La commedia automatica di von Trier
Direktøren for det hele (Il grande capo) | Lars von Trier | 2006
recensione a cura di Alessio Galbiati
Il proprietario di un’azienda informatica danese ha la necessità di vendere la società. La cosa è però alquanto complicata dal momento che per anni ha fatto credere ai propri dipendenti di essere un loro collega. Egli conosce l’opinione degli impiegati nei riguardi del capo e quando giungeranno alla sede dei possibili compratori islandesi, la situazione diventerà insostenibile. A questo punto deciderà di ingaggiare uno spiantato attore per fargli interpretare la parte del grande capo, finalmente uscito dall’ombra. Ma l’attore entrerà a tal punto nella parte da mettere l’intera situazione in una condizione di crisi irreversibile: la rappresentazione diverrà realtà, scardinando ogni gerarchia e scoperchiando gli istinti per anni repressi in una situazione artefatta.
Lars von Trier è uno di quei registi che dividono pubblico e critica in fazioni contrapposte. Chi lo ama e chi lo odia, difficile che lasci indifferenti, difficile che costruisca pellicole innocue. Così è stata tutta la sua carriera, da L’elemento del crimine (1984) a Melancholia (2011) (e non c’è dubbio di pensare che ciò non accada anche con il prossimo che, già dal titolo, Nymphomaniac, promette di sollevare polveroni), tranne che per un film, uno solo, che stranamente ha messo d’accordo (quasi) tutti: Il grande capo. Forse perché per la prima e unica volta ha battuto la strada della commedia, alla Preston Struges o Frank Capra; una commedia di caratteri, di stampo teatrale (negli anni a seguire alla sua uscita il film è realmente diventata un piece rappresentata un po’ ovunque nel mondo), all’interno della quale immergere personaggi ordinari in un momento e una situazione extra-ordinarie. Commedia degli equivoci, basata sull’occultamento di una porzione di realtà da parte del proprietario che, fingendosi quello che non è, da’ il via a una escalation di reazione isteriche, paradossali e grottesche. La realtà, la sua messa in scena, tema costante nel cinema crudele del regista danese (su tutti Dogville, 2003), è qui al centro della narrazione e diviene puro spasso quando entra in scena l’attore disoccupato Kristoffer. Il suo approccio verso la recitazione è di tipo immersivo, egli si cala nel personaggio immergendovisi, perdendosi in esso, cancellando la propria identità ogni qual volta sarà sul palcoscenico della propria rappresentazione, riacquistandola unicamente in territorio “neutro”, cioè fuori dall’azienda, giù dal palco. In breve il regista di questa messa in scena, cioè il reale proprietario della società di informatica, verrà declassato al ruolo di impiegato e nemmeno quando proverà a raccontare la realtà dei fatti sarà più creduto, perché il reale è sempre qualcosa di non tangibile ma generato dalla sua stessa rappresentazione. L’attore che interpreta il grande capo sarà più plausibile del reale capo della società che cadrà vittima del suo machiavellico stratagemma di occultamento del potere.
È la voce di von Trier a guidarci all’interno della storia, orientando la nostra visione e definendo gli spazi entro i quali si muove la sceneggiatura e si evolve la vicenda – egli compare per un attimo solo all’interno dell’inquadratura, riflesso con tutta la troupe in una delle finestre degli uffici della società di informatica. La sua perfidia registica si concretizza in quest’opera nella scelta di utilizzare un sistema automatizzato di ripresa gestito da un software (automavision). La macchina da presa viene posta in uno spazio definito da coordinate e in maniera randomica compie movimenti totalmente arbitrari. Questo produce inquadrature all’interno della quali gli attori si muovo ai margini o addirittura totalmente fuori campo ma, a dispetto di ogni aspettativa, l’equilibrio estetico del film si mantiene costantemente coerente e sorprendentemente affine allo spirito dell’opera. Certo, nulla in realtà è davvero automatizzato, la mano dell’uomo (e che uomo!) si vede eccome, ma questo sfuggire dell’immagine di fronte ai personaggi, questa deriva automatizzata, possiede un fascino unico nella sua anacronistica efficacia. ▪
Alessio Galbiati
Direktøren for det hele
Titolo internazionale: The Boss of It All
Titolo italiano: Il grande capo
Regia e sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Automavision
Effetti visivi: Peter Hjorth – Automavision
Montaggio: Molly Marlena Stensgaard
Camera: Claus Rosenløv Jensen – Automavision
Software: Peter Hartwig – Automavision
Suono: Kristian Eidnes Andersen, Ad Stoop
Produttori: Meta Louise Foldager, Vibeke Windeløv, Signe Leick Jensen
Produttori esecutivi: Lene Børglum, Peter Aalbæk Jensen
Coproduttori: Skuli Fr. Malmquist, Thor Sigurjonsson, Marianne Slot
Interpreti: Jens Albinus (Kristoffer), Peter Gantzler (Ravn), Friðrik Þór Friðriksson (Finnur), Benedikt Erlingsson (Interprete), Iben Hjejle (Lise), Henrik Prip (Nalle), Mia Lyhne (Heidi A.), Casper Christensen (Gorm), Louise Mieritz (Mette), Jean-Marc Barr (Spencer), Sofie Gråbøl (Kisser), Anders Hove (Jokumsen)
Produzione: Zentropa Productions
Coproduzione: Memfis Film, Slot Machine, Lucky Red, Pain Unlimited GmbH Filmproduktion, Trollhättan Film AB, Liberator Productions, Orione Cinematografica, Zik Zak Kvikmyndir, Film i Väst, Sveriges Television (SVT), Det Danske Filminstitut, Filmstiftung Nordrhein-Westfalen, Nordisk Film- & TV-Fond, Icelandic Film Center con la partecipazione di Canal+
Suono: Dolby Digital
Rapporto: 1.85:1
Lingue: danese, islandese, inglese, russo
Paese: Danimarca, Svezia, Islanda, Italia, Francia, Norvegia, Finlandia, Germania, Spagna
Anno: 2006
Durata: 99′
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