“Inconscio italiano”. Intervista a Luca Guadagnino

da Rapporto Confidenziale numero 35 (speciale Locarno 64)

Luca Guadagnino (Palermo, 1971). Regista cinematografico e teatrale, sceneggiatore e produttore. Laureato all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sui film di Jonathan Demme. Nel 1999 gira “The Protagonists”, un’eccentrica opera prima presentata alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2003 è a Locarno con “Mundo civilizado”, strana commistione fra film musicale e documentario. Nel 2004 è la volta di “Cuoco contadino”, in concorso nella sezione Digitale a Venezia. Nel 2005 dirige il controverso “Melissa P.”. Nel 2007 dirige due cortometraggi realizzati appositamente per il Festival di Sulmona, “Part deux” e “Part deux deux”. Nel 2009 con “Io sono l’amore” ottiene un ampio consenso critico che lo consacra come regista di fama internazionale. Nel 2011 dirige “Inconscio italiano” presentato in prima mondiale a Locarno 64. Attualmente è al lavoro su di un documentario dedicato a Bernardo Bertolucci “Bertolucci on Bertolucci”. A dicembre 2011 debutterà nella regia dell’opera lirica di Giuseppe Verdi “Falstaff” diretta dal Maestro Daniele Rusitoni per il Teatro Filarmonico di Verona. Con “Io sono l’amore” ha fondato la casa di produzione First Sun con la quale attualmente sta producendo il secondo film da regista di Edoardo Gabbriellini, “Suspiria Remake” per la regia di David Gordon Green ed il primo film di finzione di Pippo Delbono.

 

Luca Guadagnino, filmografia: 2011 Inconscio italiano (documentario) / 2010 Chronology (cortometraggio) / 2009 Io sono l’amore / 2008 The Love Factory #3 Pippo Delbono – Bisogna morire (documentario) / 2007 Part deux deux (cortometraggio) / 2007 Part deux (cortometraggio) / 2005 Melissa P. / 2004 Arto Lindsay Perdoa a Beleza (The Love Factory Series) (documentario brevie) / 2004 Cuoco contadino (documentario) / 2003 Lotus (video documentario) / 2003 Mundo civilizado (documentario) / 2002 Tilda Swinton: The Love Factory (documentario brevie) / 2000 L’uomo risacca (cortometraggio) / 1999 The Protagonists / 1997 Qui (cortometraggio)

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Inconscio italiano / Intervista a Luca Guadagnino (ITA)
durata: 22’49” | formato: HD 1280×720 | lingua: italiano
crediti /// Intervista a cura di: AG (Rapporto Confidenziale) / Realizzazione: Emanuele Dainotti con Stefano Scagliarini e Giulio Tonincelli / Post-produzione: Alessandro G. Capuzzi e Emanuele Dainotti / Produzione: Sette Secondi Circa (www.settesecondicirca.com) / Musica: Digital Primitives (Brano: “Bones”. Album: “Digital Primitives”) CC BY-NC-ND 3.0

 

 

“Inconscio italiano”. Intervista a Luca Guadagnino
a cura di Alessio Galbiati

Alessio Galbiati: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a realizzare “Inconscio italiano”? So che esiste una motivazione biografica, ma pure il compimento di una serie di riflessioni e letture che da tempo porti avanti a livello personale sulla questione della guerra d’Etiopia…

Luca Guadagnino: Penso che questa sia la componente più forte, quella che maggiormente mi ha spinto a voler fare questo film. Cercare di capire retrospettivamente quali sono i motivi che ti hanno indotto a fare un lavoro, specialmente un lavoro come “Inconscio italiano”, che è un film fatto in totale controllo creativo e produttivo da parte mia, quindi in completa libertà, è sempre una forzatura. Alla fine le cose migliori sono quelle che vengono in maniera naturale.
Certamente se devo fare una micro analisi personale, penso che la mia vita in Etiopia abbia molto a che vedere con i motivi per cui ho fatto questo film, perché io ho vissuto sette anni in Etiopia tra il 1971 e la metà del 1976. Ma forse ha ancora più a che vedere con l’aver realizzato, nel corso della mia vita, dell’esistenza di un piano molto specifico di lavaggio della memoria, di cancellazione della memoria, del concetto stesso di memoria, un piano molto riuscito di sospensione della complessità del discorso pubblico ed intellettuale.
“Inconscio italiano” è un film che ha una sua autentica essenza nell’atto del pensiero, nell’espressione di questo pensiero attraverso le parole dei sei intellettuali che ho coinvolto in questo progetto. Siccome amo ascoltare le persone che mi affascinano e spiazzano con i loro pensieri, mi sono ritrovato ad essere un avido lettore di saggi, assai meno di romanzi. Diciamo che “Inconscio italiano” è il lusso di una persona che vuole ascoltare delle persone che lo possano illuminare, personalità come quelle intervistate che, oltre ad essere uomini e donne che stimo profondamente ad un livello umano, sono anche dei grandi intellettuali.

AG: Vorrei rimanere ancora un attimo sul dato autobiografico. Tu hai vissuto i primi anni della tua vita proprio in Etiopia, cosa ti è rimasto, nei ricordi, di quella terra? Più in generale nei tuoi ricordi come si è andata configurando la consapevolezza, strutturatasi magari attraverso racconti che tangenzialmente intercettasti proprio in quegli anni o comunque edificatasi nel prosieguo della tua vita, della guerra italiana in Etiopia. Esiste davvero, anche dentro di te, questo rimosso oppure tutto è chiaro ad un livello conscio?

LG: Nella seconda parte del film vedi, in quella che mi piace chiamare cavalcata dentro gli archivi dell’Istituto Luce, dentro alla loro trasformazione attraverso il montaggio, alla loro ricucitura, vedi delle immagini di esotismo puro, tratte dall’archivio di quelle raccolte dalla spedizione Franchetti degli anni ‘20: il serpente, il coccodrillo, gli uccelli, le Emù, le due zebre che si toccano culo-culo dando vita ad una specie di immagine di Rorschach in natura… Questo perché forse la mia esperienza personale dell’Africa va vista da quel punto di vista, ero neonato e poi bambino, e dunque vedevo quello: la tartaruga, il serpente, il coccodrillo.
Questo per dire che naturalmente, ma senza voler essere programmaticamente autobiografico, ho guardato a quei materiali attraverso una traccia del tessuto psichico personale che mi ritornava. Questo è stato un qualcosa che abbiamo fatto, ma non perché era mia. In realtà credo che queste immagini di bestiario africano, unite alle immagini della guerra d’Etiopia, portavano un senso in più che era interessante.

AG: Con quale metodo di lavoro sei giunto a questo risultato? E con quali persone hai lavorato, in un’opera che da te è firmata, ma si realizza con, e grazie, a molte altre persone.

LG: Io non sono un filmmaker, non lo sono mai stato. Non ho mai posseduto, per esempio, gli apparecchi di ripresa che avete voi qui adesso, o i simili del passato. Dalla videocamera VHS a quella Super-VHS, passando per la HI8, arrivando alle digitali HD e finendo alle Canon o la marca che preferite. Non le ho mai avute perché non ho mai posseduto la dimensione mentale del filmmaker, che ha il suo strumento e con quello crea il proprio lavoro audiovisivo. Mi sento una persona un po’ all’antica da questo punto di vista, profondamente all’antica. Per me l’apparato, la troupe, i collaboratori, la costruzione di un film attraverso la “macchina cinema” è cruciale. È il mio lavoro.

Ho fatto dei film che probabilmente voi non conoscete che si intitolano “Part deux” e “Part deux deux”, ora farò “Part deux trois”, che ho presentato a Sulmona nel 2007. Il primo l’ho girato con una HD e lo Swing Shift, ed il secondo proprio con una 5d. Ho fatto un atto gratuito per omaggiare Roberto Silvestri, che come direttore mi aveva appunto invitato dal Festival di Sulmona, un piccolo regalo di un regista che regala qualcosa di inedito ad un festival ed ai suoi spettatori… insomma, anche in un contesto del genere ho girato con alcune attrici come Valentina Cervi, Alba Rohrwacher, Sabrina Venezia… anche in quel micro-film mi sono ritrovato ad aver generato un apparato che era proprio di un cinema: avevo il costumista, i truccatori e tutto il resto.

Per cui per me “Inconscio italiano” è abbastanza la stessa cosa. Quindi la collaborazione con i cineasti che hanno lavorato, e con le persone che hanno collaborato alla sua realizzazione è stata, nella leggerezza del film, gestita comunque allo stesso modo con la quale gestisco, e gestirò, tutti quanti i miei lavori.

AG: Come hai lavorato? Sarai partito immagino dalla lettura di una gran mole di saggi…

LG: La lettura è un qualcosa che è mio, mi appartiene e non è un qualcosa fatto in maniera specifica per il film. Le mie letture e le mie passioni mi hanno portato a confrontarmi con Giuppy D’Aura (sceneggiatore, ed autore delle interviste in “Inconscio italiano”; NdR), questo straordinario furetto che nel film vedete ogni tanto e che domanda e parla con gli intellettuali. Lui è un mio collaboratore ed una persona che stimo profondamente. In una sorta di ping pong con lui, che ha una grande preparazione dal punto di vista dell’analisi psicoanalitica e dell’analisi lacaniana, ci siamo rimpallati a vicenda quali potevano essere le strategie e le direttive.

Immediatamente abbiamo posto sul tavolo il nome di Angelo del Boca, subito. Era imprescindibile. Ed ero terrorizzato che non ci concedesse l’intervista, che più che altro è un colloquio. È stato un lavoro molto lungo. È stato Giuppy che ha creato tutte le liaison. Lui ha fatto quella cosa che mi dicevi tu, lui ha letto dei testi specificatamente per il film… abbiamo una biblioteca di questi testi… una parte li ho letti io, molti li avevo già letti in precedenza, di altri abbiamo dei riassunti che ha fatto lui… una piccola biblioteca composta da saggi e libri dedicati specificatamente alla guerra di Etiopia.

Poi c’è il fatto che Ida Dominijanni sia una mia grande amica. Per chi non lo sapesse è una grande giornalista politica e filosofa del pensiero femminista italiano… che può sembrare una banalità visto che lei è italiana, ma invece è assai importante visto quanto differiscono fra loro le differenti “scuole” del pensiero femminista, ognuno con dinamiche molto diverse. Lei ha lavorato sul tema della filosofia della differenza, insieme alla filosofa Luisa Muraro, mentre altre grandi intellettuali come Judith Butler o Wendy W. Williams, che sono di scuola americana, hanno investigato i temi della “Gender Theory”. Con Ida e insieme a Giuppy abbiamo molto parlato di cercare di trovare una chiave di volta che fosse ficcante a proposito del nostro inconscio collettivo. È stata lei ha trovare il titolo: “Inconscio italiano”.

Quando abbiamo trovato il titolo è stato tutto più semplice, è stato più semplice trovare le chiavi per continuare a farlo. Diciamo però che c’è stato un anno di lavoro dietro al film, tra il lavorare al montaggio specifico, con Ferdinando Cito Filomarino, il vostro amato regista di “Diarchia” (il riferimento è ad una bruciante stroncatura al suo pluripremiato cortometraggio d’esordio recensito durante Locarno 63; NdR), che ha lavorato in maniera brillante alla creazione delle sinassi all’interno del materiale di repertorio; un lavoro che ha richiesto sei mesi, per mezz’ora di risultato finale.

AG: Il film si struttura in due parti nette: un’ora e cinque minuti di interviste frontali ai sei intellettuali e poi una parte di montaggio di materiale d’archivio della guerra d’Etiopia e dell’occupazione italiana.

LG: Chiamiamola la suite Harmonium, perché anche il resto è una parte di montaggio…

AG: Harmonium come il titolo del brano della colonna sonora…

LG: “Harmonium” è il brano sinfonico di John Adams utilizzato a commento delle immagine. Ci tengo però a puntualizzare che pure la prima parte è assolutamente di montaggio, ed ha portato via tanto tempo. Tra l’altro rivedendolo qui a Locarno ho pensato che dovremmo ancora tagliare qualcosa.

AG: Qual è la provenienza delle immagini della suite di montaggio?

LG: Al 90% provengono dall’Istituto Luce, ma ci sono anche immagini di provenienza russa e inglese.

AG: Com’è stato lavorare con una istituzione come l’Istituto Luce?

LG: Ho avuto a che fare con Luciano Sovena, che è un galantuomo, il quale aveva visto al festival di Berlino il mio film precedente, “Io sono l’amore”, e se ne era innamorato. Grazie a quella folgorazione si è ricordato che qualche anno prima gli avevo proposto un film sull’architettura fascista in Etiopia che poi non si fece più. Un giorno mi disse se ero interessato a tornare a guardare quel materiale, ovviamente accettai di buon grado.

AG: Come ti sei orientato dentro a questo materiale? O per meglio dire, quali sono state le idee che ti hanno guidato nelle scelte compiute?

LG: Se mi stai chiedendo se ho pianificato il modo con il quale andare a scovare ciò che cercavo, la risposta è sì, ma in parte. Per me è molto importante che ci sia, anche, la natura inconsapevole ed intuitiva della mia attitudine, e che sia poi questa a farmi comprendere dove posso andare a parare. Ho visto ore e ore di questi materiali in VHS, perché il Luce li possiede in VHS come materiali di visione. Prendevo i vari timecode delle parti che mi interessavano e poi loro ce li hanno passati ad una qualità maggiore, infine abbiamo dovuto rifare il conforming, ed è stato un lavoro altrettanto faticoso.

AG: Che tu sappia, ci sono altri lavori cinematografici che hanno indagato il colonialismo italiano?

LG: Penso ai lavori della coppia di cineasti piemontesi, che hanno sempre lavorato sui repertori scarnificandoli e trovando un nuovo senso alle immagini, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian; c’è pure “The Autobiography of Nicolae Ceausescu” (Autobiografia lui Nicolae Ceausescu) di Andrei Ujicã, un film tutto basato su materiali di repertorio, però non ha a che fare con il colonialismo.

AG: Il film si inscrive fra una didascalia iniziale ed un’immagine finale straordinaria, un ribollimento dell’acqua… la cosa che mi è piaciuta molto del tuo “Inconscio italiano” è che fa nomi e cognomi, che non si tira indietro…

LG: Io penso… dirò una cosa che contribuirà ancora una volta a farmi suonare antipatico ai miei colleghi ed ai miei vicini di cinema in Italia, ma non solo… Se c’è una cosa che disprezzo con tutte le mie forze è il tentativo, sempre riuscito, di fare cinema pseudo politico lavorando sulla reticenza dei fatti, guardando con moderazione le verità di tutti.
Credo che questo sia un modo per prendere posizione molto profondo e per generare una sorta di consenso alle cose come stanno. Ritengo sia più giusto, se uno affronta un argomento come quello trattato da “Inconscio italiano”, parlare anche dei fatti, e se noi rispetto a questi siamo disincantati, non possiamo non rilevare che quello che c’è scritto nella didascalia da te citata, altro non è che la descrizione fattuale della storia. Nel 1935 Mussolini invade l’Etiopia, dichiara guerra unilateralmente, nel 1941 l’Imperatore Hailè Selassiè, le cui responsabilità rispetto alla gestione della nazione etiope andrebbero e andranno indagate, e che penso siano state indagate da grandi cineasti come Haile Gerima (il riferimento è al film “Teza”, premiato nel 2008 alla Mostra del cinema di Venezia con il Leone d’argento ed il Premio Osella per la sceneggiatura; NdR), abbandonò la guida delle truppe etiopi e la capitale e si recò in esilio col tesoro della corona – questa questione l’ho deliberatamente lasciata fuori dal mio discorso perché non era necessario farlo con “Inconscio italiano” per non diluire l’essenza di ciò che stavamo facendo.
Poi con la fine delle guerra e con l’instaurazione della Repubblica nel ‘48 viene dichiarato incostituzionale il Partito Fascista, viene creato il Movimento Sociale Italiano che ha poi cambiato il nome in Alleanza Nazionale, ed apparentemente vocazione, ma invece sedendo al governo da 17 anni perpetua in maniera inequivocabile gli stessi valori del passato fascista, che l’MSI si era incaricato di tenere vivi. Perché non mi vengano a dire, coloro che siedono ai ministeri della Difesa, alla città di Roma come Sindaco o altri… ma non parlo delle singole persone che sono… Sic transit gloria mundi… ma lo spirito che queste persone esprimono.
Credo che non fare i nomi sia un atto stupido, farli un atto normale.

AG: Dopo la prima visione spiegavo, a chi mi chiedeva come fosse il tuo film, proprio questa didascalia iniziale e la reazione era sempre la stessa… “ma certo, perché non è quello che è?!”. Dagli anni ‘90 in poi l’Italia è come se sia vissuta in uno stato di falsificazione e mistificazione continui, incessanti.

LG: Guarda, io non ho la memoria storica, o la cultura, per guardare ai decenni scorsi, o a quelli precedenti la mia nascita, bisognerebbe fare un grande studio dell’Italia del dopoguerra. Di fatto credo che gravi responsabilità siano quelle di coloro che hanno voluto dire che era tutto uguale, o di quelli che hanno accettato un linguaggio che vede assimilabili e confrontabili, cose che assimilabili e confrontabili non sono. Come per esempio le esperienze della Resistenza e di Salò. Ricordiamoci le parole di Luciano Violante con i valorosi caduti di Salò, o quelle di molti quotidiani a tiratura nazionale che attaccano il Presidente del Consiglio Berlusconi, salvo poi dare ampissimo spazio all’azienda che più di ogni altra diffonde in maniera straordinaria e riuscitissima il ‘modus pensandi’ che è dietro al Presidente del Consiglio, che è Mediaset, celebrando i produttori di Mediaset, i divi di Mediaset… quella roba lì.
Quante volte abbiamo sentito dire che Maria De Filippi però è brava, no?! Io non ho niente contro la signora De Filippi da cui peraltro sono andato in trasmissione cinque o sei anni fa per presentare “Melissa P.”. Ero andato ad ‘Amici’ (agghiacciante programma condotto dalla stessa, in onda su Canale 5; NdR). L’ho fatto perché prima di tutto volevo conoscere da vicino quelle cose dalle quali poi prendere distanza, e secondo perché all’epoca pensavo fosse giusto fare quello che mi chiedeva il mio distributore che era la Sony. La signora De Filippi porta avanti un’ideologia che è quella espressa chiaramente da Eric Gandini nel suo film “Videocracy”. Lele Mora cos’è?! È il procacciatore di coloro che poi vanno a ‘Uomini e Donne’ (altro agghiacciante programma condotto da Maria De Filippi, sempre in onda su Canale 5; ndr)… e allora perché la signora De Filippi è soltanto brava?! ma un giorno si farà anche la Storia degli anni ‘90 e 2000, qualcuno la farà.

AG: “Inconscio italiano” è costellato da una serie di elementi perturbanti, inquietanti che mi fanno pensare ad un certo tuo pessimismo sulla condizione attuale e futura dell’Italia. Penso al ribollimento che chiude il film, piuttosto che le parole con le quale Del Boca apre la sua conversazione, ma pure ai viraggi al rosso che legano il montaggio in tutta la prima ora… sono molti i segnali di inquietudine che punteggiano il film. Tu avverti una certa paura circa la situazione italiana attuale? Pensi che la situazione sociale e politica dell’Italia contemporanea sia su di una china pericolosa?

LG: Mi fai una domanda troppo complessa, alla quale non so dare una risposta.
Penso che alla fine bisogna porre in luce non tanto il baratro, quanto la possibilità di spiccare il volo oltre il baratro. Purtroppo la lezione del pessimismo è fin troppo facile, e contagiante, io voglio vedere cosa succede sotto, non cosa succede quando cadi.
Penso che proprio questo pessimismo della visione sia uno dei motivi per cui si fatichi a comprendere le violenze e la rabbia londinese di questi giorni, o quella che viene chiamata “Primavera araba”.

Roberto Rippa: Secondo te questi eventi che raramente vengo raccontati in maniera corretta, o anche solo per quello che sono, come dovrebbero essere raccontati oggi? Penso appunto alla Primavera araba o ai fatti di Londra di questi giorni. C’è una chiave per raccontarli oggi al cinema o bisogna per forza aspettare di distaccarsene temporalmente?

LG: Il grande filosofo Žižek sostiene che una delle cose da fare adesso sia fermarsi e pensare. Che non è mai una cattiva idea. È una domanda molto complessa, posso dirti che uno dei film che qui a Locarno abbiamo premiato, “Hashoter” (Policeman) di Nadav Lapid (Israele/2011), il premio speciale della giuria, sia un film che ha saputo centrare in maniera perfetta una delle caratteristiche del cannibalismo di una società, della inanità di uno scontro interno che è senza movimento, tranne per degli scarti che nel film si vedono. Credo che quello è un modo per raccontarlo.
Io posso dire come non lo si deve raccontare, so che non lo si dovrebbe fare attraverso degli instant film.
Lo spirito del momento informa le cose migliori che accadono al cinema. “Abrir puertas y ventanas” (“Back to Stay” di Milagros Mumenthaler, Argentina-Svizzera/2011), a cui abbiamo assegnato il Pardo d’oro, che è un film apparentemente svagato su quattro ragazzette in una casa, in realtà contiene una notevole profondità della visione sui traumi del passato, sia a livello individuale che collettivo. Tu non sai di chi sono figlie queste ragazze, vedi che c’è questo garage pieno di oggetti appartenenti ai genitori e sai questi genitori sono scomparsi, insieme ad una nonna intellettuale di sinistra da poco deceduta, elementi sfuggenti che però vogliono dire molto per la società argentina. Ma il film sfiora queste questioni, le affronta in maniera laterale, non frontale.
Trovo che il cinema di impegno civile sia un disastro, una tragedia, perché il cinema è cinema.

AG: Nella realizzazione di “Inconscio italiano” non ti sei mai posto la questione di dare voce all’alterità? Intendo sia l’intellettuale di destra che l’intellettuale etiope?

LG: Riguardo all’intellettuale di destra no, non ci ho proprio pensato. Ho parlato con un bravissimo critico israeliano che mi ha detto: “Il tuo film manca del punto di vista della destra”. Però non era quello che volevamo fare.
Rispetto invece all’intellettuale etiope, il grande Haile Gerima ne sta facendo uno in cui da voce agli intellettuali etiopi e spero che un giorno, i nostri due film, verranno proiettati uno accanto all’altro.
Odio quelle commedie americane romantiche che mettono sempre un personaggio frocio nel film. C’è sempre un frocio, o una lesbica, a dipendenza del fatto che il regista sia maschio o femmina. Ci sono sempre le quote, che ritengo siano delirio puro. O la casistica è imprevedibile e ce ne sono dieci, oppure devi andare in una dimensione di rigore in quello che tu stai facendo, altrimenti che fai?! Oltre ai nostri sei intellettuali metti un etiope? ne metti due? un uomo e una donna? uno anziano ed uno giovane? cos’è?! Su cosa si basa la scelta?!

La cosa di cui sono contento di “Inconscio italiano” è la compattezza ed il rigore molto profondo nella forma mentis di questi intellettuali, ognuno passa il testimone all’altro secondo una coerenza interna che però è aperta anche a posizioni che possono essere diverse. … tra Alberto Burgio e Ida Dominijanni c’è una differenza sostanziale molto rilevante dal punto di vista della formazione, per esempio. Però Burgio e Dominijanni possono passarsi il testimone in maniera organica pur nelle loro diversità.

AG: Per quanto riguarda l’uso delle luci e della fotografia è come se nel film vi sia un crescendo nel cinema.

LG: Grazie, questa mi sembra una cosa molto bella da sentirsi dire.

AG: Pare di capire che il contributo di Ida Dominijanni sia stato raccolto per ultimo, in quanto cita alcuni passaggi della conversazione con Angelo del Boca, è come se traspaia la tua voglia crescente di realizzare un qualcosa che fosse sempre di più vicino al cinema. Si nota una certa progressione verso il cinema-cinema, una voglia-necessità di dire non solo attraverso le parole o le immagini dell’Istituto Luce, ma pure attraverso gli elementi propri del linguaggio cinematografico.

LG: L’ordine delle interviste è: Lucia Ceci, che nel montaggio è la terza, poi siamo passati ad Alberto Burgio che è il quinto, poi abbiamo fatto Michela Fusaschi, Angelo del Boca, Iain Chambers e infine Ida Dominijanni. Quindi in realtà l’ordine non è così lineare dal punto di vista delle riprese.
C’è da dire che l’intervista che dal punto di vista visuale mi ha meno soddisfatto è quella della Ceci, che è la prima. Mentre sono profondamente soddisfatto di quello che lei dice e di come lo dice… sono meno soddisfatto del mio lavoro con lei, non certo dell’apporto al film della professoressa Ceci.

L’idea del film era di lavorare ad una forma che portasse alla memoria i saggi politici degli anni sessanta. Parlo proprio dei libri, penso ad esempio ai saggi di Adorno, pubblicati con quella grafica stilizzata, con l’uso dell’immagine in bianco e nero virata. Volevo dare l’idea anche del pensiero, non erano interviste per me, volevo che ci fosse la possibilità anche per l’occhio di indagare il luogo in cui si trovavano le persone ed anche il modo con il quale stavano pensando nel momento in cui pronunciavano quelle parole. So che risulta estremamente astruso e pretenzioso, sembra Nicolas Klotz, ma in effetti questa è stata la nostra tensione.
C’è un film meraviglioso di Pedro Costa, un documentario che ha realizzato sulla coppia di cineasti Straub-Hulliet ripresi nella loro sala di montaggio (il riferimento è a “Danièle Huillet, Jean-Marie Straub, cinéastes. Ou gît votre sourire, enfui?”, 2001; NdR), che è stato un punto di riferimento molto forte nella realizzazione di “Inconscio italiano”. Ma naturalmente anche tutto Godard.

AG: Dove sarà possibile vedere “Inconscio italiano”? Ti domando pure se hai pensato, o trovato, una qualche forma di distribuzione.

LG: Parlando col professor del Boca e con la Dominijanni abbiamo pensato che potremmo pensare di far vedere il film nelle università e nelle scuole come film anti-didattico. Mi piace moltissimo l’idea che questo film possa essere visto da ragazzi molto giovani. Ora che finisce Locarno vedremo un po’ se qualcuno si farà avanti per una distribuzione. Per quanto riguarda i festival, andrà a Torino, Estoril e Lisbona, ma le richieste sono già molte altre.

AG: Qualcuno che si è risentito, già in questa fase?

LG: È una domanda alla quale vorrei rispondere, ma non è il caso che la riposta venga scritta. Comunque sì.

AG: Il tuo film precedente, “Io sono l’amore”, è stato un successo mondiale. Molti fra i maggiori critici internazionali l’hanno segnalato con convinzione fra il meglio della passata stagione. Nel fare “Inconscio italiano” hai mai pensato che il tuo nome potesse servire da veicolo per questa riflessione sul razzismo ed il colonialismo italiano?

LG: No. Perché sono molto ambizioso e penso che il mio nome debba diventare molto più grande di quello che è oggi per arrivare ad avere questo potere maieutico. E siccome sono anche un cuoco, come si suol dire: “la crema ancora non è quagliata”. Ma sta quagliando molto bene, sta procedendo molto bene, penso ci voglia il tempo per ogni cosa. Però sono di un’ambizione sfrenata, altro che Ferdinando (Cito Filomarino; NdR)… dal tuo punto di vista mi dovresti disprezzare.

AG: In realtà la mia recensione non l’hai ancora letta… Per quanto riguarda la scelta degli intellettuali da intervistare, c’era qualcun altro che avresti voluto?

LG: Nicola la Banca, uno storico di scuola delbochiana, anche se lui si risentirebbe se mi sentisse nominarlo così. Poi volevamo intervistare Lucia Re, ma lei vive in California, e Wendy W. Williams che ha scritto delle pagine straordinarie sulla condizione di non umano che vivono ad esempio le persone imprigionate a Guantanamo, persone private di tutto, spogliati dalla propria soggettività, deprivati di tutto. Però sarebbe stato un film più grosso, ed è già stato faticosa tagliarlo così.

RR: Quando si fa un documentario ricco di temi così complessi è inevitabile fare un gran lavoro di montaggio di modo da arrivare ad una durata che sia…

LG: …sopportabile. Certi film che oltrepassano determinate durate sono insopportabili. Il problema è la tenuta di quello che stai facendo.

RR: Non hai mai pensato a due formati, uno più lungo, per festival o comunque per la sala, ed uno più breve pensato appositamente per il mezzo televisivo?

LG: No. In questo sono come Bernardo Bertolucci. Lui dice sempre “quando finisco un film me ne dimentico e finisce là” (attualmente Guadagnino sta lavorando ad un documentario dedicato al Maestro, dal titolo Bertolucci on Bertolucci (APICI); NdR). Ne “Il piccolo Buddha” c’è questa sequenza ricorsiva dei monaci che realizzano un mandala di sabbia e che dopo i titoli di coda viene distrutto. Un gesto tipico della cultura tibetana, i monaci lo fanno e poi lo distruggono per il principio dell’impermanenza, ed in questo io credo. C’è una parte di me che vorrebbe conservare tutto, aggiustare ogni cosa, metterci le mani. Ma la verità è che non bisogna: una cosa quando è finita è finita.

RR: Questo vale per ogni tuo lavoro, anche per quelli di finzione?

LG: “Melissa P.” ad esempio nasce con un differente montaggio, che però al vaglio della “sneak preview” – che è stata l’ultima fatta in Italia – produsse una reazione tale per cui la Sony mi costrinse a fare delle grosse modifiche al film. Naturalmente il mio film è quello di quella prima visione, però per me il film è quello che è uscito in sala con tutti i suoi difetti. Non mi metto a combattere per tirare fuori un’altra versione.

RR: Non avresti la tentazione di metterci le mani per dare alla luce la tua versione?

LG: No, perché cambi tu come soggetto quando fai un film.

RR: Di questi tempi è molto in voga la tendenza a riprendere in mano pellicole anche di molti anni fa.

LG: Sai che William Friedkin, che davvero è uno dei miei registi preferiti, ha fatto la cazzata di riprendere “Il braccio della legge” (“The French Connection”, USA/1971; NdR). È andato in telecinema ed ha cambiato tutti i colori facendolo diventare acciaio, blu, verde, chiudendo i neri. Facendo un po’ un lavoro alla “C.S.I.”, con la sensibilità del colore di oggi. Ma la fotografia di quel film, firmata da Owen Roizman, non era quella. Prima di tutto il film non era in numerico ma in analogico, e secondo andava in una direzione completamente diversa, fatta di grigi, marroni, gialli. Era meravigliosa la fotografia di quel film. Oggi ne esiste una versione DVD, che credo si intitoli “The French Connection – Director’s Cut”, che raccomando a tutti di non comprare perché fa cagare! Tenetevi, se ce l’avete, la versione originale, perché lì il telecinema era quello corretto! Ho avuto la fortuna di rivedere il film in pellicola in sala a Los Angeles, all’Aero Theatre dell’American Cinemateque, e nella sua versione originale il film è ancora oggi straordinario. C’era Friedkin in sala, e spero che abbia ripensato alla cagata che ha fatto!

Non bisogna rimettere le mani su quel che si è fatto, fai altre cose! Penso che sia un atto conservatore quello di tornare indietro sulle proprie cose. Certo, per esempio, nel mio primo film “The Protagonists” (1999), che racconta la storia di una troupe che va a Londra ad indagare su un fatto di cronaca avvenuto nel 1994 in cui due ragazzi per azzardo decidono di uccidere un cuoco, forse… è da un po’ che mi viene in mente… anzi è da sempre… che forse andrebbe raccontata quella storia e basta, non la storia della troupe che va a Londra, ma la storia di due ragazzi che vanno a Londra e uccidono il cuoco. Quella è la storia che andrebbe raccontata. In un caso così capisco se un regista torna sui suoi passi e fa un film che parte da una storia simile alla precedente ma declinandola in un modo diverso, quello mi piace. Come mi piace indagare i motivi per cui un regista come Steven Soderbergh faccia film come “Ocean’s Eleven”, “Twelve” e “Thirteen”… certo perché gli danno 5 milioni di dollari a film… però che pure una polisemia di cose che va indagata in quei film per capire il cinema di un maestro come Soderbergh. Sarebbe meno interessante se lui si mettesse a ritagliare, ricucire, nuovamente lo stesso film.

AG: Fra un festival ed un film saggio stai per caso lavorando al tuo prossimo lungo?

LG: Sto producendo “I padroni di casa” di Edoardo Gabbriellini, un’opera seconda con Valerio Mastrandrea, Elio Germano, Valeria Bruni Tedeschi e il ritorno sulle scene cinematografiche di Gianni Morandi. Sto producendo “Suspiria Remake”, diretto da David Gordon Green, le cui riprese dovrebbero iniziare prestissimo. Sto producendo il primo film di finzione di Pippo Delbono. Stiamo cercando di produrre, ma al momento ancora non ci riusciamo, un film che si chiama “Trafficking” che parla della tratta delle schiave per la prostituzione, ma è un film difficilissimo da chiudere. Sto sviluppando il primo lungometraggio di finzione di Ferdinando Cito Filomarino, che si chiama “L’avventuriero” ed è tratto da una novella di Arthur Schnitzler.
Parlo con molti cineasti che mi piacciono e con i quali vorrei lavorare, come Franco Maresco, Claudio Noce e altri.
Per quanto riguarda il mio lavoro personale ho cominciato le riprese di un documentario che si chiama “Bertolucci on Bertolucci”, su Bernando Bertolucci. E poi il 13 dicembre debutto con l’opera lirica a Verona con il “Falstaff” diretto dal maestro Daniele Rustioni.

AG: Hai un bel da fare insomma.

LG: Direi proprio di sì. E tutto questo senza soldi. Però su questo mi ha molto rassicurato Paulo Branco, che mi ha spiegato che lui non ha mai prodotto un film avendo i soldi. Ieri ci ha raccontato che una volta ha costretto la troupe di un film di Manoel De Oliveira, “Vale Abraão” (“La valle del peccato”, Francia-Portogallo-Svizzera/1993; NdR), un capolavoro assoluto, a giocare a poker con i soldi della paga settimanale, ma siccome lui è un genio con le carte, li pagava la settimana successiva con i loro stessi soldi. Un’altra volta invece, per chiudere un film che si girava a Madeira, ha chiesto a tutta la troupe i soldi per poter andare al casinò a puntare alla roulette. Ha puntato, ha vinto, ed ha restituito tutti i soldi alla troupe, ha pagato la settimana di albergo per tutti, e la settimana successiva ha rifatto la stessa cosa. Genio!

Locarno, 13 agosto 2011

 

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INCONSCIO ITALIANO
Regia: Luca Guadagnino • Fotografia: Luca Ranzato • Sceneggiatura: Giuppy D’Aura • Montaggio: Ferdinando Cito Filomarino • Assistente al montaggio: Giovanni Pompetti • Suono: Stefano Varini, Lorenzo Corvi • Missaggio: Riccardo Spagnol • Titoli e grafica: Pomo, Gabriele Gianni • Ufficio stampa: Patrizia Cafiero • Produttori: Luca Guadagnino, Massimiliano Violante • Con: Angelo Del Boca, Michela Fusaschi, Lucia Ceci, Iain Chambers, Alberto Burgio, Ida Dominijanni, Giuppy D’Aura • Casa di produzione: First Sun • Lingua: italiano • Paese: Italia • Anno: 2011 • Durata: 100′

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