articolo pubblicato in Rapporto Confidenziale numero34, estate 2011 – pagg. 58-61
Terrorismo cinematografico tra poliziottesco e horror
Luca il contrabbandiere
Lucio Fulci | Italia – 1980 – 35mm – colore – 97′
di Fabrizio Fogliato
L’Italia degli anni ’70 è un paese confuso e pieno di contraddizioni, spaccato a metà (oggi non è poi tanto diverso) tra spinte tradizionaliste e conservatrici e sussulti di emancipazione e progressismo. È un Paese che si affaccia al nuovo decennio con una finale mondiale persa malamente 4-1 contro il Brasile di Pelè, ma con l’euforia della semifinale vinta 4-3 ai tempi supplementari contro la Germania Ovest di Gerd Müller, talmente importante ed entusiasmante da far pensare agli italiani che il mondiale dell’Italia fosse finito lì. È l’euforia di un’estate torrida e “mexicana” (i mondiali si giocarono nello stato del centro-america) che divide simbolicamente i morti della strage della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), da quelli innumerevoli che seguiranno per tutto il decennio a venire.
Tutto era più difficile nel 1970, che dietro di sé portava le inquietudini e i travagli della contestazione studentesca e dell’ “autunno caldo” del ’69. I contrasti sindacali, gli scioperi, le manifestazioni di massa corrono paralleli all’insorgere dei movimenti di contestazione che attraversano mezzo mondo. In Italia, alla vigilia dei mondiali di calcio, si pensa ad altro. Nel mese di Luglio scoppia la rivolta di Reggio Calabria, che dietro ad un banale “sgarbo” burocratico (Catanzaro capoluogo invece di Reggio Calabria) nasconde ben altro. Agli emarginati e ai disadattati della città, organizzati e strumentalizzati dal neofascista Ciccio Franco, non interessa il prestigio regionale, visto che le loro richieste sono ben altre: «Perché non ci danno i cessi!». Nel sud molte sono ancora le zone con le fogne a cielo aperto (la periferia di Reggio; mentre a Matera ci saranno fino al 1976), e il degrado annulla le coscienze civili al punto che alle donne della città calabrese non rimane che affidarsi al trascendente e organizzare una manifestazione-processione con cartelli inneggianti alla Madonna: «Maria Santissima, solo tu ci sei rimasta!».
L’Italia, confusa e sconquassata, si affaccia in questo modo sul “decennio di piombo”: anni durissimi dove in un cocktail micidiale si sommeranno stragismo “nero” e terrorismo “rosso”, criminalità organizzata e bande di rapinatori, violenza proletaria e sadismo borghese, e il tutto confluirà nel delitto politico per eccellenza. Il 9 Maggio 1978, dopo un sequestro durato 55 giorni, il corpo dell’On. Aldo Moro (presidente della D.C.) viene trovato senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa posteggiata in Via Caetani a Roma. Un decennio incredibile, dove la violenza reale corre parallela a quella di una finzione (talvolta anticipando, più spesso sfruttando la realtà) fatta di immagini estreme che accompagneranno un’avventura di “massa”, che nel bene come nel male diventerà essa stessa estrema.
Il cinema italiano di “genere” si imbarbarisce improvvisamente (nel western, il genere tipico del secondo lustro degli anni ’60, lo spartiacque è Djiango di Sergio Corbucci), si settorializza e viene percorso da un irresistibile fremito di sperimentazione. Indiscriminatamente (dal bello o dal brutto) tutto diventa rappresentabile. Sesso, violenza, religione e politica sono ambiti che vengono centrifugati a folle velocità e sviscerati in tutte le loro varianti (anche le più esecrabili) e sugli schermi italiani esplodono, sotto forma filmica, come una bomba ad orologeria.
È il “terrorismo cinematografico” che funge da reazione uguale e contraria a quello reale, e che convoglia nello spettatore medio la catarsi verso le sue paure, i suoi drammi e il suo malessere sociale. È un’escalation calibrata e puntuale che trova nel “poliziottesco” (termine denigratorio utilizzato dalla critica per descrivere questa sorta di spaghetti western urbano e iperrealista) un terreno fertile per rappresentare la condizione da incubo delle città italiane. Città come Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova diventano “simboli” cinematografici al punto che il loro nome viene accostato alle parole “violenta” e/o “a mano armata”, per confezionare i titoli stessi delle pellicole. La gallina dalle uova d’oro viene ingozzata fino all’inverosimile e in un contesto discontinuo e disomogeneo sforna pellicole fino alle porte degli anni ’80, attraverso la progressiva ed esponenziale crescita di contenuti estremi, sia violenti che sessuali (a scapito di quelli narrativi e sociologici). Le parole con cui Lucio Fulci presenta la sua incursione nel “poliziottesco” sono emblematiche di quanto appena detto:
«Io avevo letto un’inchiesta giornalistica sul contrabbando e la trasformai con Mariuzzo in un film nero all’italiana. Ci divertimmo molto a farlo. In particolare a me diverte molto la scena della riunione nel ferry-boat. Anche la violenza per telefono non è male! Non sapevo che in realtà il film era stato prodotto dai contrabbandieri! Erano tutti simpatici e gentili… mai ho trovato migliori produttori. Consiglio a tutti di farsi produrre i film dai contrabbandieri.» (Marcello Garofano (a cura di) e Antonella De Lillo, Il cinema del dubbio: intervista a Lucio Fulci, in Nocturno dossier n.3, Settembre 2002, pag.21)
Nelle parole ironiche e amare del regista sono racchiuse le dinamiche che portano alla realizzazione di Luca il contrabbandiere, un film inclassificabile e sfuggente, situato nell’ “intergenere” frequentato costantemente da Lucio Fulci. Il regista romano accetta la proposta della Primex di Sandra Infascelli e scrive la sceneggiatura a quattro mani con il sodale Sergio Mariuzzo, che scrive il finale con i vecchi camorristi che difendono i contrabbandieri, mentre Ettore Sanzò innalza il tasso di violenza con l’aggiunta dello stupro/sfregio ai danni di Ivana Monti, scrivendo un soggetto che saccheggia alcuni dei film da lui firmati in precedenza, quali L’ultimo treno della notte (di Aldo Lado, 1974), La settima donna (di Franco Prosperi, 1978) e Bersaglio altezza uomo (di Guido Zurli, 1979), da cui proviene direttamente la scena di violenza carnale.
La scena in questione, punto focale nei due film, viene risolta con le stesse modalità sia da Zurli che da Fulci: la violenza carnale viene raccontata per telefono visto che, in entrambi i casi, il marito distante vive di riflesso, attraverso le grida della moglie, l’orrore dello stupro (che nel caso di Fulci diventa anale “Perchè uno sfregio deve essere uno sfregio” come sentenzia il marsigliese), acuendo così sia il tasso di violenza, che la rabbia (che si tramuta in vendetta) del coniuge. In entrambi i film, inoltre, lo scopo con cui viene attuato lo stupro è coercitivo: in Bersaglio altezza uomo per convincere Gengis ad uccidere il commissario, in Luca il contrabbandiere per convincere Luca a “convertirsi” allo spaccio della droga. La violenza carnale dunque, da entrambi i registi viene inserita all’interno del contesto matrimoniale, e diventa metonimia del conflitto sessuale tra i coniugi, visto che nei due film l’uomo subisce lo stupro (che potrebbe evitare) come estrema ratio prima di agire.
Fulci dirige con una perizia ed una eleganza decisamente inusuali per il periodo (basta fare il confronto con la sciatteria e l’approssimazione del film di Guido Zurli) e pone l’accento su villains truci e disperati che popolano una pellicola limacciosa e funerea. Luca il contrabbandiere viene girato tra il Dicembre 1979 e il Marzo 1980 tra Roma e Napoli per gli esterni, negli studi De Paolis per gli interni. Dopo due settimane di riprese però i soldi finiscono e il film viene finanziato dagli stessi contrabbandieri, Pare infatti che a “supervisionare” le riprese ci fosse anche Giuseppe Greco (figlio del boss mafioso Michele Greco, detto “il papa”), che a metà degli anni ’90 dirigerà Vite perdute (firmandolo come Giorgio Castellani, 1991) e I Grimaldi (1999) un film che appare come un’apologia autoassolutoria nei confronti del padre e di tutta la famiglia Greco.
«Un giorno per la scena di un funerale, mi seguono otto motoscafi, anziché tre come di consueto. Scendono alcuni uomini e mi dicono che dobbiamo andare a parlare con delle persone; mi caricano su una macchina , mi fanno scendere, mi ricaricano su un’altra macchina e finalmente mi fanno entrare in un enorme night vuoto: lì vedo quattro uomini seduti in fondo e un signore, un certo Gianni Brilcream, il quale, gentilissimo, mi offre tutta la sua disponibilità per risolvere qualsiasi problema che eventualmente si verifichi durante la riprese. Testi, che aveva minacciato di lasciare il set se non avesse avuto la diaria, immediatamente fu accontentato: questi uomini fecero una colletta nei negozi e noi pensavamo che i negozianti fossero loro amici che prestavano soldi… se li mettevano nei pedalini e ce li davano; Testi ancora se lo ricorda…tanto carucci, correttissimi. La produttrice, la vera produttrice, la signora Infascelli, invece non mi pagò…» (ibidem)
Il film si inserisce nel filone napoletano del “poliziottesco” che sul finire degli anni ’70 si imbastardisce con la sceneggiata napoletana e trova il suo mentore nel cantante/attore Mario Merola, sfornando titoli di chiara matrice partenopea quali Napoli: Serenata calibro 9 (1978), Napoli … la camorra sfida, la città risponde (1979), I contrabbandieri di Santa Lucia (1979), tutti diretti dal regista napoletano Alfonso Brescia. La Napoli dei film di Brescia è solare e ridanciana e le scene di violenza si alternano a siparietti comici e a canzoni interpretate fragorosamente da Mario Merola.
Luca il contrabbandiere, invece, non è solo il colpo di coda di un genere in agonia, bensì la trasposizione per immagini di un clima pessimista e minaccioso che si respira non solo a Napoli ma in tutto lo stivale, da Milano a Corleone (parafrasando il crepuscolare titolo lenziano del ’79 Da Corleone a Brooklyn). La Napoli del film di Fulci è livida, senza sole, stretta nella morsa del freddo invernale, circondata da un mare nero che trasuda odore di morte (e infatti molteplici sono i cadaveri che finiscono in acqua, pure il funerale di Michele Ajello si svolge sull’acqua), e schiacciata da un cielo plumbeo perenne, che sembra togliere respiro agli stessi personaggi. La fotografia di Sergio Salvati predilige il nero come colore dominante e “affoga” le immagini in colori cupi e pastosi, senza creare differenze tra il giorno e la notte, e tenendo una parte della scena sempre nascosta nell’ombra.
Anche i personaggi presentano una parte del volto oscurata, e perfino le luci sono soffuse e immerse nell’oscurità per inquadrare solo quella parte di scena necessaria alla comprensione dell’azione. Gli spazi sono stretti, angusti e riquadrati, sia che si tratti delle cabine dei motoscafi o dei ferry-boat, sia che si tratti di appartamenti percorsi da lunghi corridoi ripresi con il grandangolo; perfino gli esterni, con i budelli dei Quartieri Spagnoli, restituiscono una situazione di soffocamento e asfissia. Anche le parole nel film assumono un peso particolare, come il «No» secco e brutale pronunciato a più riprese da Fabio Testi, che oltre a non prevedere possibilità di replica, prelude sempre a situazioni catastrofiche: il tradimento di Perlante, l’abbandono della moglie e lo stupro finale subito dalla stessa. Il «No» di Luca Ajello è uno spartiacque esistenziale: il simbolo della vendetta scelta da un uomo solo che va sciaguratamente incontro al suo destino.
Luca Ajello (Fabio Testi) e suo fratello Michele sono possessori di diverse barche e motoscafi per il contrabbando delle sigarette a Napoli. Un giorno, perdono un carico con un danno di duecento milioni e, quello che è più grave notano che gli equilibri tra boss sono stati turbati. Inizialmente sospettano che si tratti di un certo Sciarrino e Luca, dopo l’assassinio di Michele e di altri capi, lo affronta direttamente. Sciarrino, però, si dichiara innocente e, del resto, a sua volta fa una brutta fine per mano di ignoti…
Luca il contrabbandiere presenta una lunga serie di efferatezze rese esplicite attraverso gli espedienti splatter tipici del cinema horror: la faccia della spacciatrice (Ofelia Mayer) bruciata con un fornello, il volto di Luca tumefatto e sanguinante dopo un pestaggio, la testa di Capece (Tommaso Palladino) fatta esplodere con un colpo di pistola in bocca, la gola di Luigi Perlante (Saverio Marconi) squarciata da un proiettile e infine la brutale sodomizzazione di Adele (Ivana Monti). Eccessi non del tutto avulsi dal “poliziottesco”, come esemplificato da film quali Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi (che presenta, tra l’altro, la morte del criminale tra mucchi di spazzatura, la stessa fine che tocca al Marsigliese nel finale del film di Fulci), o Napoli spara! (1977) di Mario Caiano (con un motociclista che viene decapitato da un filo teso tra due alberi), ma che per la loro carica eversiva (nei confronti del pubblico), come pure per l’intrinseca violenza che cresce esponenzialmente nello svolgimento, rendono Luca il contrabbandiere un film e metà strada tra l’horror e il poliziesco.
Un film “intergenere” o “intragenere”, che utilizza gli stilemi del “poliziottesco” per sventrarli dall’interno, che destruttura la narrazione in funzione di una messa in scena ellittica che fa dell’alternanza tra violenza e romanticismo il suo punto di forza; un film organizzato secondo uno schema manicheo tra buoni (romantici) e cattivi (brutali), tra tradizione (Adele, la vecchia camorra) e emancipazione (il Marsigliese e il milanese Perlante). Luca il contrabbandiere è un film in bilico tra passato e presente, i quali sono rappresentati da due scene antitetiche che, nella loro linearità, diventano archetipi di due modi contrapposti di intendere la vita.
Il passato è sintetizzato nel “giorno della mattanza”: dopo cinquanta minuti di film, il montaggio sequenziale degli avvenimenti di domenica 9 Marzo, assume i connotati della cronaca scandita da didascalie con giorno, ora e luogo dell’omicidio, tra chiese, famiglia e camere da letto, mettendo in scena in pochi minuti (con uno stile che ricorda la strage del battesimo de Il Padrino) il connubio micidiale tra ipocrisia, bigottismo e violenza tipico della malavita del sud Italia. Il presente invece è rappresentato dall’incontro tra Luca Ajello e il Marsigliese, sulle gradinate dello stadio S. Paolo di Napoli durante la partita Napoli – Juventus. Il marsigliese chiedendo di unire le forze afferma: «Con le sigarette avete mangiato pizza e spaghetti; io vi offro caviale e champagne». La scena si chiude con un goal del Napoli e uno zoom violento allarga l’immagine su tutta la curva; segue una panoramica sul golfo di Napoli, mentre l’urlo dello stadio rimane fuori campo fino a quando la macchina da presa inquadra il ferry-boat, all’interno del quale sono riuniti i contrabbandieri per scegliere se rimanere a tavola con “pizza e spaghetti” o provare “caviale e champagne”.
Se il passato è rappresentato dalla morte dei vecchi capi-paranza, che muoiono tra le contraddizioni democristiane di “casa, chiesa e camorra”, il presente è rappresentato da giovani rampanti milanesi (non a caso, visto che negli anni ’80 Milano sarà la capitale dell’edonismo e la città “da bere”) che tradiscono la vecchia guardia, abbandonano il territorio e sposano la causa dei nuovi ricchi e della droga. Che il tradimento avvenga sulle gradinate di uno stadio (tempio domenicale degli italiani) non fa che rafforzare l’importanza simbolica che hanno i luoghi in Luca il contrabbandiere. Come confermato dalla scena seguente, che presenta la retata della guardia di finanza nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, dove il contrabbando va a braccetto con la quotidianità e dove Fulci, con stile semi-documentaristico, riprende scene di vita “familiare”: donne in rivolta che imboccano neonati e mariti che scappano con la refurtiva o con un piatto di spaghetti in mano, perché come dice Luca Ajello: «Ci sono duecentomila napoletani che vivono di contrabbando e noi non possiamo mica fermare le paranze».
Altro elemento in bilico, tra tradizione ed emancipazione, è quello del rapporto contrastato tra Luca e sua moglie Adele, che all’inizio del film, dopo cena, all’ennesimo rifiuto da parte di Luca di uscire assieme, sbotta: «Non farmi sentire la moglie tradizionale che si lamenta e che rompe le scatole al marito. Era tutto così diverso a Milano». Luca, infastidito, replica: «Sì a Milano… era tutto così diverso a Milano. Facevamo la fame a Milano, non te lo ricordi più?». Luca infatti è giunto a Napoli dal fratello Michele dopo essere rimasto disoccupato a causa della chiusura della fabbrica dove lavorava. Adele, stizzita, gli rinfaccia di essere un poco di buono e di pensare solo più ai soldi: «Perché, chi sei tu adesso? Sei un contrabbandiere… ecco cosa sei; uno che rischia la vita tutti i giorni, che ha degli splendidi quadri alle pareti, che ha dei magnifici mobili … e un matrimonio che va a puttane». In questo dialogo teso e nervoso Fulci concentra il suo pessimismo, nell’accenno ai licenziamenti di massa (il 1980 è l’anno dei 37 giorni di sciopero degli operai della Fiat) e instillando nel rapporto di coppia l’abbandono dei valori tradizionali (la famiglia) per inseguire un (facile) benessere fatto di estetica e spreco, una scelta che l’Italia conoscerà di lì a poco, nel decennio che sta per cominciare.
Per esplicitare questo concetto, Lucio Fulci inserisce dopo il litigio tra Adele e Luca una scena programmatica. In una discoteca, sulle note di “Do you Remember Saturday Night” (scritta dallo stesso Fulci), la macchina da presa si introduce in uno spazio astratto reso al meglio dall’uso della luce stroboscopica: un tunnel nero dove a intermittenza (quasi subliminale) si alternano i volti di Luca e Michele, le nudità di due ragazze, e le parti intime eccitate nei pantaloni di Luigi Perlante, quasi a tradurre per immagini la “bella vita” sognata dai protagonisti. La scena si chiude con la chiosa di Perlante che, rivolto a Luca e Michele li apostrofa ironicamente: «Allora padre di famiglia, che ci fate voi qui?».
Sul film, infine, domina una figura a metà tra il reale e il simbolico, una sorta di rappresentazione dello status quo territoriale che non esita a smettere i panni del “pensionato” per riportare ordine e chiarezza e per cacciare lo straniero (il Marsigliese), indesiderato intruso in un luogo che né lo vuole, né lo accetta. Don Morrone è l’archetipo del vecchio camorrista, rispettato e riverito dal popolo (come nell’ultima scena al mercato) così come dalla polizia: una sorta di anima occulta ma presente, che protegge la città nel rispetto delle regole d’onore e della tradizione. Nel film compare la prima volta attraverso una panoramica che inquadra un soffitto su cui è dipinto un cielo popolato da santi («Quelli hanno i loro santi in paradiso», afferma un poliziotto al funerale di Michele) e da lì lentamente scende ad inquadrare il vecchio boss sprofondato in una poltrona barocca («Anche più in basso» replica il commissario), intento a guardare compiaciuto uno spaghetti-western alla televisione. Il padrino compare altre volte nel film, inquadrato sempre nello stesso modo mentre con il telecomando cambia canale (sul piccolo schermo vediamo un film erotico, un poliziesco…), alla ricerca del western (che puntualmente trova), quasi come se Fulci volesse esprimere una nostalgia per il passato non solo storico ma anche cinematografico.
Quando entra in scena l’ultima volta lo vediamo intento a vestirsi, con la cameriera Filomena che gli dice: «Si stava meglio quando c’eravate voi Don Morrone», e il padrino le risponde: “Altri tempi… e altri uomini”. In montaggio alternato seguono le immagini degli “amici”, ormai professionisti rispettabili, che ri-impugnano le armi per riportare lo status quo. Nella carneficina finale, i vecchi boss compaiono all’improvviso (da una cabina telefonica, da dentro un furgone, dietro ad una saracinesca…), uccidono e poi spariscono come inghiottiti dalla città stessa. Fulci, che è tra i sicari e spara con un mitra, cuce addosso a queste figure l’immagine del potere (pre)costituito, che uccide e rimane impunito, riceve il plauso della popolazione e il ringraziamento della polizia: criminali per una notte, che il mattino dopo tornano ad essere insospettabili borghesi.
Nel finale, ironicamente soleggiato, Don Morrone interrogato dal commissario se egli abbia o meno partecipato alla mattanza, risponde (riferendosi allo stupro di Adele): «Io ho solo aiutato una povera ragazza che non doveva passare quello che ha passato». La giustificazione del sistema di potere democristiano, che «compie il Male per ottenere il Bene», viene letta attraverso un populismo autoassolutorio e referenziale che traccia il solco della tradizione, affronta il presente con i metodi del passato e rimane “clamorosamente” vincente in una città (e in un paese) dove il popolo sposa indiscriminatamente la causa di chi “risolve i suoi problemi”. Fulci chiude il film con un sorriso amaro e machiavellico (il fine giustifica i mezzi), con la chiosa beffarda dello stesso Don Morrone: «Capità, co’ sto sole… la droga che c’entra?».
Luca, il contrabbandiere è il canto funebre non solo del cinema “poliziottesco”, bensì di tutto il cinema di genere (sarà lo stesso Fulci, due anni dopo, a riportare tutti “sulla terra” con Lo Squartatore di New York), un’ultima scheggia impazzita (con una regia elegante e raffinata) che affoga in un bagno di sangue una stagione gloriosa, e contemporaneamente funge da preludio ad una nemesi persistente e duratura. È l’urlo disperato e rabbioso del cinema italiano, vittima di se stesso, dei suoi egoismi, della sua inadeguatezza e della sua superbia: che questi, in fondo, siano gli stessi problemi che ammorbano i vari settori pubblici dell’Italia non è casuale, ma solo complementare. Non a caso, il “poliziottesco” muore nella città partenopea, un luogo dove lo Stato è sempre più debole e inefficiente, dove sui muri della città al posto delle scritte di matrice politica vengono vergate suppliche d’aiuto: “Napoli ha fame, dateci il pane” (come si vede nel film di Fulci) e dove, addirittura, nei primi anni ’70 ricompare il colera e lo spettro di un’epidemia.
Quelli sono anni da incubo per Napoli, anni in cui la classe dirigente tende a nascondere i problemi sotto il tappeto e a proporre l’immagine da cartolina del golfo di Napoli con il Vesuvio; ma il colera proviene dall’immondizia che viene buttata in strada (allora come oggi), e l’amministrazione non può più nascondere le proprie malefatte. Il colera è un tornado che spazza via ipocrisie e illazioni e svela una realtà fatta di corruzione, incapacità e impotenza al servizio di una fitta rete clientelare che cura i propri interessi e abbandona i cittadini ad un amaro destino. I 200 mila Napoletani che vivono di contrabbando sono citati a più riprese nel film di Fulci, sono i cozzicari, i pescatori, gli ambulanti che vengono accusati (dal Comune!) di essere i responsabili della diffusione del colera perché non rispettano le regole.
“Il colera viene da Palazzo San Giacomo”, recitava una scritta riportata in una foto di Piazza Plebiscito del 1973, esplicitazione popolare del fatto che il Comune se n’è lavato le mani e che la sua impotenza ha permesso lo sfacelo: la speculazione edilizia (Le mani sulla città di Francesco Rosi è del 1963) non ha organizzato una rete urbana funzionale, non si è preoccupata di tenere pulite le fogne, né di raccogliere la spazzatura, né tanto meno di educare il cittadino e neanche ha pensato di risanare i quartieri degradati per offrire a quei “200mila Napoletani” una possibilità dignitosa di lavoro. Poco o niente è cambiato da allora, e se Don Morrone fosse ancora vivo, la sua chiosa, beffarda e riparatrice, oggi sarebbe: «Capità, co’ sto sole…a ‘munnezza che c’entra?».
– Fabrizio Fogliato
Luca il contrabbandiere
regia: Lucio Fulci; soggetto: Ettore Sanzò, Gianni De Chiara; sceneggiatura: Ettore Sanzò, Gianni De Chiara, Giorgio Mariuzzo, Lucio Fulci; fotografia: Sergio Salvati; montaggio: Vincenzo Tomassi; musica: Fabio Frizzi; suono: Guido Celani; costumi: Massimo Lentini; scene: Francesco Calabrese; produttore: Sandra Infascelli; interpreti: Fabio Testi (Luca Ajello), Marcel Bozzuffi (Françoise Jacquin, detto il "marsigliese"), Ivana Monti (Adele Ajello), Guido Alberti (don Morrone), Saverio Marconi (Periantel), Venantino Venantini (dott. Tarantini), Ajita Wilson (Luisa), Ferdinando Murolo (Sciarrino), Daniele Dublino (giudice istruttore), Enrico Maisto (Michele Ajello), Giordano Falzoni, Giulio Farnese (Squillante), Fabrizio Iovine (capitano di finanza), Ofelia Meyer, Tommaso Paladino (Capece), Luciano Rossi (biondo col marsigliese), Salvatore Billa, Virgilio Daddi, Romano Puppo (guardiaspalle del marsigliese), Cinzia Lodetti (Ursel), Giovanni Pazzafini (scagnozzo di Sciarrino), Rita Frei, Aldo Massasso, Antonio Mellino, Giorgio Ricci (acrobata), Attilio Severini (acrobata), Romano Capanna (acrobata), Giuseppe Mattei (acrobata); produzione: C.M.R. Cinematografica, Primex Italiana; distribuzione: C.I.D.I.F. Consorzio Italiano Distributori Indipend. Film, Cinedaf; censura: 75421 del 07-08-1980; paese: Italia; anno: 1980; durata: 97′
Della composita filmografia di Lucio Fulci, Rapporto Confidenziale si è occupato in più di un’occasione e continuerà a farlo. Per questo motivo, l’elenco di articoli riportato qui di seguito va inteso come un lavoro in divenire:
• Lucio Fulci – Biografia articolo di Roberto Rippa
• All’onorevole piacciono le donne (1972) recensione di Paul Bari [RC22]
• Non si sevizia un paperino (1972) recensione di Roberto Rippa
• Zombi 2 (1979) recensione di A.Cavisi, A.Galbiati e R.Rippa [RC16]
• …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981) recensione di Roberto Rippa
• …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981) Podcast by TreRose (di Francesco Moriconi con Francesco Troiano)
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