Il demonio piccolo borghese. ”Rosemary’s Baby” di Ira Levin

Una differente versione del presente articolo è stato pubblicata per la prima volta su Bookciakmagazine, nel luglio 2018, con il titolo C’è il demonio nel sogno piccolo borghese. Rosemary’s Baby è ancora tra noi.68

 

Rosemary’s Baby di Ira Levin (1929-2007) è un capolavoro di romanzo che il film di Roman Polanski ha messo in ombra. Pubblicato nel 1967 e immediatamente “opzionato” dal produttore indipendente William Castle, già l’estate successiva veniva portato al cinema – uscì il 12 giugno 1968 – da un giovane regista e sceneggiatore polacco alla sua prima esperienza statunitense: Roman Polanski – all’epoca trentacinquenne e con alle spalle già quattro lungometraggi tra Polonia, Francia e Regno Unito. Il successo planetario del film (budget di 3 milioni di dollari e incasso di 33 nei soli States) e l’irruzione della famiglia Manson nel destino di Polanski (brutale assassinio della moglie Sharon Tate all’ottavo mese di gravidanza, con altre quattro persone, il 9 agosto 1969 presso la villa del regista a Los Angeles: 10050 Cielo Drive), produsse una mitologia inquietante che scansò dalla scena la stupenda opera dello scrittore newyorkese. Provate a domandare ad amici e conoscenti quanti tra loro sappiano che Rosemary’s Baby è tratto da un romanzo. E che romanzo!

È fatto assai raro che un romanziere lasci spazio alla storia che intende raccontare limitando al minimo speculazioni filosofiche, descrizioni di interni e nomi di piante. Chi conosce davvero i nomi delle piante o dei fiori a parte botanici e scrittori? Rosemary’s Baby è un romanzo ridotto all’essenziale, ovvero all’azione e ai soliloqui della protagonista, che non conoscendo ciò che realmente accade e si ordisce attorno a lei, fa sì che il romanzo si sviluppi come una crescente paranoia, che si rivelerà tutt’altro, in un sorprendente finale orrorifico. E l’abilità di Polanski sta tutta nello sposare appieno il romanzo, parola parola, nel trasporlo esattamente in linguaggio cinematografico, dando cioè spazio unicamente alla soggettività della protagonista e di riflesso a quella dello spettatore che sarà, per tutta la durata della visione e ben oltre il finale, libero di interpretare come meglio crede e sente ciò che lo schermo ha evocato.

Protagonista assoluta del romanzo – dunque pure del film – è Rosemary Woodhouse; ma chi è questa donna che sarà impossibile leggere senza darle le sembianze ossute di Mia Farrow? È una giovane donna ammaliata da valori piccolo borghesi, fresca sposa di un attore alla ricerca del successo (interpretato da uno straordinario John Cassavetes), che sogna un grande appartamento in un quartiere gentrificato, diremmo oggi, a un prezzo fuori mercato. E quale miglior ciliegina sulla torta di un figlio? Per chiunque conosca il mercato immobiliare delle grandi città, Parigi Roma Londra o New York non fa alcuna differenza, l’idea di un quadrilocale di ampie metrature in un palazzo storico del centro al prezzo di un bilocale in prima periferia dovrebbe far nascere un qualche dubbio – cinquant’anni fa come oggi. Ma non a Rosemary, incapace di fiutare che l’unico modo per strappare un prezzo del genere non può essere altro che lo scendere a patti col diavolo. E infatti…

 

 

Ira Levin ebbe il merito di spostare l’orrore non più in un luogo remoto, in un altrove “esotico” e lontano, ma nel cuore della vita ordinaria, tra le mura domestiche della propria abitazione. Non più in Transilvania, in una casa stregata al liminare di un bosco o in un suburbano Bates Motel, ma dentro le pareti domestiche di un castello infestato nell’Upper West Side di Manhattan, dentro al sogno piccolo borghese d’una dimora prestigiosa in un quartiere dorato, e sopra a questa ordinarietà lo scrittore innesta tutti i cliché del genere in un crescendo di immagini e situazioni sinistre. Ma il Male qui non si contrappone al Bene, tutto nel romanzo (dunque nel film) si mostra ambiguo e doppio. Così la luciferina coppia di vicini di casa, i coniugi Castavet, è null’altro che una stravagante presenza, prossima alla commedia più che all’orrore. Il satanismo e l’incubo scorrono sotterranei per gran parte del romanzo (e del film) ed aderire alla loro suggestione significherebbe, per la protagonista e gli spettatori, cedere alla superstizione e all’irrazionale. Del resto il Diavolo non esiste…

Rosemary è una provinciale trasferitasi in una grande città dentro alla quale ha completamente mutato i propri valori. Cresciuta con una ferrea educazione religiosa, la signora Woodhouse è oggi una donna piena di dubbi, stretta tra troppe esitazioni, un animo abitato da una vacuità incerta proteso verso una “leggerezza” tutta materialista; oltretutto da quando si è sposata con Guy ha finito per accantonare ogni ambizione personale, divenendo nulla più che una moglie a tempo pieno d’un attore in rapida ascesa. “Is God Dead?” si domanda una copertina del «Times» (peraltro reale – venne pubblicata l’8 aprile 1966) che Rosemary trova nella sala d’aspetto del proprio medico.

Al netto della genialità horror Rosemary’s Baby, il romanzo tanto quanto il film, racconta meglio di molti saggi e tavole rotonde ciò che fu il ’68 e ne delinea con chiarezza il reale rischio – e gli esiti di là da venire. La giovane coppia dei coniugi Woodhouse rappresenta il pensiero debole liberal apparecchiato al riflusso, strutturalmente predisposto a rinnegare velleità idealisticheggianti a favore di una controrivoluzione restauratrice – dunque demoniaca, pare suggerirci l’intuizione di Levin. Ed è buffo notare, nel film tanto quanto nel romanzo, che le uniche possibilità di salvezza che si offrono alla protagonista coincidano con il rinnegare il proprio presente, e i sogni conformisti d’un futuro opulento. Perché a ben guardare, ancora una volta nel film di Polanski tanto quanto nel romanzo di Levin, ogni elemento portato in scena è politico, e si struttura come un insieme di polarità dai confini incerti: centro-periferia, male-bene, verità-menzogna, integrità-corruzione.

Quel che più spaventa in Rosemary’s Baby è la debolezza degli istinti dei protagonisti, la loro smania piccolo borghese. E ci spaventa cinquant’anni fa tanto quanto oggi, in un tempo – il nostro – ancor più diabolicamente restauratore se non apertamente regressivo. Guy sognava di diventare un attore ricco e famoso, Rosemary una madre rispettata e invidiata d’un prestigioso quartiere di New York, che importa se per raggiungere i propri obiettivi si è divenuti complici del ritorno nel mondo dell’anticristo? Che ci importa del mondo quando otteniamo ciò che avremmo sempre voluto? E vissero tutti felici e contenti?

Alessio Galbiati

 

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Rosemary’s Baby su Rapporto Confienziale
Rosemary’s Baby o la sconfitta del ’68 come horror di Leonardo Persia
Rosemary’s Baby > Roman Polanski di Roberto Rippa



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