Finisce, al culmine della caduta libera, e ne provi una certa liberazione perché già da un po’ continuava ad avvitarsi su di se demolendo le sue stesse regole interne, dilapidando intuizioni, sperperando vedute aeree, VFX e location clamorose. Così The Secret Life of Walter Mitty (I sogni segreti di Walter Mitty – colpisce ancora una volta l’imbecille vizio italico di far un po’ quel cazzo che si vuole con i titoli), quinto lungometraggio diretto da Ben Stiller, è sostanzialmente una graziosa delusione. Fosse stato un cortometraggio di trenta minuti, perché trenta sono i minuti della sua tenuta, forse quaranta, allora ce l’avremmo anche fatta a godercelo davvero, perché quei primi trenta forse quaranta minuti sono convincenti, ben scritti e graziosi, intriganti visivamente e densi di trovate d’ogni sorta per tutti i palati, saturano i 2K con un susseguirsi di effetti speciali e ammiccamenti vari ma la riproposizione pedissequa del buffo looser e del decisamente sfigato Stiller, ininterrottamente propinataci da almeno vent’anni, almeno da Reality Bites (Giovani, carini e disoccupati, 1994), sempre intrisa di un melenso romanticismo gattamortaro (le coppie si chiamano vicendevolmente Honey, Honey, Honey…) potrebbe, è certamente il mio caso, esser venuta a noia (mortale!).
Il soggetto è francamente intrigante (e infatti si tratta dell’adattamento dell’omonimo racconto del 1939 di James Thurber già portato al cinema nel ’47 da Norman Z. McLeod – titolo italiano Sogni proibiti. In Italia abbiamo avuto Sogni mostruosamente proibiti (1982) di Neri Parenti con Paolo Villaggio aka Paolo Coniglio): Walter Mitty (Stiller) lavora negli archivi di negativi fotografici della rivista Life ed è incaricato di redigere l’ultima copertina della prestigiosa testata prima di una radicale ristrutturazione aziendale che miete teste e posti di lavoro. Ma la foto prescelta, lo scatto numero 25 di un rullino del misterioso e prestigiosissimo fotografo Sean O’Connell (Sean Penn), non si trova da nessuna parte. Malinconico e in cerca d’amore, Walter, tra sogni a occhi aperti e lo spleen d’una liaison non corrisposta per una collega (Kristen Wiig), si metterà sulle tracce dell’imprendibile fotografo con i pochi indizi che le foto in suo possesso gli mettono a disposizione. Di punto in bianco partirà per la Groenlandia, poi per il vulcano islandese Eyjafjallajökull, poi l’Afghanistan fino all’himalayano tetto del mondo…
La solitudine dell’uomo contemporaneo fatta di web dating (non male la trovata), di incomunicabilità (non certo quella antononiana) à la Spike Jonze (Her, per esempio) e à la Gondry (Eternal Sunshine of the Spotless Mind, La Science des rêves…), di alienazione sprofondata in una New York dentro alla quale muoversi come in un acquario, è forse il maggior pregio di un film tutto costruito sulla figura di Walter Mitty, grigio uomo medio in cerca di redenzione e collocazione nel mondo degli uomini. Prendere alla lettera il motto (reale) della rivista Life – «Vedere il mondo, attraversare i pericoli, guardare oltre i muri, avvicinarsi, trovarsi l’un l’altro e sentirsi. Questo è lo scopo della vita» – e buttarsi fuori dall’ufficio, lontano dalla famiglia, lontano dalla grigia città e ritrovare la propria natura di essere umano: questo è il senso delle peripezie del protagonista. Ma la sovrapposizione al personaggio del character stilleriano ne depotenzia la riuscita, minando un plot che avrebbe meritato maggiore riguardo. Walter Mitty è indubbiamente debitore dello spirito di Greenberg (2010), sesto film di Noah Baumbach (Kicking and Screaming, Highball, Mr. Jealousy, The Squid and the Whale, Margot at the Wedding, Frances Ha, While We’re Young), personaggio che si eleva a vera e propria sintesi definitiva della maschera stilleriana, apogeo di uno tra i character più interessanti e archetipici del ventennio che va dai ’90 ai ’10 del nuovo secolo. Ma oggi Stiller di anni ne ha 50, e forse è giunto il tempo anche per lui di smettere quei panni e provare strade nuove, andare oltre Greenberg perché con Greenberg il cerchio si è inevitabilmente e felicemente chiuso… certo, si potrebbe continuare, fino all’età di 70 o magari 80, Attempati, catarattati e fondo-pensionati potrebbe essere un’idea… Sarebbe come se Winona Ryder o Molly Ringwald avessero perseverato fino a oggi nella parte di eterne adolescenti… ma se una donna al cinema proseguisse oltre ogni tempo massimo a riproporre il carattere che l’ha resa celebre in gioventù sarebbe immediatamente ridicola, a un uomo invece siamo tutti più propensi a concedere la sindrome da Peter Pan… e questo è uno dei tanti misteri del sessismo che faccio ancora fatica a comprende…
Mitty è senz’altro una fotografia del nostro tempo, una caustica commedia sui tic dell’uomo contemporaneo, ma pure un esercizio nostalgico per un mondo analogico divelto dalle nuove logiche di mercato. Steve Conrad, lo sceneggiatore (firmò lo script di The Pursuit of Happyness di Gabriele Muccino), ha saputo costruire un contesto drammaturgico dentro al quale valorizzare la modernità del racconto di James Thurbe salvo poi lasciare il film naufragare in considerazioni banali e in un indigesto romanticismo. La nuova direzione di Life, composta da business man incolti, ben rappresenta, seppur in assenza di un minimo di profondità, la barbara deriva tecnologica del capitale che ha (s)travolto il sistema dei media contemporaneo. La riflessione si innesta nel solco del grande dibattito, sempre sulla cresta dell’onda, circa la fine della carta stampata e non è poca cosa che questi ragionamenti precipitino in un film di così largo respiro distributivo, ma il ragionamento non è più corposo di un accennato corsivo, di quelli che a centinaia è capitato di leggere dentro a Internazionale tradotti da New Yorker, New York Times e altre prestigiose testate west coast.
Non si tratta di cercare, sempre e comunque, il pelo nell’uovo (che schifo! tra l’altro), quanto di affermare con decisione la difficoltà di godersi un film solo sulla carta godibile. Programmaticamente costruito per intrattenere amabilmente, spolverato di una caustica visione dei rapporti umani e professionali di questi anni ’10, il film di Ben Stiller finisce invece per precipitare velocemente intuizioni degne di nota in soluzioni scontate e banalizzanti, riducendo il tutto a un indigesto coming-of-age d’un uomo di mezza età, per giunta into the wild.
Leggo su IMDb che il budget stimato è di circa 90 milioni di dollari, che in Euro sono, circa, 81 milioni. Se nel 2013 secondo i dati ANICA e MiBACT il budget medio dei film italiani è stato di 1,7 milioni è presto detto che con quella stessa cifra di film, noi, qui, in Italia, oggi, ne avremmo fatti 48. •
Alessio Galbiati
The Secret Life of Walter Mitty
I sogni segreti di Walter Mitty
Regia: Ben Stiller
Soggetto: James Thurber
Sceneggiatura: Steve Conrad
Fotografia: Stuart Dryburgh
Montaggio: Greg Hayden
Effetti speciali: Jeffrey Knott, Martin Montoya
Musiche: Theodore Shapiro
Scenografie: Jeff Mann
Costumi: Sarah Edwards
Trucco: Kristín Kristjánsdóttir, Craig Lyman, Evelyne Noraz
Produttori: Ben Stiller, Stuart Cornfeld, Samuel Goldwyn Jr., John Goldwyn, Matt Levin, Sean Murray, Ethan Shapanka, Leifur B. Dagfinnsson
Produttori esecutivi: Gore Verbinski, G. Mac Brown, Richard Vane
Interpreti: Ben Stiller (Walter Mitty), Kristen Wiig (Cheryl Melhoff), Adam Scott (Ted Hendricks), Sean Penn (Sean O’Connell), Shirley MacLaine (Edna Mitty), Kathryn Hahn (Odessa Mitty), Adrian Martinez (Hernando), Jonathan C. Daly (Tim Naughton), Patton Oswalt (Todd Maher), Ólafur Darri Ólafsson (pilota elicottero), Paul Fitzgerald (Don Proctor), Marcus Antturi (Rich Melhoff)
Produzione: Red House Entertainment, Samuel Goldwyn Films, Truenorth Productions, 20th Century Fox
Paese: USA
Anno: 2013
Durata: 114′