Mary e il fiore della strega (Mary to Majo no Hana) > Hiromasa Yonebayashi

Direttamente da Wikipedia, “Ponoc” «deriva dalla parola serbo-croata che indica mezzanotte (ponoć/поноћ), a significare “il momento in cui un giorno finisce e un altro comincia”», un po’ come “Sottovoce” di Marzullo per intenderci.
Forse una nuova alba era l’intento programmatico di Hiromasa Yonebayashi e Yoshiaki Nishimura, quando hanno lasciato lo Studio Ghibli per fondare, appunto, lo Studio Ponoc, ma occorre ammettere che il sole che si sta levando a est è palliduccio.

Nell’anno della morte di Isao Takahata, storico fondatore del Ghibli insieme a Hayao Miyazaki, in Italia viene finalmente distribuito il terzo lavoro di Yonebayashi, che per lo studio da cui ha iniziato la sua carriera realizzò il pregevole Arrietty e il pregevolissimo Quando c’era Marnie; è proprio da qui che si riparte, ossia dalla malinconica solitudine di una ragazzina alle prese con noiose vacanze estive in casa di un’anziana zia.

Il film si presenta come una favola di crescita, o forse più come una fiaba iniziatica, e c’è da ammettere che il debito del Ponoc nei confronti del Ghibli è fin da subito decisamente consistente.
I richiami ai vecchi lavori di Miyazaki sono evidenti, dalla streghetta di Kiki consegne a domicilio, fino allo strambo universo animale di Totoro, passando da tutti i tópoi che caratterizzano la volta celeste dei film Ghibli: la scoperta di luoghi nascosti e incantati, le tenere amicizie infantili, nuovi immaginari e, soprattutto, la magia (stregonesca o fatata) che permea tutte le narrazioni.

E il tòpos principale di Mary e il fiore della strega è proprio la magia, in questo caso stregonesca, in un racconto intriso di tutti gli elementi british di una certa letteratura legata a maghi e incantesimi, a partire da una Università della Magia, tant’è vero che si direbbe quasi di essere dalle parti di Harry Potter, non fosse altro però che il racconto La piccola scopa da cui è tratto il film è datato 1992, scritto per mano di una grandissima e longeva autrice inglese, Mary Stewart, che viene omaggiata da Yonebayashi battezzando la protagonista del film proprio come la scrittrice.

 

 

L’intelaiatura narrativa si regge sul contrasto tra la realistica e noiosa estate in campagna e il meccanicistico immaginario magico dentro cui la piccola protagonista viene catapultata dopo il ritrovamento di un fiore magico, quello del titolo.
È in questo assemblaggio composto da strane creature antropomorfe e una natura non priva di bizzose caratteristiche che Yonebayashi ambienta la propria storia, il cui pregio è, in effetti, un tentativo di emancipazione dall’immaginario nipponico-arcaico che ha caratterizzato più o meno tutta l’ossatura della produzione Ghibli.

Ma se a livello di immaginazione Yonebayashi rimaneggia e prova a ricreare qualcosa di nuovo, il sostrato narrativo/semiologico deve pur sempre tutta la propria potenza espressiva al bagaglio culturale che deriva dalla scuola di origine. È così che la natura si riprende i propri spazi, misteriosa e potente come in ogni film Ghibli, anche grazie alla forza espressiva di un’animazione che predilige il disegno a mano.

Scansando ogni equivoco su eventuali aspettative, si può ben dire che il lavoro di Yonebayashi non ha però quel mordente tipico dei lavori precedenti. Pur evitando ogni paragone con la produzione Ghibli, ma rimanendo nella filmografia di Yonebayashi, occorre evidenziare che il “nuovo corso” di Ponoc parte proprio da un distacco quasi radicale dalla gamma di sentimenti ed emozioni che caratterizzavano i mondi di Arrietty e Marnie.
Il risultato ottenuto è quello di un nuovo immaginario dove i protagonisti vivono un’infanzia protesa alla sana incoscienza della scoperta, dipanato su un piano narrativo meno audace dei film realizzati per Ghibli, ma sicuramente non meno “concreto” dal punto di vista della rappresentazione umanistica dei propri personaggi.

Alla base dell’operazione rimane il tratto tipico dell’anime giapponese e un ampio discorso etico e morale sulla contemporaneità. La scuola di magia nasconde insidie e propositi non certo benauguranti, spianando la strada a un discorso dove la “magia chimica” (leggasi, a volte, la scienza) è al servizio di intenti poco pacifici. È nei pertugi di queste argomentazioni che Yonebayashi si infila trasponendo in film d’animazione un sottotesto certo interessante, ma che non offre nulla di nuovo o di originale a un panorama già ricco.

Si può affermare che Mary e il fiore della strega è un tentativo di affrancamento dalle produzioni precedenti, ed è un tentativo riuscito a metà. Da un lato v’è l’apertura a nuove culture, una tensione anglofila piuttosto che nipponica, oltre al merito di un elaboratissima gamma di scenari e di un uso dell’animazione tecnicamente ineccepibile; dall’altro però vi è il legame a filo doppio con il mondo di provenienza, con le sue tematiche “di fondo” e con il visibile e concreto lascito di una collaborazione quasi ventennale tra Yonebayashi e i maestri Miyazaki e Takahata.

Tuttavia rimane un risultato assolutamente pregevole, che apre la strada a una maturazione dei suoi autori e che si distingue anche per una colonna sonora assolutamente degna di nota.
Da vedere senza aspettative in chiave Ghibli. •

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

 

 

メアリと魔女の花
Mary to Majo no Hana
Mary e il fiore della strega

Regia: Hiromasa Yonebayashi • Soggetto: Mary Stewart • Sceneggiatura: Riko Sakaguchi, Hiromasa Yonebayashi • Musiche: Takatsugu Muramatsu • Produttore: Yoshiaki Nishimura • Doppiatori originali: Hana Sugisaki (Mary), Ryunosuke Kamiki (Peter), Yūki Amami (Madame Mumble), Fumiyo Kohinata (Doctor Dee), Hikari Mitsushima (Red Headed Witch), Jiro Sato (Flanagan), Kenichi Endō (Zebedy), Eriko Watanabe (Banks), Shinobu Otake (Charlotte) • Casa di produzione: Studio Ponoc • Paese: Giappone • Anno: 2107 • Durata: 102′



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