La presente intervista è stata pubblicata in Rapporto Confidenziale numero 35, speciale Locarno 64 – p.104-107
Stefano Savona (Palermo, 1969). Nato a Palermo nel 1969, Stefano Savona studia archeologia e dal 1999 realizza installazioni video (tra cui “D-Day”, presentato nel 2005 al Centre Pompidou) e documentari quali “Primavera in Kurdistan” (2006), che ottiene Donatello, e “Piombo fuso” (2009), Premio speciale della giuria Cineasti del presente a Locarno. Nel 2011, insieme ad Alessia Porto ed Ester Paratore dirige “Palazzo delle Aquile”, vincitore del Grand Prix di Cinéma du Réel.
Stefano Savona, filmografia: 2011 Tahrir / 2011 Palazzo delle Aquile / 2010 Spezzacatene / 2009 Piombo fuso / 2008 Il tuffo della rondine / 2006 Primavera in Kurdistan / 2002 Un confine di specchi / 2001 Alfabe / 2000 Siciliatunisia (installazione) / 1999 Roshbash Badolato
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Videointervista
durata: 16’35" | formato: HD 1280×720 | lingua: italiano
www.vimeo.com/31323915
crediti /// Intervista a cura di: AG (Rapporto Confidenziale) / Realizzazione: Emanuele Dainotti con Stefano Scagliarini e Giulio Tonincelli / Post-produzione: Alessandro G. Capuzzi e Emanuele Dainotti / Produzione: Sette Secondi Circa (www.settesecondicirca.com) / Musica: Digital Primitives (Brano: “Bones”. Album: “Digital Primitives”) CC BY-NC-ND 3.0
Intervista a Stefano Savona
a cura di Alessio Galbiati
Alessio Galbiati: Parto anzitutto dai complimenti e dai ringraziamenti per aver realizzato questo documentario straordinario, che mi ha profondamente colpito, stampandosi indelebilmente nella mia memoria. Ci puoi raccontare com’è nato il progetto? Come hai appreso nel tuo quotidiano la notizia che in Egitto stava capitando quel che stava capitando?
Stefano Savona: Ero a casa mia a Parigi e stavo lavorando, insieme alla mia ragazza nonché montatrice (Penelope Bortoluzzi; NdR), alla fase di montaggio e color correcton di “Palazzo delle Aquile”, il mio precedente documentario. Le rivoluzioni non nascono come tali, la gente scende in piazza, la polizia contrattacca… abbiamo iniziato a seguire gli avvenimenti attraverso Al Jazeera ed il montaggio è stato messo da parte perché stavamo almeno dieci ore al giorno davanti al computer per capire quel che stava accadendo, ed il terzo giorno era già chiaro che stava succedendo qualcosa di inaudito.
Nella mia vita sono stato in Egitto tantissime volte, è uno dei paesi che mi è più caro perché proprio li ho deciso di fare il lavoro che faccio, la terra in cui ho preso la decisione di cambiare vita. Prima facevo l’egittologo, l’archeologo egiziano; l’Egitto non era un posto qualsiasi per me. Tutte le volte che avevo uno o due mesi liberi andavo in Egitto a leggere, a scrivere, ad immaginare nuovi lavori.
Fare un film sull’Egitto lo sognavo da dieci anni perché in quella terra non ero mai riuscito a girare niente, fare un film sulla rivoluzione lo sogno da sempre perché la cosa che mi interessa di più è raccontare i movimenti politici, raccontare i non professionisti della politica quando fanno politica.
Quindi era chiaro da subito che dovevo partire, però non c’era nessuna possibilità di farlo perché stavamo finendo un film, che è un momento talmente difficile… Ho detto a Penelope “io parto”, le mi ha detto “no, tu non puoi partire” … ma appena si è distratta un attimo ho fatto subito il biglietto aereo e l’indomani sono partito mentre lei è rimasta a casa, comprendendo che non avrei potuto fare altrimenti. Quindi lei ha finito “Palazzo delle Aquile”, ed io sono andato lì.
In realtà partivo non tanto e non soltanto per fare il film, non avevo la minima idea se sarei riuscito o meno ad arrivare in piazza Tahrir a filmare. Per cui ho portato con me un apparato di ripresa assolutamente minimale: una macchina fotografica molto piccola, per non dare nell’occhio, ed un registratore audio compatto. Le notizie di cui disponevo riferivano che all’aeroporto veniva sequestrato ogni strumento di ripresa professionale, quindi quando sono partito mi sono detto che al limite mi sarei “accontentato” di vedere quel che stava capitando, per me era importante esserci, ancor prima che filmare. Poi tutto è andato bene e quindi il film c’è stato.
Successivamente abbiamo trovato l’aiuto di RaiTre che ha subito detto sì ad una versione breve (una versione di poco meno di un’ora del documentario in questione è andato in onda il 22 giugno su RaiTre all’interno del programma DOC3 con il titolo “I ragazzi di Tahrir Square”; NdR), ma è stato tutto proprio… non si può nemmeno dire una produzione, sono partito con una macchina fotografica e la è nato il film.
AG: Dal punto di vista tecnico hai girato con un piccolo registratore ed una macchina fotografica. Volevo sapere quali sono i modelli che hai utilizzato? Anche per dare modo ai filmmaker che leggeranno quest’intervista di comprendere quali siano le possibilità tecniche di strumenti semi professionali capaci di dare vita ad un lavoro così convincente, come lo è il tuo, anche dal punto di vista della qualità del suono e dell’immagine. E poi, più in generale, vorrei sapere qual è la tua impressione sulle differenze di reazione delle persone con l’utilizzo di un equipaggiamento più piccolo rispetto a modalità produttive standard, se hai notato una maggiore facilità nel rapportarti con le persone, una maggiore facilità di entrare nelle cose?
SS: Assolutamente sì, l’ho notato immediatamente. Le riprese le ho effettuate con una Canon 5d, con la quale prima di quest’esperienza avevo solamente realizzato un lavoro, però su cavalletto, dunque un qualcosa di completamente diverso da tutto quello che avevo fatto fino a quest’esperienza. Era l’unica cosa che potevo portarmi in quel momento e che era sufficientemente piccola per non dare nell’occhio, però ovviamente i problemi della messa a fuoco che sorgono nell’utilizzare una macchina del genere (a mano) sono enormi, ma alla fine l’aspetto figurativo del film, assai più plastico rispetto ai miei lavoro precedenti, viene proprio dall’aver reso creativo quelli che sono i problemi della messa a fuoco, come ad esempio i limiti della profondità di campo che queste macchine comportano.
Per il suono ho utilizzato un registratore digitale, uno Zoom H4, che ho impiegato poggiandolo sulla macchina fotografica, attaccato alla slitta del flash in quasi tutte le situazioni, staccandolo per posizionarlo al centro dei dibattiti quando la gente parlava. In questo modo essendo molto buono di qualità e potendolo tenere vicino alle persone che parlano, produceva un effetto assai simile a quello di un radio microfono che permetteva, in una piazza che è rumorosissima, di sentire le parole degli intervistati, la voce delle persone mentre parlavano fra loro.
E poi naturalmente il fatto di essere così leggero era tutta un’altra cosa rispetto alle televisioni o ad una troupe che arriva pesante con due, tre, quattro persone con la telecamera, l’asta del microfono… è tutto un altro tipo di approccio. Perché sei autosufficiente, quando sei così totalmente leggero… ma pure in qualche modo imbarazzato, sprovvisto di maschere… e le persone in qualche modo ti devono adottare, devono decidere di farti entrare nel loro mondo, altrimenti rimani – comunque vadano le cose – un elemento estraneo a quel contesto. Io quasi da subito sono riuscito ad entrare nella loro vita, a condividere con loro quasi tutto quello che c’era da fare in piazza e poi, ogni tanto, tiravo fuori la mia telecamera e con una certa leggerezza riprendevo.
AG: Sei stato dieci giorni in piazza Tahrir?
SS: No, due settimane.
AG: Insomma, la domanda è scontata: com’era la situazione? Ma anche dal punto di vista delle piccole cose, come ci si organizzava per mangiare, per dormire…
SS: All’inizio dormivo là per terra con loro, poi piano piano tutta la piazza si è organizzata. All’inizio dormivo sul fango, poi per terra protetto da una tenda della doccia che avevo preso al mio albergo, perché durante la notte faceva un freddo impressionante. Dal terzo-quarto giorno sono arrivate delle coperte, poi delle tende un po’ di fortuna, e verso la fine delle tende vere e proprie. Ci si organizzava di giorno in giorno e il cibo lo portava chi veniva in piazza, quindi tutti nutrivano tutti, era una cosa molto strana però nessuno si è mai posto il problema. Si era creata una rete di solidarietà che portava il cibo in piazza, la dinamica era semplice e naturale: chiunque aveva modo di uscire tornava portando qualcosa da mangiare… per l’acqua era lo stesso. Era tutto abbastanza naturale, apparentemente non organizzato, però funzionava.
AG: Si può dire che la piazza funzionasse a tutti gli effetti come un piccolo villaggio; nel documentario si vede addirittura una tenda fornita di parabola satellitare.
SS: Sì sì, alla fine c’era addirittura una parabola, che non so da dove sia venuta fuori. All’inizio c’erano delle battaglie e quindi era tutto molto precario, poi a poco a poco, dopo la paura, sono arrivati anche altri, piano piano la piazza è diventata un qualcosa di simile ad un enorme mercato. Alla fine è arrivata tutta la società egiziana. Quando ho cominciato a vedere che in piazza Tahrir arrivavano anche bambini con i popcorn ho avuto la sensazione che qualcosa era definitivamente cambiato, che oramai era solo una questione di giorni ed il regime di Mubark sarebbe caduto definitivamente.
AG: Questo si percepiva?
SS: Assolutamente sì, si percepiva sempre di più, a poco a poco che cambiavano le facce, l’antropologia della gente in piazza, si vedano persone che fino a tre giorni prima sarebbero state paralizzate dalla paura, ma che invece erano lì a chiedere il cambiamento.
AG: Cosa ti ha guidato là in mezzo? Eri sicuro di realizzare questo lavoro già mentre eri lì? Ed all’interno della piazza cosa ti ha guidata? Cioè da cosa ti sei lasciato condurre? la tua emotività dentro al momento? oppure hai cercato di mantenere una visione, diciamo, più distaccata?
SS: Ho cercato di stare dentro e fuori contemporaneamente. Mantenere una visione clinica-analitica sarebbe stato impossibile, perché si sarebbe persa l’emotività delle persone, che era senz’ombra di dubbio l’aspetto più interessante di quel che stava succedendo. Ho cercato di non fingere di essere all’interno di quegli accadimenti, perché comunque ero un estraneo, però allo stesso tempo ho cercato di avvicinarmi il più possibile alle persone, seguirle, stare dietro al loro punto di vista per mostrare la loro, e la mia, emotività.
In fase di montaggio ho cercato il più possibile di lasciarmi andare, di liberarmi da certe remore formali e di prendermi tutto il piacere possibile di fare questo film, che è un film d’entusiasmo. Ho cercato proprio di farmi trasportare da questo entusiasmo e di evitare un rigore formale che magari ho avuto nei miei lavori precedenti, perché in questo caso sarebbe stato assolutamente fuori luogo. La rivoluzione è il posto in cui devi prendere dei rischi, non la puoi giudicare dall’esterno, sarebbe stato un punto di vista falso.
AG: Dunque pure tu, dal punto di vista stilistico, hai rischiato…
SS: Dal punto di vista stilistico/formale sicuramente, perché non avevo mai usato questa macchina fotografica, non mi ero mai avvicinato tanto ai personaggi che filmavo. Con la messa a fuoco, ad esempio, mi sono preso un grande rischio, è stata un’incognita che mi sono giocato solo in fase di montaggio, tutto è dipeso da quello. Ogni aspetto tecnico e formale è stato per me nuovo. Per certi versi pure il montaggio che in queste modalità non avevo mai affrontato, se ci fai caso nel film ci sono parecchi momenti in cui l’audio ed il video non sono in ‘synch’, ho lavorato su zone di sovrapposizione… non avevo mai affrontato un film con queste modalità.
Roberto Rippa: Sulla questione del montaggio: nel corso del film segui le persone e c’è un ragazzo che appare dall’inizio fino alla fine che inizialmente può sembrare un leader della rivolta ma poi capisci che è una persona come tutte le altre. È stata una tua scelta quella di seguire lui e per quale motivo l’hai fatto?
SS: A me interessavano i leader non leader. Tutti là erano dei leader, tutti erano persone che si ponevano i problemi che si deve porre un leader, un organizzatore, però poi di fatto nessuno lo era. Tutti cercavano di micro organizzare loro stessi ed il loro gruppo, alla ricerca delle modalità per dare una continuità alle cose che facevano e, secondo me, è più interessante mostrare questi protagonisti rispetto ai veri leader. Comunque in piazza un’organizzazione a livello superiore c’era, ma a mio avviso era meno interessante. L’importante è che i personaggi siano dei personaggi un po’ di mediazione. Anche nei miei precedenti film avevo deciso di seguire sempre questo tipo di personaggi che non sono, né veramente gli ultimi, cioè le persone che non si pongono i problemi e seguono, né i capi, ma quelli che stanno a metà strada e che si pongono i problemi come ce li porremmo noi al loro posto. Questo è stato per me un approccio naturale.
Anche nel film “Primavera in Kurdistan” (2006; NdR), seguivo il diario di un combattente che non è sicuramente un capo, ma un piccolo intellettuale. È un po’ il meccanismo dei piccoli maestri di Meneghello, in cui la resistenza è fatta da persone che hanno un loro patrimonio personale a volte molto complesso; in questo caso El-Sahied – il giovane ragazzo che ho seguito – è un giovane traduttore-poeta che viene dalla campagna, quindi fuori dagli stereotipi che ci si possono immaginare, ma pure sempre lì, in piazza, in prima linea. Lui l’ha fatta la rivoluzione, gli hanno sparato. Non si può dire che fingesse di essere un rivoluzionario, lo è stato, lo è, davvero.
RR: L’ho trovata una scelta molto particolare soprattutto quando legge la poesia sul finale…
SS: Questa poesia l’ha scritta lui… ad un certo punto arriva e la tira fuori. Mentre giravo ho visto che tirava fuori la poesia e gli ho chiesto che cosa fosse, ho visto che aveva un temperamento molto dolce, è una persona molto poetica nel suo modo di fare, però tutto mi sarei aspettato tranne che ad un certo punto, a metà della rivoluzione, tirasse fuori delle poesie e le leggesse.
AG: La musicalità della piazza e la musicalità del documentario. Com’era piazza Tahrir dal punto di vista sonoro? Un coro continuo?
SS: Assolutamente sì, erano cori che si davano da un lato e dall’altro. Piazza Tahrir è gigantesca, sarà venti volte la piazza Grande di Locarno, sarà lunga 600 metri da una parte all’altra. Solo piazza Tienanmen è forse più grande… C’erano vari focolai e ognuno aveva i suoi cori, camminando per la piazza si passava da un coro all’altro, ed i cori a volte camminavano perché seguivano le persone che li cantavano, portati a spalle dalla folla. Era un enorme gioco di improvvisazione. In Egitto durante i matrimoni ci sono questi artisti improvvisatori, questi poeti che prendono un po’ in giro lo sposo e la sposa; questo meccanismo di botta e risposta tra chi fa l’improvvisazione e chi risponde è tipico dei matrimoni in Egitto, ed è un qualcosa che ha sempre a che fare con lo sfotto’ e la presa in giro. In piazza aveva assunto delle forme estreme contro Mubarak, mantenendo però sempre una dimensione familiare, quasi come se si stesse prendendo in giro un vicino di casa.
AG: Questa era la componente principale della piazza?
SS: A mio avviso era la componente più forte, poi c’erano le frange più dure ed incazzate, ma questi erano decisamente più silenziosi. Però quello che dava proprio il senso della piazza era questo ritmo musicale, questo entusiasmo, che poi era anche un modo per scaricare la tensione, la rabbia.
AG: Ora vorrei farti una domanda un po’ più generale circa la componente di rischio che comporta la tua attività di documentarista da “prima linea”, da filmmaker che decide di precipitarsi in piazza Tahrir in un momento in cui ancora non si può sapere come andranno a finire le cose, di un regista che è stato a Gaza a cavallo dell’operazione militare israeliana piombo fuso. Ci puoi spiegare com’è vissuta dall’interno la componente del rischio?
SS: La componente del rischio non è una cosa che si ricerca, però è chiaro che queste situazioni sono estremamente interessanti da filmare e forse, il vero passaggio, è stato quando in Kurdistan mi sono reso conto di essere in grado di sopportare la paura. Il vero problema è la paura della paura. Cioè quando tu dici a te stesso “in quella situazione in cui sarò a rischio mi paralizzerò”, ed allora la paura è quella di non essere al livello del rischio, la paura che succeda qualcosa di terribile nel momento in cui sei sotto pressione. Invece la prima volta che ti succede di trovarti senza averlo pianificato in una situazione di rischio, capisci che ci si convive con la paura, anzi è un’adrenalina, una sensazione forte. Poi ad un certo punto ti dici “al massimo muoio”. Quando hai sopportato, di fatto, almeno una volta questo “al massimo muoio”, le volte successive non è che non ci pensi più, perché comunque non fare attenzione significa suicidarsi, e non è quello l’obiettivo, ma se fai un po’ di attenzione e ti trovi in situazioni del genere capisci che non sei da solo. Quando tu hai paura e sei circondato da un milione di persone ti domandi: “Perché proprio a me dovrebbe succedere”, “Chi sono io, il più stupido?”. Oppure quando sei fra i guerriglieri, in mezzo a migliaia di persone e vedi centinaia di combattenti ogni giorno, e sai che loro sono lì da anni e fanno da anni quella vita, ti dici “vabbè io cos’ho di meno di queste persone?!”. È un po’ il condividere con gli altri la paura ed il rischio, un po’ il capire che in quanto esseri umani fa parte del gioco, anzi, il fatto di essercene privati per tanto tempo, in qualche modo ci provoca un sostanziale indebolimento, paura per cose che non dovrebbero farcene, come il quotidiano.
AG: Con “Piombo fuso”, realizzato a Gaza nel 2009, ti sei trovato di fronte alla barbara operazione militare dell’esercito israeliano. Prima abbiamo parlato della paura, del rischio, ora vorrei sapere cosa significa trovarsi di fronte all’orrore, trovarsi di fronte ad immagini, alla realtà, quasi troppo forti per essere guardate. In questi casi cosa succede?
SS: Innanzitutto bisogna avercele di fronte. Quando capita ci sono due reazioni possibili, secondo me entrambe da evitare. Una è l’amore per l’orrore, il parossismo della visione, per cui vedi quelle cose e ti dici: “Ok le sopporto ed ora le mostro, quelle sono la notizia”, e l’altra viceversa è non sopportare completamente quella visione e girare la testa dall’altro lato e dire: “No, questa cosa non mi interessa”. Secondo me bisogna fare i conti con un approccio intermedio, se uno deve mostrare una guerra non può far finta che non ci sia l’orrore ma nello stesso tempo l’orrore è in tante altre cose. È molto più interessante parlare con i sopravvissuti piuttosto che mostrare i morti. Il fatto che i morti ci sono non è un qualcosa che si può eludere, ma bisogna in qualche modo mostrarli come li vedono i sopravvissuti, per far sì che questo sia inserito in una narrazione. Il vero problema di quando si mostra l’orrore, o qualsiasi altro dato reale, è che si deve trovare la strada di porlo all’interno di una narrazione.
AG: Per evitarne la spettacolarizzazione.
SS: Lo spettacolo fatto a pezzi dalla televisione. Frammenti di cose che in sé fanno lo spettacolo ma che non smuovono nulla, e lo dimostra il fatto che la tv ci mostra morti da trenta o quarant’anni e non è che questo abbia cambiato neanche la percezione del mondo. Mentre il racconto di una persona che ti narra la vita di chi è appena morto può smuoverti qualcosa. I morti alla fine sono tutti uguali. Quando sono morte le persone non sono più là, quindi quel che resta delle persone morte sono resti che alla fine sono tutti uguali, mentre il racconto di una vita è sicuramente molto più emozionante che un orrore fisico.
AG: Sempre a proposito di narrazione e spettacolarizzazione avrebbe potuto fare orrore un finale di vittoria per il tuo “Tahrir”, invece il tuo film ha una coda in cui una ragazza ancora in piazza pone la questione problematica di quel che sarà, cosa succederà poi, come gestire il dopo. E qui inevitabilmente c’è una tua valutazione, anche politica, sulla situazione egiziana. Tu come la vedi la situazione attuale?
SS: La situazione è esattamente dov’era quando quella ragazza diceva “non ce ne andiamo da qui perché non è ancora vinta”. Chiaramente quando Mubarak va via è una vittoria, ed è un primo momento in cui il popolo ottiene quello che ha chiesto e scopre di avere la forza di ottenere quello che chiedeva, però secondo me è ancora più ottimista il finale del film così com’è, perché fa vedere che questi ragazzi non si fanno fregare, che in qualche modo sono esattamente coscienti di quelli che sono i problemi ed i rischi, le possibili strade sbagliate in cui può andarsi a cacciare il movimento post rivoluzionario. I ragazzi sono ancora lì e dicono ai militare di non illudersi, perché loro non si faranno fregare.
Chiaramente a distanza di mesi il potere è ancora in mano ai militari, la transizione democratica in Egitto non è ancora un qualcosa di guadagnato, però nello stesso tempo queste persone sono ancora in piazza e non se ne andranno realmente finché non avranno ottenuto quello che per loro è l’obiettivo principale: una normale democrazia con delle elezioni.
AG: Come sarà possibile vedere il tuo documentario? Sia per quanto riguarda i festival che per l’annosa questione della distribuzione.
SS: Il film andrà al festival di Internazionale a settembre, che pur non essendo un festival cinematografico contiene una serie di visioni documentarie, poi, a partire da quel momento, farà un tour in dieci fra le più importanti città italiane. Poi l’idea è di trovare una distribuzione in sala per riuscire a mostrare il film il più possibile. Credo che, almeno per una volta, visto che non l’ho mai fatto, valga realmente la pena tentare, perché è difficilissimo trovare una distribuzione in sala, più che altro starci dietro. Penso che ne valga la pena proprio per le caratteristiche stesse del film, che non è un film che possa essere venduto alla televisione. La versione televisiva può essere anche interessante, ma su di un grande schermo penso che il film possa funzionare ancora meglio, possa dare qualcosa in più allo spettatore.
AG: E in Egitto?
SS: Prima di Locarno ho fatto vedere il film ad alcuni dei protagonisti. Per quanto riguarda l’Egitto stiamo organizzando una proiezione a settembre, voglio vedere cosa pensano del risultato gli egiziani.
AG: Grazie per la disponibilità e, davvero, complimenti per il tuo film che ci ha molto emozionati.
SS: Grazie a voi.
Locarno, agosto 2011
Tahrir
Regia, fotografia: Stefano Savona • Montggio: Penelope Bortoluzzi • Suono: Jean Mallet, Stefano Savona • Produttori: Penelope Bortoluzzi, Marco Alessi • Produzione: Picofilms, Parigi • Coproduzione: Dugong Production, Roma • Con la partecipazione di: Rai Tre, Alter Ego (Cécile Lestrade), Périphérie (Centre de création cinématographique) • Lingua: arabo • Paese: Francia, Italia • Anno: 2011 • Durata: 90’
www.tahrir-liberationsquare.com
Il presente articolo è stato pubblicato in Rapporto Confidenziale numero 35, speciale Locarno 64 – p.104-107