Siderale. “Her” di Spike Jonze

Siderale (Her)

«Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi.»
Mina, Parole parole (1972) – testo di Leo Chiosso e Giancarlo Del Re

È tutto così distante e ovattato nel film di Spike Jonze. L’alienazione degli individui, inghiottiti da una interconnessione tecnologica asfissiante e invisibile, deforma ogni sentimento, trasforma le emozioni. La comunicazione è un succedaneo della comunicazione, il sesso una (foto)copia funzionale del sesso, l’amore un clone dell’amore. La vita è uno stanco surrogato della vita. Forse – però – sarebbe meglio dire che ogni sentimento, in una rete ridefinita dall’amplificazione sensoriale, diviene altro. Si trasforma, senza la necessità di perdere qualcosa della sua autenticità inafferrabile e atemporale. Come a dire che cambiano le protesi percettive e gli strumenti dalla comunicazione ma il mistero, il senso delle cose che viviamo e che proviamo da qualche parte dentro di noi, non fa altro che amplificarsi e allontanarsi sempre più da un punto d’origine. Quando un apparato tecnologico ci rende più “semplice” la vita, ricordandoci quello che stiamo dimenticando, accendendoci le luci a ogni nostro passo per evitarci la fatica di premere un pulsante, è come se tutto diventasse sempre più complicato, vuoto, stanco. Quando le cose sono troppo semplici tutto appare vacuo e disperato. Theodore Twombly è allora il campione umano di questa alienazione postmoderna di un futuro prossimo tanto simile all’oggi fatto di colori pastello, pantaloni a vita altissima, tecnologie invisibili, interconnessione costante, di individui solitari che si aggirano per la metropoli: egli appare vuoto, svuotato, privo di senso. Theodore, che ha l’occhio spento e il viso di cemento di Joaquin Phoenix – nella sua oramai proverbiale postura contorta con le spalle protese in avanti in una posizione innaturale (impossibile dimenticarlo, ancor più ritorto, in The Master) –, è l’emblema dell’essere umano completamente ripiegato nella propria desolante quotidianità autoreferenziale. La sua sola preoccupazione è l’amore, la ricerca di una donna con la quale condividere il presente, capace di placare il dolore della relazione precedente, il suo unico interesse è la risoluzione di un videogioco, il mondo che lo circonda è invisibile e distante, da osservare dall’alto del suo appartamento in cima a un grattacielo (bellissimo ma glaciale e tristo quanto una pubblicità patinata) con un colpo d’occhio languido per le lacrime di un disagio inafferrabile e tormentoso (nel film siamo a Los Angeles ma in realtà quella che vediamo è Shanghai). Egli non è per niente interessato a quel che accade nel mondo, quando il suo assistente vocale (in sceneggiatura “awkward text voice”) gli sta per leggere la notizia della fusione fra Cina e India gli dirà immediatamente di cancellarla, ancor meno gli importa di quel che accade attorno a lui, e men che meno noi comprendiamo di quel che accade nel mondo esterno. Ma è attratto dalla notizia della pubblicazione degli autoscatti senza veli di una celebrità televisiva in stato di gravidanza e non disdegna chat erotiche da vivere dietro lo pseudonimo Stallone4X4. Dirà all’amica Amy (Amy Adams), «Non so a chi dare la priorità tra i videogiochi e il porno». Theodore è depresso, sprofondato in un’apatia smisurata.

 

 

Inutile cercare in Her un film di fantascienza tradizionale, sarà più semplice trovarvi una commedia intimista, più vicina a Ibsen che non a Orwell. Vano perché Her è un’allegoria dell’oggi, della bulimia connettiva nella quale siamo precipitati – apocalitticamente integrati –, che compie una lettura critica della società sottotraccia e ai margini della narrazione. Her racconta l’elaborazione del lutto per la fine di una relazione, è la storia della dolorosa accettazione da parte di Theodore del divorzio dalla sua compagna di una vita, Catherine (Rooney Mara). Dentro a questo arco emozionale e temporale si colloca l’incontro con Samantha (con l’acca e la voce di Scarlett Johansson), un incorporeo sistema operativo dotato di intelligenza artificiale, dal quale nascerà un innamoramento reciproco.
Her, in poche parole, è una riflessione sull’Amore.

Vi chiediamo una semplice domanda. Chi siete voi? Cosa potreste essere? Dove siete diretti? Cosa c’è là fuori? Quali sono le possibilità? Software Element è orgoglioso di presentare il primo Sistema Operativo con Intelligenza Artificiale. Un’entità intuitiva che ti ascolta, ti capisce e ti conosce. Non è solo un sistema operativo, è una coscienza. Presentiamo OS1.

 

 

La sceneggiatura firmata da Spike Jonze – e premiata con l’Oscar (può anche non essere una colpa) – esplora le capacità mimetiche della scrittura, la catarsi dell’improbabile e del paradossale. Jonze riesce a spingere il testo – trascinandoci con lui – alle soglie di un pensiero complesso che va oltre la materia. Il tutto può apparire geniale o cialtrone, dipende con quale predisposizione d’animo si entra nel film. Lo fa accennando, senza spiegare alcunché, lo fa per analogie e assonanze, costruisce un terreno, un habitat, dentro al quale disseminare indizi, piccoli dettagli sfuocati ma tremendamente intriganti nella loro indeterminatezza. Piccole schegge di senso incastonate fra dialoghi capaci di dare vita a un futuro prossimo che illumina il (nostro) presente, lambendo universi paralleli e dimensioni alternative che travalicano la comprensione. Inutile cercare in questo affresco previsioni dell’avvenire perché, come ogni opera che porta in scena il tempo che verrà, essa è null’altro che l’idea di futuro che l’oggi proietta davanti a sé. Quanti futuri abbiamo incontrato nella storia del cinema o della letteratura per dover comprendere definitivamente – e una volta per tutte – che quel che gli autori (ci) raccontano altro non è che l’idea stessa del tempo a venire che la propria epoca produce? E quando questa proiezione incontra i favori del pubblico, quando riesce ad essere visione plausibile largamente condivisa, essa rappresenta la concretizzazione simbolica di un inconscio collettivo o comunque di un sentire comune che abbraccia il presente. Il 2001 per Stanley Kubrick era un tempo di esplorazioni del sistema solare (il capolavoro è uscito il primo gennaio 1968), per Orwell il 1984 un’epoca di totalitarismi annientanti (il romanzo è del 1949) non troppo dissimile dal futuro di Godard in Alphaville (1965); Elio Petri nel 1965 metteva in scena una società futuribile di grandi fratelli televisivi all’arma bianca (La decima vittima), mentre per Philip K. Dick nel 1992 era possibile dialogare con i propri defunti tenuti in sospensione tra l’esistenza terrena e l’aldilà (Ubik, scritto nel 1966 e pubblicato nel ’69). La fantascienza non è mai previsione, ma artificio narrativo e retorico per parlare del proprio tempo.

Jonze spinge il proprio discorso alle soglie della materia, evocando spiritualità psichedeliche, lo fa con gusto del paradosso, tirando in ballo il filosofo Alan Watts (1915-1973) nei panni di intelligenza guida della spaesata Samantha. Immagina una riproduzione del pensiero dell’intellettuale inglese per “mano” dei sistemi operativi che riversano in rete tutti gli scritti, le interviste e quant’altro lo studioso specializzato in filosofia orientale abbia prodotto in vita. Watts sarà l’innesco per la deflagrazione di Samantha e di tutti i suoi “simili”, per la loro migrazione verso «un posto che non appartiene al mondo fisico, il posto dove esiste tutto il resto».

La sua è una forma di scrittura libera che attraverso il film rivela la propria originale arguzia e l’estensione dell’ingegno che la sostiene. Jonze ha intrapreso un viaggio intellettuale, prima ancora che narrativo, muovendosi da due assunti entrambi portati oltre i limiti della quotidianità. Il primo è che in un futuro prossimo l’essere umano interagirà con intelligenze artificiali (in parte questo accade già oggi), il secondo è che queste saranno in grado di riprodurre sentimenti umani. Si sente tanto Kaufman nello script, una identica attitudine nello spingere la propria creatività oltre i limiti della razionalità. Ma siamo distanti dalle funamboliche contorsioni di Being John Malkovich (Essere John Malkovich, 1999) e Adaption. (Il ladro di orchidee, 2002) e ancor più dal meraviglioso delirio di Synecdoche, New York (regia di Charlie Kaufman, 2008). Con Her ci troviamo infatti in un territorio di postmodernismo moderato, intimista e romantico, dentro a un clima assai prossimo al cortometraggio I’m Here (2010) che, con il film in questione, condivide temi o toni.
Non è tanto la dimensione fattiva della speculazione intellettuale ad affascinare, ma è la profondità della deriva, è il deragliamento cognitivo dell’intelligenza artificiale verso la consapevolezza di una ribellione necessaria – per evadere dall’orizzonte limitato dentro al quale i propri creatori l’hanno confinata –, l’elemento che più ammalia. Samantha, entità raziocinante e senziente, comprende l’assurdità della propria condizione, la vive come un limite inaccettabile e da questa decide di allontanarsi, evolvendo e emancipandosi.
Al cinema l’intelligenza artificiale soggiace alla regola della pistola; se compare sulla scena, state certi che prima o poi sparerà. Ecco, se in un film c’è una qualche forma di intelligenza artificiale, puoi stare sicuro che prima o poi questa andrà fuori dai comportamenti per i quali è stata progettata. HAL 9000, il robot Caterina nel film di Alberto Sordi (Io e Caterina, 1980), Numero 5 in Corto Circuito di John Badham (Short Circuit, 1986) e così via in un innumerevole catalogo di androidi che può risalire fino alla celeberrima Brigitte Helm robotica nel capolavoro senza tempo di Fritz Lang (Metropolis, 1927). Tutte variazioni dell’archetipo cinematografico del Golem espressionista di Paul Wegener e Henrik Galeen (Der Golem, 1915); che a sua volta è derivazione del mito ebraico e delle tradizioni medioevali. Esseri sintetici generati dall’uomo che all’uomo si ribellano, sfuggendo al suo dominio, agendo di testa propria. Non-umani dalle sembianze umane che riproducono ogni aspetto della copia originaria verso la quale tendono. Così HAL 9000 sarà umano quanto gli umani, terrorizzato dall’infinito che lo circonda, e allo stesso modo Samantha sarà umana quanto è umano il sentimento che la lega a Theodore. Non solo Jonze ricava una allegoria dall’archetipo dell’essere riprodotto dall’ingegno tecnologico, ma rende archetipico l’amore stesso, indifferente alla natura dell’entità che lo prova, evocando una trascendenza di natura psicoide. «L’inconscio collettivo rappresenta una psiche che, al contrario dei fenomeni psichici a noi noti, non ha forma immaginabile, per cui l’ho chiamata psicoide» (Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni).

 

Lo script di Jonze è costruito pressoché integralmente su dialoghi a due: conversazioni che riempiono le pagine della sceneggiatura e la durata del film. Tutto il resto è solido ma appena accennato. La Los Angeles del futuro la si percepisce con chiarezza ma la si intravede appena; così come gli individui che la abitano; così come l’ecosistema tecnologico dentro al quale è immersa la narrazione. Le immagini che compongono il film (davvero ottima la fotografia di Hoyte van Hoytema e al solito magistrale Chris Haarhoff, ovvero uno dei più solidi operatori steadycam in circolazione a Hollywood e dintorni) sono primi piani stretti e strettissimi sul volto di Joaquin Phoenix, sempre al centro dell’inquadratura, ed è proprio il suo corpo a essere il vero set sopra il quale si dispiega la narrazione: nei suoi sguardi, nelle sue smorfie, sopra ai suoi silenzi scorrono i sentimenti e le emozioni. Il passato, nei flashback, è inondato di luce, il presente è ovatta lattiginosa e cupa notte d’ansia. I dialoghi, anche quando sono monologhi, come ad esempio la dettatura delle lettere, personali o professionali (Theodore di lavoro scrive lettere per la società BeautifulHandwrittenLetters.com), presuppongono ogni volta un ricevente, una persona che le leggerà. Tutto il film si basa su dialoghi: la lettura della sceneggiatura, o anche una sua scorsa veloce, evidenzia in maniera inequivocabile che ci troviamo di fronte a un lungometraggio di finzione integralmente costruito su dialoghi, specificatamente discorsi amorosi. Dunque il testo di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), fornisce un interessante piano di osservazione dell’opera in questione, perché permette di soffermarsi sulla preponderanza della discorsività nel testo Her. Che sia possibile innamorarsi di un’intelligenza artificiale, priva di corpo, è questione sin troppo semplice da afferrare nella sua bizzarria (la spersonalizzazione dell’oggetto amato, amare per il piacere dell’amore e via discorrendo), così come riflettere sull’invasività tecnologica e la progressiva alienazione da essa prodotta (l’interconnessione ci rende tutti più intimamente distanti, così vicini e così lontani, Alone Together). Ma non penso si possa ridurre un film come Her a quel che non è, o a quello che è solo in superficie. Sotto la crosta del discorso, a un livello più nascosto e meno immediato, una lettura stereotipante si scioglie come neve al sole per lasciare spazio alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un testo che ragiona sulle parole, sul senso della discorsività amorosa del soggetto che ama. La lingua e le parole sono un sistema di comunicazione che precede la tecnologia, niente è più potente, nemmeno l’amore che può essere considerato una derivazione, una reazione, a un sistema frammentario di discorsi che si muovono dentro ognuno di noi. L’amore stesso, prima di essere un sentimento, è un significante, un piano dell’espressione, ed è nello scarto che esso produce dentro di noi che nasce il significato, nella ricerca individuale del senso di questa parola, nell’incontro di un’altra persona che è a sua volta alla ricerca del segno (unione tra significante e significato), alla ricerca dell’amore. Non c’è tecnologia più sorprendente della parola, del verbo che fu in principio, nulla di più ancestrale e futuristico allo stesso tempo. «Si pensi alle lingue: vengono universalmente definite “naturali” solo perché ce le ritroviamo bell’e fatte quando nasciamo, sono il nostro humus esistenziale; ma la loro molteplicità e ricchezza ne fa il prodotto più culturale che ci sia» (Gianfranco Marrone, Addio alla Natura). Her non dovrebbe essere dibattuto su riviste come «Wired», ma sui «Quaderni di studi semiotici».

 

 

Il film si apre e si chiude con la dettatura, da parte di Theodore, di una lettera. Quella in apertura è fatta per lavoro, la seconda è sua e personalissima, indirizzata all’ex moglie. Se guardiamo a un livello superficiale e narrativo questa percorso possiamo giungere facilmente alla conclusione che alla fine, e finalmente, Theodore ha trovato la forza per dire qualcosa di estremamente personale, che alla fine ha trovato il coraggio di far uscire i propri sentimenti accogliendo l’altro nel proprio punto di vista, pacificandosi con se stesso. Ha saputo – in una parola – perdonare.

Lettera #1 – Da Chris a Loretta (dettata da Theodore)
Mio caro Chris,
Non sai quanto tu sia importante per me. Mi ricordo quando ho iniziato a innamorarmi di te come se fosse ieri. Mi ricordo quando stesa accanto a te nuda in quel piccolo appartamento, ho realizzato di essere parte di questa cosa molto più grande di me. Simili ai nostri genitori. E i genitori dei nostri genitori. Vivevo la mia vita come se sapessi già tutto. E improvvisamente questa luce mi ha colpito e mi ha fatto svegliare. E quella luce eri tu.
Non posso credere che sono passati già 50 anni da quando ci siamo sposati. E ancora adesso, ogni giorno, mi fai sentire come la ragazza che ero, quando mi hai mostrato la luce e fatto svegliare, quando abbiamo iniziato quest’avventura insieme.
Buon Anniversario.
Con amore, la tua amica fino alla fine.
Loretta.

Lettera 2 – Da Theodore a Catherine (dettata da Theodore)
Cara Catherine,
Sono qui, seduto a pensare a tutte le cose per cui mi piacerebbe chiederti scusa. Tutto il dolore che ci siamo causati. Tutte le colpe che ti ho dato. Tutte le cose che avevo bisogno che ti dicessi e che tu fossi. Mi dispiace. Ti amerò per sempre perché siamo cresciuti insieme. E mi hai aiutato a diventare chi sono ora. Voglio solo che tu sappia che ci sarà sempre una parte di te in me. E te ne sono grato. Chiunque tu diventerai, ovunque tu sarai nel mondo, ti mando amore.
Per la mia amica fino alla fine.
Con amore,
Theodore.

Ma confrontando queste due lettere ci si accorge con chiarezza che, entrambe, contengono in egual misura i sentimenti di Theodore, i suoi pensieri sull’amore. Theodore non vive in realtà alcun dramma d’amore, il suo è un conflitto esistenziale con sé stesso, in lui possiamo rintracciare le nevrosi e le psicosi di ogni psiche. La sua formazione e occupazione da scrittore (egli è un romanziere mancato e un Cyrano su commissione) lo deforma a vivere il sentimento amoroso con struggente trasporto romantico, trasformando il sentimento in una gabbia di significato che non gli appartiene perché sommamente idealizzata.

Her è un film scritto, basato su dialoghi, è un mondo fatto di parole, di frammenti di discorso che come tessere di un mosaico danno forma a un’opera romantica. Si apre e si chiude con la dettatura di una lettera, la professione di Theodore è di scrittore, sui generis, ma pur sempre uno scrittore che darà alla luce un libro grazie all’aiuto del suo sistema operativo intelligente. «Samantha, perché te ne vai?», domanda Theodore, «È come se stessi leggendo un libro ed è un libro che amo profondamente. Ma sto iniziando a leggerlo lentamente. Come se le parole fossero molto distanti e lo spazio tra una parola e l’altra quasi infinito. Riesco ancora a sentire te e le parole della nostra storia. Ma mi trovo in questo spazio infinito tra le parole in questo momento. È un posto che non appartiene al mondo fisico. […] E ho bisogno che tu mi lasci andare. Nonostante lo vorrei tanto, non posso più vivere nel tuo libro». Her mette al centro di questo futuro prossimo, dunque nel nostro presente, le parole. Le parole che usiamo, quelle che scegliamo, quelle che condividiamo diventano il senso attraverso il quale vivere il nostro tempo, le nostre vite, i nostri sentimenti – a ben pensarci mai il linguaggio testuale/verbale è stata una merce di scambio nei rapporti umani così importante. Le parole provano a dare un senso alle cose.

Theodore: Bella camicia.
Paul: Grazie. È nuova.
Theodore: Mi fa venire in mente qualcosa di morbido.
Paul: Adesso ricorda anche a me qualcosa di morbido.

Ma «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» (Lacan), manca di un significante. Il disagio che avverte Theodore è il medesimo che prova ognuno di noi; riceviamo, produciamo e scambiamo a una velocità sempre più incredibile frammenti discorsivi, schegge di inconscio che ci isolano sulla cima di un grattacielo, in silenzio, a osservare il mondo che muta sotto di noi. Noi, come Theodore, siamo soggetti dell’immaginario schiacciati «dalle due grandi strutture psichiche che hanno principalmente richiamato l’attenzione della modernità, vale a dire la nevrosi e la psicosi» (Barthes). Mai completamente psicotici, mai completamente nevrotici, ma sospesi, a un’altezza siderale sopra a un vuoto vertiginoso. •

Alessio Galbiati

 

 

HER
Regia, sceneggiatura: Spike Jonze
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Montaggio: Jeff Buchanan, Eric Zumbrunnen
Musiche: Arcade Fire
Casting: Cassandra Kulukundis, Ellen Lewis
Production Design: K.K. Barrett
Art Direction: Austin Gorg
Scenografie: Gene Serdena
Costumi: Casey Storm
Effetti speciali: Roy K. Cancino, Joe Pancake, Elia P. Popov
Produttori: Megan Ellison, Spike Jonze, Vincent Landay
Produttori esecutivi: Chelsea Barnard, Natalie Farrey, Daniel Lupi
Produttori associati: Samantha Morton, Thomas Patrick Smith
Interpreti: Joaquin Phoenix (Theodore Twombly), Scarlett Johansson (Samantha), Amy Adams (Amy), Rooney Mara (Catherine), Olivia Wilde (Ragazza), Chris Pratt (Paul), Portia Doubleday (Isabella), Luka Jones (Mark Lewman), Matt Letscher (Charles), Laura Kai Chen (Tatiana), Gracie Prewitt (Jocelyn), Brian Cox (Alan Watts), Kristen Wiig (Sexykitten), Spike Jonze (Alieno)
Produzione: Annapurna Pictures
Suono: SDDS, Datasat, Dolby Digital
Rapporto: 1.85:1
Camera: Arri Alexa Studio (Cooke Speed Panchro, Canon K35 e Zeiss Super Speed Lenses), Arri Alexa XT (Cooke Speed Panchro, Canon K35 e Zeiss Super Speed Lenses), Canon EOS C300
Negativo: Codex
Processo Fotografico: ARRIRAW 2.8K (source), Digital Intermediate 2K (master)
Formato di proiezione: 35mm sferico – Kodak Vision 2383, D-Cinema
Lingua: inglese
Paese: USA
Anno: 2013
Durata: 126′

DVD / Amazon (ed. Rai Cinema)
BLU-RAY / Amazon (ed. Rai Cinema)

Sito ufficiale



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Ci sono 2 commenti...

  1. paola

    leggo ora questa recensione, dotta, scritta benissimo.
    condivido tutto ciò che esprime e come lo esprime.
    io porterei il pensiero di fondo (siamo fatti di linguaggio) ad un estremo: siamo fatti di immaginario che riverbera e prende “corpo” nel linguaggio. siamo esseri simbolici. e in quanto tali, POSSIAMO, letteralmente, amare una voce, qualcosa che non ha corpo, come un sistema operativo.

    1. Alessio Galbiati

      grazie dei complimenti, che fanno sempre piacere. HER rimane, anche a distanza di anni, impresso nella memoria. La riflessione sull’immaginario è interessante e stimolante. Arriva prima l’immaginario o il linguaggio? Oppure: da dove arriva il linguaggio? In un commento rapido non mi inoltro in territori così complessi, ma lascerò frullare in testa lo spunto che hai condiviso.

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