuali, i più trasgressivi.

Leonardo Persia


Sommarnattens leende
(“Sorrisi di una notte d’estate”, Svezia, 1955)
Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman
Musiche: Erik Nordgren
Fotografia: Gunnar Fischer
Montaggio: Oscar Rosander
Scenografie: P.A. Lundgren
Costumi: Mago
Interpreti principali: Ulla Jacobsson (Anne Egerman), Eva Dahlbeck (Desiree Armfeldt), Harriet Andersson (Petra, la cameriera), Margit Carlqvist (contessa Charlotte Malcolm ), Gunnar Björnstrand (Fredrik Egerman), Jarl Kulle (conte Carl Magnus Malcolm)
108′

 

speciale INGMAR BERGMAN

 



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