I dannati dell’oceano. “Wonder Wheel” di Woody Allen

“Ho realizzato soprattutto commedie”, Allen dixit e il pressbook riporta, “ma ogni volta che ho cercato di fare un film drammatico quasi sempre – non sempre, ma quasi – ho parlato di donne in momenti difficili”. Vero: Interiors, Settembre, Un’altra donna… E, ora, Wonder Wheel e Ginny, un personaggio muliebre coperto di ecchimosi esistenziali al centro di un film non solo drammatico. Straziante. E magnifico. Tra le migliori creazioni dell’inarrestabile Woody, anche se in patria gli incassi sono stati magri e alcune recensioni non certo lusinghiere.

Ginny (un’impagabile Kate Winslet in un ruolo che, probabilmente, sessant’anni fa sarebbe stato offerto ad Anna Magnani o Silvana Mangano) è un’ex attrice con un matrimonio naufragato alle spalle e un figlioletto cinefilo e piromane. Risposatasi con Humpty (un Jim Belushi sfatto e molto convincente), giostraio squattrinato nel sofferente luna park di Coney Island, resiste in maniera intermittente alla tentazione di bere per dimenticare, mentre si arrabatta per districarsi tra un’ingrata occupazione di cameriera in un locale di infimo livello e le liturgie di consorte di un uomo più devoto alla pesca e al baseball che all’arte. La situazione precipita quando a Coney Island ritorna Carolina (Juno Temple), figlia di primo letto di Humpty, maritatasi a un gangster e, ora, in fuga dai criminali che vorrebbero ammazzarla, dopo le rivelazioni da lei fatte al Fbi. Se in Pallottole su Broadway o in Café Society sulla mafia si poteva ridere, qui non è così. E, purtroppo, Carolina aggrava la sua posizione lasciandosi sedurre da Mickey (Justin Timberlake), il bagnino con cui Ginny ha intrecciato una relazione gravida di speranze per l’avvenire…

Questione di affinità elettive: Mickey studia scrittura per il palcoscenico alla New York University e sa come parlare a una donna, meglio se insoddisfatta e inquieta. E, da aspirante drammaturgo, è proprio lui ad assumere il compito del narratore, introducendoci, sguardo in macchina, alla vicenda, una volta scorsi i consueti titoli in Windsor. Un espediente non certo inedito nella filmografia alleniana, ma che assume, in questo caso, un significato pregnante, essendo La ruota delle meraviglie una pellicola dal dichiarato, ostentato timbro teatrale, come dimostrano i dialoghi fluviali e la fede riposta nella parola, i richiami a un fato da tragedia greca, gli autori, Čechov, O’Neill e via sciorinando, continuamente menzionati con foga metalinguistica. L’aria è, d’altronde, impregnata di Tennesse Williams, non mancando a Ginny, come alla protagonista di Blue Jasmine prima di lei, qualche vizio e posa della Blanche DuBois di Un tram che si chiama Desiderio e, all’insieme dell’opera, una certa, inconfondibile atmosfera di torbido erotismo. Williams e non solo, naturalmente. Owen Gleiberman, su «Variety», ha descritto la sceneggiatura come il più onesto kitchen-sink drama che Cliffort Odets avrebbe potuto comporre. Maurizio Acerbo, sul «Giornale», allude a “una sorta di caricatura di Arthur Miller”, opinione condivisibile a patto di liberare “caricatura” da accezioni negative. Allen, infatti, nel crescendo tragico che magistralmente conduce appare in tutto consapevole degli esiti enfatici a cui il film approderà. E la scena dell’ultimo, teso confronto tra Ginny e Mickey, in cui lei, tra untuosa saggezza e pessima retorica, accenti melodrammatici e affettata gestualità, eleva a una dimensione caricaturale la recita del vivere è un momento chiave. La finezza del copione, infatti, non sta solo nello sviluppo di un trama che funzionerebbe benissimo a teatro, ma nel denunciare la triste mascherata a cui ogni essere umano è obbligato dalla società e dalla sorte. La vita è una pièce. E, nella sua enfasi posticcia, Ginny, che spesso si era trovata a ribadire che, per lei, la routine di sguattera di periferia significava, in fondo, interpretare una parte che la allontanava dalla vera sé, non fa che portare all’evidenza una verità ineluttabile. L’intimo dissidio tra l’autenticità delle aspirazioni individuali e il pesante abito sociale che tocca indossare: altro tema frequente in Allen che, apparentato anche in Wonder Wheel al cordoglio per la fondamentale asimmetria tra i sessi e la fugacità dei sentimenti, al dilemma della responsabilità morale e al tarlo di un’impossibile consolazione nella trascendenza, celebra il nume tutelare del pessimismo alleniano, quell’Ingmar Bergman che, a sua volta, al teatro, Strindberg in particolare, pagò un debito salato.

Presupposti simili lascerebbero temere un play filmato. E, invece, la seconda convergenza di Allen e Vittorio Storaro genera un saggio di cinema maiuscolo. Il direttore della fotografia non incanta soltanto con la sua sensibilità luministica, irrorando Winslet con la luce del tramonto a simboleggiare la catabasi di Ginny verso un irresistibile crepuscolo o spalmando ombre minacciose, presaghe d’infausti accadimenti, intorno ai personaggi. I movimenti di macchina vellutati con cui aderisce agli attori, costringendoli entro campi ristretti, riferiscono impeccabilmente una condizione asfittica e disperata. L’immancabile Santo Loquasto, poi, dà un apporto essenziale con trovate scenografiche che del lerciume di un’America pitocca, lubrica, maleodorante e squallida offrono una rappresentazione che così incisiva non la si ricordava, forse, da Accordi e disaccordi. I colori squillanti del parco dei divertimenti gridano tutta la loro fatua falsità, nel contrasto voluto con i mobili scuri e le stanze miasmatiche del tugurio proletario di Humpty e Ginny. Ci si allieta alla vista del mare? Macché! Mai che all’oceano venga dedicato un totale e, quando esso appare, è inevitabilmente interrotto da ombrelloni o palizzate, o compresso entro finestre rigorosamente chiuse, spogliato d’ogni aura romantica e ideale liberatorio e sublime di apertura all’infinito. Se Baudelaire verseggiava “Sempre il mare, uomo libero, amerai!/ perché il mare è tuo specchio”, gente ingabbiata come Ginny, Humpty e Carolina non può che rispecchiarsi in un pelago meschino.
Certo, l’inestinguibile passione per il fuoco del piccolo incendiario lascia immaginare un epilogo da Orpheus Descending, che non vedremo ma che il finale suggerisce; eppure, anche la più devastante conflagrazione in cui l’esistente possa risolversi non è che l’origine, Eraclito docet, di un rinnovato confliggere degli opposti, secondo un’indefettibile ciclicità di cui la ruota panoramica che domina Coney Island è la limpida allegoria. •

Dario Gigante

 

 

WONDER WHEEL (La ruota delle meraviglie – Wonder Wheel)
Regia, sceneggiatura: Woody Allen • Fotografia: Vittorio Storaro • Montaggio: Alisa Lepselter • Casting: Patricia DiCerto • Scenografie: Santo Loquasto • Art Direction: Miguel López-Castillo • Set Decoration: Regina Graves • Costumi: Suzy Benzinger • Produttori: Erika Aronson, Letty Aronson, Edward Walson • Produttori esecutivi: Mark Attanasio, Ron Chez, Adam B. Stern • Coproduttori: Helen Robin • Interpreti principali: Kate Winslet (Ginny Rannell), Justin Timberlake (Mickey Rubin), Juno Temple (Carolina), Jim Belushi (Humpty Rannell), Jack Gore (Richie), Tony Sirico (Angelo), Steve Schirripa (Nick), Max Casella (Ryan), David Krumholtz (Jake) • Produzione: Amazon Studios, Gravier Productions • Suono: DTS, SDDS, Dolby Digital • Rapporto: 2.00:1 • Camera: Sony CineAlta F65 – Cooke S4 and Angenieux Optimo Lenses, Sony CineAlta PMW-F55 – Cooke S4 and Angenieux Optimo Lenses • Negativo: AXSM, SRMemory • Processo fotografico: Cinematographic Process Digital Intermediate 4K (master), F55 RAW 4K (source), F65 RAW 4K (source) • Formato di proiezione: D-Cinema • Paese: USA • Anno: 2017 • Durata: 101′

 



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