A New York, nel Queens, all’ombra del nuovo stadio di baseball dei Mets si nasconde l’enclave del Willets Point, una zona industriale destinata alla demolizione. L’area, che accoglie discariche e sfasciacarrozze, priva di marciapiedi e di fognature, sembra matura per una radicale riqualifica urbana. Qui, “Foreign Parts” scopre una strana comunità, dove rottami, rifiuti e materiali di riciclo sono oggetto di un florido commercio. Le automobili vengono smontate, i pezzi divisi, classificati per tipo e marca e rivenduti a un’interminabile parata di clienti di passaggio. Joe, l’ultimo dei residenti originari, impazza per le strade come un Re Lear perduto tentando di opporsi al suo sfratto imminente. Due innamorati, Sara e Luis, svernano in un furgone abbandonato e vivono alla giornata. Julia, regina della discarica senza fissa dimora, si eleva tra i dimenticati con le sue beatifiche visioni. Il film osserva e cattura la quotidiana lotta di un quartiere misconosciuto che presto scomparirà, fagocitato dalla logica urbana della grande metropoli.
Imbroccare un film ad un festival è impresa ardua. Spesso non si conosce molto degli autori ed il catalogo non sempre semplifica le cose; quest’anno a Locarno il livello è stato però talmente elevato che la gran parte delle opere viste (e vissute, è proprio il caso di dirlo!) s’è sempre rivelata una piacevole sorpresa, tanto da riservare ad oltre un mese di distanza un vitale sapore fra le papille gustative di un cinefilo.
“Foreign Parts” l’ho annusato immediatamente, sfogliando il catalogo e compiendo qualche ricerca online e fra il milione di scartoffie che mi circonda (sempre e comunque), mi aveva intrigato l’idea di sentir parlare per immagini documentarie d’una area industriale in via d’estinzione, un quartiere de facto: Willets Point nel Queens newyorkese. Archeologia urbana del contemporaneo realizzata da due filmmaker e ricercatori universitari, che fanno antropologia per immagini in movimento e realizzano, con il documentario in questione, la loro opera prima – ottenendo un bottino pieno in termini di premi e riconoscimenti a Locarno 63 (Miglior Opera prima, Premio speciale della giuria del concorso cineasti del presente).
L’operazione non è certo fra le più innovative, molto cinema di finzione e documentario ha dato conto delle memoria di luoghi prossimi all’annientamento dalla faccia della terra (su tutti l’inarrivabile “Touche pas à la femme blanche” del genio mai abbastanza celebrato Marco Ferreri, anarchico capolavoro del 1974 ambientato fra le rovine de Les Halles parigine in via di demolizione, un proto-western astratto con un cast incredibile), ciò che in questo lavoro è efficace, conturbante e riuscito, è l’enorme umanità che traspare nel tocco dato alla narrazione. C’è in Paravel e Sniadecki un rispetto amoroso nei confronti dei soggetti raccontati, un’attitudine alla “giusta distanza” che ricorda gli esiti più alti del cinema dei fratelli Maysles. C’è addirittura lo sfondamento di questa distanza: una sequenza in cui la stessa regista, Verena Paravel, passa dall’altra parte della macchina da presa, abbracciando Sara – una dei looser che abitano quel lembo di terra – durante una crisi di panico.
Quando il primo maggio 2007 il sindaco di NY Michael Bloomberg ha annunciato il progetto per la riqualificazione di questo angolo marginale della città, si sono subito levate alcune voci in difesa di questo ammasso di automobili sorto su di un acquitrino soggetto a continui allagamenti, in primis proprio quelle dei suoi abitanti, diseredati dimenticati dallo Stato e dalla società, gente che smembrando automobili trae da questa risorsa, scarto residuale della società dei consumi, la sola possibilità concessagli di sbarcare il lunario. Ma è evidente agli occhi dello spettatore che questo residuo di lamiere non potrebbe in nessun caso proseguire su questa direzione; voglio dire che è la natura stessa del luogo, Willets Point, e delle persone che lo popolano, a possedere un’attitudine alla distruzione; di questo i registi sembrano coscienti.
Fosse girato in bianco e nero “Foreign Parts” non avrebbe epoca alcuna, tale è l’intenzione di raccontare uomini, di fare un’antropologia del contemporaneo; volendo tirare il discorso per i capelli, il documentario della coppia Paravel-Sniadecki è un ritratto degli States all’epoca della crisi economica del primo decennio degli anni duemila: Willets Point come metafora di un paese che sta cambiando pelle, divenuto incapace di affrontare l’aspirazione alla dignità del suo popolo. •
Alessio Galbiati
Foreign Parts
Stati Uniti/Francia – 2010 – DCP – colore – 82′
Prima mondiale | Opera prima | Concorso Cineasti del presente | 63° Festival del film Locarno
regia, montaggio, fotografia, suono: Verena Paravel, J.P. Sniadecki; Produzione: J.P. Sniadecki, Verena Paravel; paese: Stati Uniti, Francia; lingua: inglese, spagnolo, ebrico; anno: 2010; durata: 82′
• Premio speciale della giuria Ciné Cinéma Cineasti del presente (acquisto del film per chf 30.000 e messa in onda su Ciné Cinéma)
• Pardo per la migliore opera prima. Premio della Città e della Regione di Locarno (chf 30.000 suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore) alla migliore opera prima tra quelle presentate nel Concorso internazionale, Concorso Cineasti del presente e Piazza Grande.
Verena Paravel, antropologa e regista, ha realizzato il suo primo video “7 Queens” presso lo Sensory Ethnography Lab. Di recente, ha completato “Interface Series”, una serie di cinque cortometraggi video interamente girati con Skype. Il suo lavoro, mostrato nelle gallerie di Boston, Parigi e New York, esplora evanescenti forme di intimità, mediazione e spazio prendendo spunto dall’etnografia sperimentale. Dal 2009, è borsista del Film Study Center dell’Università di Harvard.
JP Sniadecki, regista e dottorando in antropologia all’Università di Harvard, realizza nel 2008 “Chaiqian (Demolition)”, un documentario sui lavoratori immigrati nell’agglomerato urbano di Chengdu, nella provincia del Sichuan, Cina, che ottiene il Premio Joris Ivens al Festival Cinéma du Réel di Parigi nel 2009 e viene distribuito a livello mondiale. Borsista della Blakemore Foundation, vive attualmente a Pechino e collabora a vari film e progetti di ricerca.
ESTRATTO DELL’INTERVISTA ESCLUSIVA A J.P. SNIADECKI
a cura di Alessio Galbiati
Alessio Galbiati: How was the idea of telling the story of Willets Point and its people born?
J.P. Sniadecki: In the early summer of 2008, Verena started shooting a short film along the 7 train that runs from Times Square in Manhattan to Flushing, Queens. She began by walking under the elevated train from Flushing west towards Times Square, filming everything and everyone that she encountered. By the second station on the train, she had discovered Willets Point, an industrial enclave of 13 city blocks, crammed between Shea Stadium and the Flushing River. Within moments of setting eyes on the sprawling junkyards and vibrant micro-economy of refuse and recycling, she knew she had to make a feature-length film there.
At that time, I was in Sichuan shooting a film and Verena was working with Lucien Castaing-Taylor in the Sensory Ethnography Lab at Harvard. Towards the end of the summer, Lucien sent me an email to ask if I’d be interested in possibly working with Verena on a documentary in Willets Point. At that time I didn’t really know Verena very well, nor did I know anything about the area of Willets Point, but from what Lucien wrote and the NY Times articles he sent, I was immediately interested. So Verena and I got in touch over email and decided to head down to New York together when I returned to Cambridge that September.
We went down on a weekend and took the 7 train out to the far eastern end of Queens. As soon as we got to the first main crossroads of Willets Point, with touts hailing cars in the pock-marked dirt roads and car parts being dragged around from shop to shop, I was struck by the fascinating visual and aural impression of the place. Growing up in Indiana and Michigan, I often played in junkyards with my friends, so these mountains of mechanical refuse were not new to me. What was new, however, was the international vibe of Willets Point: although most workers came from Spanish-speaking parts of Central and South America, there were also people from Afghanistan, Israeli, Burkina-Faso, Jamaica, Pakistan, India, Italy, Korea, and China. Verena introduced me to all the people she had met there and, through our filming, we made even more friends, and they became our consultants, our confidants, and our main film-subjects, people such as Joe, Julia, Sara and Luis, Marco, Diablo, Moe, Manny, Roadrunner, Pasiana, V.K., Raymundo, and Victor Espinoza.
That first day we had an amazing time filming together, passing the camera back and forth, discovering the offbeat beauty of the people, labor, and environment of Willets point. It was a completely natural and organic collaboration – both between Verena and me and between us and the people of Willets Point – that we ended up staying in the junkyard until late into the night. In fact, the first shoot set a precedent: we never wrapped-up before nightfall.
As anthropologists, we are both receptive to allowing the particular dynamism and life rhythms of Willets Point to shape our filmmaking. Observant of the imbrication of human and machine – as well as the meaning of labor – in this place, we both felt early on that we wanted to make a film that gave equal attention to the auto parts and people of Willets Point. We didn’t want to overemphasize the psychology of characters, nor did we want to unreflectively aesthetisize the junkyard and auto recycling trade. In the same vein, we were drawn to the poetry of the place, but also wanted to balance that with political backdrop of the city’s abuse of eminent domain law.
La versione integrale dell’intervista su Rapporto Confidenziale numero28 (speciale 2010) e sul sito al seguente indirizzo: rapportoconfidenziale.org/?p=9179