Cronache e impressioni da Pesaro 49

Infinite Jest
49° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 24-30 giugno 2013

a cura di Francesco Selvi

 

Un Nebbiolo delle Langhe e Alan Sorrenti aprono i canali del sodio o del potassio… sarebbe da verificare. O meglio, bisognerebbe saperlo, quale canale si apre e da lì comincia il potenziale d’azione? La memoria fa cilecca e come un Mike Bongiorno avariato mi squalifico da solo. È il secondo giorno del festival, martedì 25 giugno 2013, le 19 circa e comincio col piede sbagliato. Sì, sbagliato. Quest’anno mi ero raccomandato di non strafare, non infarcire, non agghindare… insomma, un po’ di rigore per dio! e scusate il minuscolo, per me lo è da sempre, minuscolo… ma io allora che sono, pulviscolo? meno, se possibile. Quest’anno me la sono presa comoda, di lusso sarebbe meglio dire. Non solo amico mi ospita, nella scassatissima Punto senza virgola alcuna la mia Olympia c’è stata, dietro, togliendo la ruota davanti [Nota del traduttore: in questa frase il Nostro amatissimo ci comunica che quest’anno a Pesaro ha potuto giovarsi dell’ospitalità di un amico e che ha raggiunto la città in auto, modello Fiat Punto, trasportando nei sedili posteriori un bicicletta modello Olympia alla quale, per meglio alloggiarla, ha levato la ruota anteriore]. Ebbene si presentava già il cruccio che poi mi perseguiterà per la durata del festival: bici o film? Le Marche, terra meravigliosa, paiono la guanciotta martoriata dall’acne di un ragazzino delle medie, sono cioè cosparse di collinette meravigliose da domare con la bicicletta, col fiato corto, i muscoli tesi e pieni di acido lattico che urlano basta! pietà!, la volontà che sola può portare avanti questa carcassa ammaccata, una pedalata, un’altra, sempre più su come se si volesse bucare il telo del cielo e guardarvi finalmente oltre, toccarlo quest’oltre, verificarlo. Un’ascesa quindi non solo fisica, sarà l’ossigeno che mano a mano fatica ad arrivare causa lo sforzo fisico, insomma vedere un puntino lassù e non arrivarvi mai, però insistere, lavorio di quadricipiti femorali, tendini, rotule ma anche di cervello e soprattutto gran lavorio di volontà, volere ciò che non si può proprio perché non possibile… aspirare l’impossibile, tendersi. Beh, sto mica esagerando? Forse forse. Riuscirò comunque a fare, in abbondanza, entrambe le cose, grandi pedalate e copiose visioni. Prima di buttarmi sui film la mattina mi sgrano 80 km in bici, con quella tutina bianca della Bianchi (scusate il gioco di…) che mi fa sembrare uno spumino enorme e pedalante. Su, sempre più su fino a Saludecio, Mondaino, poi il monte San Bartolo, delirio. Pomeriggio, tempo di cinema. Quest’anno la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema ha un programma ottimo, focus sul nuovo cinema cileno, l’animazione al femminile russa, il cinema italiano contemporaneo di ricerca, oltre naturalmente al concorso internazionale. Beh, arrivo il primo giorno, lunedì, caldo marziano, si sudano 7 camicie e 24 t-shirt e non so quante mutande, sempre che le si cambi… insomma, ho le traveggole, i pensieri scorrono via insieme al sudore e allora forse è per questo che un arzillo vecchietto, con fare da grande cerimoniere del cinema, guru della critica, uomopensanteonniscientefolgoranteilluminante entra nella saletta dove tutti da bravi bravi stiam facendo la fila, lui arriva e salta, olè, come nemmeno il Generale Bubka… rimango basito… ma come?! Allora siam proprio tutti uguali, cinema o no, ci ha dribblati come la peggior anzianotta che fa finta di non sentire o non vedere causa glaucoma e passa la fila tanto ha preso solo una zucchina e un barattolo di ceci, insomma, mi scopro collerico, vorrei dire qualcosa e invece me ne sto zitto davanti al Sai Baba della settima arte. Tullio Kezich avrebbe fatto la fila? Secondo me sì. Vorrei dirglielo, spezzare una lancia o una gamba del tavolino finto dèco, ma mi mordo solo la lingua. Lui intanto sta chiedendo come mai quest’anno soltanto due libri e non tre e poi non c’è la maglietta. Mi torna alla mente una bella invettiva del Galbiati contro i soldi al cinema, chissà se il vegliardo l’ha letta?! Il vegliardo che sicuramente ha lottato contro la società dei privilegi ma non vuol fare a meno dei suoi piccoli cazzo di privilegini come passare davanti a due sbarbatelli (io non proprio, ho una barba di mesi che ormai non mi riconosco più) o avere più libri, solitamente senza mai cacciar fuori un euro che sia uno. Voglio un panzer, rottamo la Punto e compro un panzer!!! Dite che se faccio un buon progetto su kickstarter trovo i fondi? Con astio e sudore mi infilo nel cinema sperimentale, teatro usuale di grandi dormite. Chissà se prima o poi installeranno un bel bar all’interno della sala, sarebbe magnifico e farebbero i miliardi o quasi con caffeina da tener svegli i ghiri. Si comincia subito con l’evento speciale FUORI NORMA, dedicato al cinema sperimentale italiano contemporaneo e curato da Adriano Aprà [Nota del traduttore: Il programma dell’evento speciale a cura di Adriano Aprà, dal titolo 27° Evento Speciale: Fuori norma. La via sperimentale del cinema, si è articolato in una ricca selezione di materiali filmici e 4 programmi dedicati ai cortometraggi. Nel passaggio specifico Selvi si riferisce al Programma 1]. Il lavoro del critico è da sempre volto alla ricerca, di nuovi mezzi, di nuove contaminazioni, di cinematografie inusuali (nel ’90 dedicò un pionieristico focus al cinema iraniano)… purtroppo però quello che vedo mi fa pensare sempre meno alla ricerca, dato che lo stile, la musica e il mood complessivo dei film selezionati è decisamente troppo simile fra loro… allora mi chiedo dove sia questa ricerca. Unica mosca bianca è Lido di Mirko Santi, sorta di possibile svolta del documentario naturale per il secolo corrente, fra squarci lirici e imperfezione visiva, una vera piccola chicca in ali di insetto. Non mi dilungo sul resto, sorta di trito e ritrito con la sempre presente elettronica, la sempre mancante ironia e le idee vacanti. Ci pensa un messicano a salvarmi dalla noia, il primo film in concorso è Halley, opera prima del 33enne Sebastian Hofmann… ha la mia età e ha già snocciolato un lungometraggio presentato al Sundance e a Rotterdam… che bile, che bile.

 

 

Beto lavora in una palestra come guardia di vigilanza, è un uomo sulla quarantina solitario e introverso la cui vita sembra tutt’altro che esaltante, sembra dannatamente ordinaria, triste e banale. Se ne capiranno presto i motivi, dato che Beto ha un segreto da nascondere, un segreto che non gli consente una normale vita privata, un segreto da occultare con bagni perpetui e profumi al gelsomino, bende ed unguenti. Beto è uno zombie. Ed è uno zombie che tenta di vivere, di andare avanti nonostante tutto, nonostante le ferite del suo corpo e della solitudine così radicata da essere come una piaga inestinguibile. Ogni giorno affronta il vuoto delle persone che diversamente da lui hanno un corpo in forma e tonico, con ingegno e ironia infatti Hofmann decide per Beto un lavoro in una palestra, presentando sempre la contrapposizione fra questi fisici scolpiti nel marmo e la pelle cadente, penzolante e ulcerata del nostro zombie. La proprietaria della palestra rimane allibita quando Beto, che non ha mai dato problemi e che fatica a parlare, le annuncia la propria dipartita dal lavoro. «Ma perché vuoi andartene, non ti trovi bene, c’è qualche problema che ti assilla?». Beto le dice di essere malato, tralasciando il tipo e i sintomi della malattia in questione, ma a lei si accende la spia della crocerossina, un po’ inspiegabilmente allora si prende a carico l’evidente depressione del proprio dipendente e gli chiede di uscire. Alle prime Beto contrappone reticenze, dubbi e no no no, infine cede alle insistenze. Magia dell’essere umano, anche quando zombie, se due anime si aprono l’una all’altra sono capaci di smuovere mondi, galassie, neuroni, fasci di His, muscoli, vasi seno atriali e cuori in toto. Due solitudini che si schiudono pian piano, si rompe la crosta, si sfalda mano a mano come a causa di un movimento tellurico, non c’è Richter che tenga, non c’è Ritter che tenga, nemmeno quello bianco alle nocciole… i due mondi si avvicinano, quasi si toccano, si prendono cura l’uno dell’altra. Poiché ogni uomo, come la cometa Halley, è visibile per qualche attimo, poi scompare e anche se si sa della sua esistenza non sappiamo più come fare a raggiungerlo… scomparso, fluttuante nella galassia infinita e silenziosa eppur presente. Beto torna a casa e per la prima volta non si nota il suo lento decomporsi, poiché è vitale, sprizza da ogni poro una nuova linfa che niente è se non la voglia di stare al mondo nonostante tutto… finisce tutto con una sega, non quella coi denti, che lo lascia secco e stecchito come era inevitabile ma anche felice come forse non pareva possibile. E infine il tocco magistrale, Beto sogna sul punto di morte, sogna se stesso, mentre viaggia su una nave che solca i ghiacci e sancisce l’avvento di un uomo nuovo, la cui unica possibilità è tentare di vivere assaporando pienamente se stesso e gli altri, unico modo per essere uomini e non zombie su questa terra. E tutto ciò a 33 anni, complimenti. Il pomeriggio proseguirebbe, io invece me la filo a casa, letture e chiacchiere fino alla sera, la volta del secondo film in concorso, Dolgaya Schastlivaya zhizn (A Long and Happy Life) del russo Boris Khlebnikov [sezione "Femminile plurale. Animazioni russe"].

 

 

Il regista lo aveva già notato fuori dalla sala, un colosso degli urali silenzioso… come tutti gli stranieri che si sentono soli giochicchiava col cellulare, aspettando telefonate che non arrivano o anche facendo solo finta di scorrere i messaggi già letti e riletti miriadi di volte… quante volte ho finto anch’io tutto un daffare telefonistico, guai far vedere che sì, è proprio così, si è dannatamente da soli e magari si avrebbe una voglia matta di fare due chiacchiere anche sul meteo, su quant’è buona la piadina, sulla zia Linda che ha messo un corno (attenzione attenzione) alla crema allo zio Alberto, sulla situazione in Medio Oriente o sull’estinzione del kiwi neozelandese. Non faccio in tempo ad attaccar bottone che comincia il film, tutti in sala in fila per due, da bravi, fischietto, un piegamento, un altro, seduti. Già al Festival di Trieste (2013, 2012, 2011) ho incontrato la nuova Russia attraverso i suoi nuovi registi, questa Russia che ha fretta di riguadagnare il tempo perduto, piena di nuovi ricchi spocchiosi, invasa dal cemento, troie a pagamento, arte contemporanea, kalashnikov, cocaina e Rolls Royce. Il film di Khlebnikov non si distanzia dall’idea che mi ero fatto di questo paese sino ad ora: come fare a dire di no ad una proposta super allettante? Vi hanno mai proposto soldi, una marea di soldi, per calpestare magari quelli che avevate sempre predicato come ideali? Quanto sono ferme le nostre idee, quanto valgono in soldi? Perché se le bugie hanno le gambe corte le idee e i valori le hanno forse ancora meno lunghe… nanismo? Una sorta di focomelia agli arti inferiori? La convinzione verso ideali va sempre misurata nel momento dell’arrivo di un assegno in bianco… vedrete come tanti santi talebani integerrimi cadranno come birilli dalla propria cattedra di credo e dogmi. Sasha ha sposato la causa dell’agricoltura, di una vita rurale al di fuori e lontano dalla città, dove ha trovato una propria dimensione… la deliziosa Anna, bellezza siderale, scalda il suo cuore e insieme sognano il futuro. Che arriva accompagnato da rulli di tamburi, in pompa magna. Lo stato sta comprando gli appezzamenti di terreni dai proprietari terrieri per poi dedicare tali terreni a costruzioni di maggior profitto, per Sasha è un modo di sviare dalla vita di contadino e tornare in città con un bel gruzzoletto, facendo così felice anche la bella Anna. I mediatori per lo stato sono grigi, squallidi, ammalati di burocrazia e terribilmente pettinati e sistemati come solo chi ha a che fare coi soldi riesce ad essere… penso solo quando per esempio mi capita di entrare, orroreorrore, in una banca… ma così facendo, accettando i soldi di tali figuri, Sasha vende non solo i propri sogni infranti, ma anche le possibilità dei contadini che lavoravano per lui e con lui. Ricordandosi di essere russi i contadini insorgono, non ci stanno, bofonchiano, smoccolano, tentano di convincere Sasha a desistere usando il buon vecchio metodo del senso di colpa… e funziona! Il giovane non se la sente, sarebbe come tradire tutte quelle persone che senza di lui si sentono perse, ma soprattutto sarebbe come tradire se stesso. Anna capirà? Anna capisce solo che così facendo lei è costretta ad accettare un uomo che perennemente avrà la fanga attaccata ai piedi, la sera, al rientro dal lavoro nei campi… un uomo stanco che dopo aver mangiato una zuppa riscaldata se ne andrà a letto per la troppa fatica… un futuro che Anna schiva con eleganza, scomparendo nel buio… strano come nelle coppie si nascondano tanti Mandrake pronti, al minimo problema o incomprensione, a scomparire e farsi fumo, ricordo. Sasha a questo punto non ha più niente che lo trattenga dalla sua guerra, nella quale si getterà con la convinzione che, insieme ai contadini, si possa riuscire a mandare avanti l’azienda con ottimi risultati… per far ciò bisogna però sgobbare e questo, sia in Russia che altrove, non è mai piaciuto troppo a nessuno, così i contadini pian piano se ne vanno verso altri lidi lasciando Sasha come un allocco. Sempre più solo, Sasha è al limite dell’oligofrenia; braccato dai mediatori, veri cani segugio, il contadino non riesce più a sostenere le proprie scelte che ormai pesano come un macigno, almeno non a parole… il piombo sarà risposta ben più chiara alle insistenze di questi figuri sinistri… e Sasha, prossimo alla follia, tornerà nella propria casa/capanno trovando Anna ad aspettarlo… ritrovato l’amore, il nostro, finalmente, potrà stendersi accanto alla propria fidanzata, serrato in un mutismo che tenta di mantenere una calma passeggera che sarà presto, assai probabilmente, rotta da sirene di una qualche di forza dell’ordine. Ecco che succede nelle campagne russe, sistemi che sopravvivono da lustri vengono spazzati via come se niente fosse… ma attenti, c’è chi potrebbe impazzirne! Martedì si comincia forte, fortissimo… mi alzo di buon’ora, guardo il programma, niente che mi faccia strappare capelli o mutande… non rimane altro da fare che inforcare la bici. Che orrore fanno i ciclisti, coi loro tutini multicolori attillati, i caschi aereodinamici, lo sguardo determinato e quelle due scarpe che dovrebbero esser vietate da tanto sono brutte… dicono che la funzionalità sia molto più importante dell’estetica, io non sono del tutto d’accordo… però me le infilo anche io, quasi piangendo, scarpette Vittoria grigie argento con gli strappi neri… manco fossi Fred Astaire! Ballo sui tacchetti nelle cime marchigiane, tiptap rotatorio e via, il pomeriggio arriva col suo carico di film, suggestioni, buio in sala e luce nel cranio. Ed è proprio di luce che si parla nel film del decano del cinema cilena, del nuevo cinema cileno (quello di Lelio e compagnia è il nuovissimo!).

 

 

Patricio Guzmán è un grande, un enorme del cinema cileno, con all’attivo decine di film e documentari, un’incarcerazione, un espatrio, diversi premi vinti e migliaia di applausi ricevuti, un curriculum niente male insomma. Con grande intuito Guzman tenta di raccontare la storia cilena a partire da un luogo, il deserto di Atacama, dove la natura si fa realmente lunare e ostile fino a raggiungere picchi di bellezza inarrivabili… cosa ben strana, ma in fondo anche ciò che è altamente inospitale ci attira… Atacama è un luogo cruciale grazie al quale il regista instaura la propria riflessione sulla memoria ed il rapporto dei cileni con questa. Per la limpidezza del cielo data dalla quasi totale mancanza di umidità nell’aria, Atacama è un luogo di preferenza a livello mondiale per l’osservazione del firmamento. Qui studiosi di ogni angolo del pianeta si ritrovano al centro astronomico per guardare stelle ormai morte da secoli, ma delle quali percepiamo ancora la luce… poiché la luce che arriva sino a noi è intrisa di significato, quella polvere che viaggia per miliardi di chilometri ci prova l’avvenuta nascita e la vita e la morte di intere galassie… Abitate? Simili alla nostra? Inospitali? Tutte domande che ci poniamo per la sete insanabile dell’uomo di sapere l’inconoscibile, di rafforzare sempre più le proprie perplessità… Atacama quindi come porta per lo spazio e per la storia infinita di nascita e morte che è incisa nel cielo sopra le nostre teste. Ma questo spazio magico ha anche altre peculiarità: è infatti una vera miniera di siti archeologici. Antropologi e archeologi tentano di ricostruire la vita legata ai disegni rupestri e ai reperti rinvenuti nel terreno sconfinato di quell’area… poiché l’uomo ha bisogno del passato per essere qualcosa nel presente, per avere un senso nel presente. Ma altra tipologia di persone è alla ricerca nel sottosuolo di Atacama, persone legate al passato come gli astronomi e gli archeologi, un passato tutto Made in Chile e santificato anche da quel simpatico attore fallito a nome Wojtyla che non si fece alcuno scrupolo a stringere mani insanguinate come quelle del dittatore Pinochet. Quest’ultimo, forte del supporto americano e come si è visto benedetto anche da Santa Madre (di chi?) Chiesa, uccise schiere di cileni dissidenti, i cui corpi dovevano sparire… quale posto migliore del deserto di Atacama. Così donne insonni, imbambolate da psicofarmaci ma lucidamente decise a ritrovare i propri cari o ciò che ne resta, scavano in lungo e in largo la propria pena in questo deserto che è come un libro di storia delle vicende di un paese il cui presente è ancora legato, e fin troppo, a un passato pesante. Si accendono le luci e due file di fronte a me accade qualcosa… finalmente, altrimenti oltre alle paroline dei saccentoni (che bello, algido, algido…) ai festival non succede mai un bel cazzo… un uomo è piegato su se stesso, si trattiene per pochissimo poi crolla, irrompe in lui un pianto infinito, insanabile… c’è sempre un certo imbarazzo verso il pianto altrui, sorta di nostra pochezza verso i sentimenti del prossimomi stupisco, non so che fare, manco avessi almeno un fazzoletto da offrire, nulla… se ne va via così, con dei balzi alle spalle che paiono doversi staccare ad ogni scrollone… potenza del cinema, non solo di creare emozioni nello spettatore, ma anche di creare ponti (istantanei, che magari durano un attimo) fra esseri sconosciuti… ebbene sì, il pianto di quest’uomo mi turba, invidio la capacità di saper emozionarsi in tal modo, di non dover per forza nascondere le lacrime quasi siano una colpa… io invece mi guardo semplicemente in giro spaesato, rinchiudendo dentro a me stesso ogni reazione a un film magnifico come Nostalgia de la luz. Appena finito il film cileno si parte subito con un film che fa parte del concorso (denominato Pesaro Nuovo Cinema), Môj pes Killer (My Dog Killer) di Mira Fornay, della Repubblica Slovacca. Un ragazzo ha un cane, è il suo unico vero amico, unico punto fisso in una vita dissestata e distrutta da vicende famigliari davvero deprimenti. Le giornate passano stanche, lente, grigie, utili soltanto a far diventare sempre più evidenti i pesti sotto agli occhi del protagonista, Merek, sguardo inespressivo e inebetito a metà fra l’autistico e l’alieno. Le membra sottili e magre di Merek si muovono in un paesaggio violentissimo, che non concede alcuna alternativa oltre all’appartenenza a una gang e all’ignoranza a oltranza di un razzismo che fa la rima a estrema noia. Merek da parte sua non trova di meglio da fare che accomunarsi ad un gruppo di skinhead, la destra estrema e ingombrante che la regista ha assicurato essere presenza numerosa e molto inquietante della nuova Europa dell’Est. In realtà Merek non ha un solo amico dentro al branco, in cui viene tenuto in considerazione soltanto grazie al cane che ha, un vero e proprio cane killer. Il cane, di cui ora non ricordo il nome appare docile col padrone, pronto a seguirlo ovunque e a fare tutto per lui… quel che si dice un amico, no?! Mi tornano in mente le scene quotidiane di quest’umanità persa che preferisce i cani alle persone, per forza, i cani mica parlano… le discussioni possono vertere al massimo su non fare la cacca lì, non è ancora pronta la pappa, stai buono, non abbaiare… e sono monologhi, a cui però i padroni pensano veramente di avere risposte. Quando le persone ti hanno si tanto deluso allora ecco, un cane o un gatto o una tartaruga saranno i nuovi amici, l’inseparabile calore di uno scodinzolio e di un giretto in silenzio alla ricerca dell’albero giusto per pipì e/o popò. Chi ama così tanto gli animali da umanizzarli ha già forse decretato dentro se stesso che gli unici animali, le uniche vere e proprie bestie con bava alla bocca sono in definitiva gli uomini. Come dare torto a queste alte supposizioni? Da parte mia io son cocciuto, con le persone tento e ritento… Merek invece trova solo porte chiuse, finestre blindate, strade senza uscita: la famiglia sbriciolata, il figlio della nuova unione della madre, la madre stessa con cui ha una palude di incomprensioni. Lo spettatore viene torturato dal primo minuto sino alla fine in questo mare magnum grigio piombo, dove finiscono le aspettative, finiscono i buoni propositi, finiscono i buoni sentimenti. Finale col botto e per davvero: Merek compie un gesto irreparabile che segna il titolo del film, mentre nel cielo lontano esplodono fuochi d’artificio, inno alla gioia di cui Merek non coglie nemmeno il riflesso, colpevole il mondo opaco e senza alcuna luce che fa da scenario alla sua vita. Lento, a tratti lentissimo, Môj pes Killer (My Dog Killer) soffre di una storia a tratti stereotipata, di una regia che non ha veri e propri guizzi, forse di uno sguardo nero a cui manca un pizzico di ironia… riesce però a calarci addosso un gelo tale da provare qualche brivido anche coi 35° della colonnina esterna. Attenzione all’attore protagonista (Adam Mihál), con quella faccia smunta e l’occhio gelido e sinistro è la bandiera ideale del disagio che colpisce l’Est (e non solo)… davvero bravo. Dopo tanto soffrire devo farmi un regalo, esco al sole e mi prendo un gelato col gusto più idiota al mondo, che però mi ricollega a una dimensione bambina, felice e spensierata: ebbene sì, mi sparo un gelato al puffo! Chiedo maliziosamente se il puffo contenga coloranti… la ragazza mi guarda con occhio da pesce, stiamo un attimo in silenzio. Ecco, al mondo grigio di Merek tento di opporre una colata di azzurrino puffo mentre mi chiedo se i coloranti saranno per caso anche tossici… oggi è il giorno delle domande retoriche. Salto a piè pari alcune visioni, da altre sono rinfrancato (come dal primo film di Sebastián Lelio, Sagrada Familia), da altri sono invece annichilito. Fra questi vince a mani basse il premio annichilimento… ta-daaaa: L’estate sta finendo di Stefano Tummollini. Spagnoletti chiama l’autore prima della visione del film, l’autore non c’è… tranquilli, qualche secondo e sarà qui… intanto la gente aspetta… notare che Lelio e gli altri registi sono stati tutti rispettosi verso il pubblico e verso il festival che li ha ospitati… aspettiamo… passa qualche minuto, si fa attendere il ragazzo, eh!? Inizia l’imbarazzo, io da parte mia penso che non poteva che essere l’italiano a presentarsi in così grama maniera… arriva un ragazzone di corsa, seguito in fila indiana da bellini (non il cocktail, per sfortuna) e bellocce… gli attori, che onore… ma che è?! una gita?! Sono tutti belli sorridenti, denti bianchi a prova di mela, abbronzature da solarium ultimo grido o da villaggio Alpitour, poppe, sederi, bicipiti… vengono presentati uno ad uno, passerellina in stile festa di paese o sagra dell’anguilla in umido… il film appare idiota ancor prima di mostrarsi… parto col piede sbagliato? Forse sì, pensavo fosse un tango e invece era una maledetta merengue, sbaglio proprio i passi dall’inizio con questi ragazzi tutti i-Phone e finti problemi… sorta di commedia all’italiana dove però lo sguardo non è più cinico, cattivo, crudele… non potrebbe esserlo, perché il mondo che qui si vorrebbe criticare è lo stesso a cui questi ragazzi appartengono… L’estate sta finendo è la prova provata che l’estate del cinema italiano è finita da un pezzo… non riesco a terminare nemmeno la visione, buon inverno a tutti e tanti saluti.
Il mio personalissimo Festival di Pesaro corre veloce verso la conclusione ed ora che ne scrivo, mi preme dare conto di due visioni che ho trovato – a tratti – illuminanti.

 

 

In piazza vedo La Chupilca del Diablo (in concorso). Opera d’esordio del cileno Ignacio Rodríguez, classe ’89, narra di Eladio, vecchio scorbutico e ruvido, che fuma e rifumando si prende un bel cancro ai polmoni. Eladio lavora da anni in una distilleria illegale che sforna un terribile liquore: la chupilca del diablo. Sorta di grappa al cherosene, questa brodaglia è l’unica ragione di vita per il vecchio, l’unico appiglio per cui Eladio può fingere di ritenere utile lo stare a questo mondo. Al di là di quelle mura sgarrupate, al di fuori dei macchinari antiquati e obsoleti, ci sta il mondo, dove Eladio fatica a trovare un posto, colto dalla malattia del secolo, la solitudine. I contatti con la famiglia sono sporadici e quando ne ha dimostra tutto il proprio esser fuori posto. A una improbabile cena natalizia Eladio discute con il proprio nipote, due mondi a confronto. Il ragazzo, col proprio carico di irrequietudine e la sfrontatezza nell’affrontare la vita, appare incomprensibile agli occhi del nonno, che però vuole dargli una possibilità. Senza lavoro, il giovane assilla il vecchio chiedendogli di farlo lavorare con se, ma l’anziano è tutto una resistenza, crede infatti che il giovane mal sopporti la fatica di una vita di sacrifici… ma quando il ragazzo entra nella fabbrichetta, dove Eladio finge di avere lavoro a non finire, il nonno rimane molto stupito. Il rapporto fra i due è subito di scontro, ma il nipote tiene duro… non sono soltanto due mondi che si avvicinano, ma due mentalità che provano a cambiarsi vicendevolmente. Eladio prova ad essere meno scontroso ma soprattutto prova a non bastare più a se stesso, prova insomma a riconoscere l’importanza di un affetto. Il nipote da parte sua tenta di dimostrare al vecchio di non essere solo un orecchino e due alzate di spalle. Ma l’immobilità vince su tutto. La natura dell’indole prende il sopravvento e tutto torna alle posizioni iniziali, entrambi si richiudono nella propria solitudine e nelle consuetudini tanto dolorose quanto irrinunciabili. Gli errori si reiterano, la vita scivola via col suo carico di sbagli e i limiti rimangono tutti lì dove erano sempre stati. Tutto questo è doloroso, ma è senz’altro più facile che cambiare! Ignacio Rodríguez merita un grande ringraziamento per quest’opera così poco paracula, egli è portatore di uno sguardo così lucidamente disincantato che convince fino in fondo. Mi avvio verso la fine del mio festival, giorni passati a 200 metri dal mare senza vedere un filo di sole, giorni di visioni serrate e di pedalate tipo gran premio della montagna. Con la scusa dell’ultimo giorno do sfoggio di tutta la mia incapacità nell’amministrazione del mio tesoretto spendendo una fortuna in DVD: I misteriani di Honda, il Dracula di Morrisey, Chi lavora è perduto e tanto, troppo, altro. In tempo di crisi e di download selvaggio spendere in DVD è privilegio dei minorati mentali. Per fortuna il film di Lelio incomincia e ferma le mie brame di possesso, per la tristezza del commerciante El año del tigre (The Years of the Tiger) va cominciando [vedi recensione e intervista by RC].

 

 

Film di potenza eccezionale, quasi apocalittico, un attore meraviglioso (Luis Dubó) che regala un’interpretazione selvaggia, da vera bestia. Un uomo è in prigione, ha ucciso o forse ha rubato, non ci è dato saperlo. La moglie lo va a trovare, non è tempo di baciamano e nemmeno di frasi sdolcinate, niente parole d’amore ma solo sesso, prendersi come animali, sotto un telone, ansimare, grugnire anche… che gira e rigira è quello che tiene unite due persone. Poi tornare dentro alla cella aspettando il prossimo coito, quattro mura per ricordarti le colpe, minuto dopo minuto… ma queste 4 mura niente possono se il volere (divino) ha deciso di abbatterle… la terra scuote ogni cosa, coscienze e palazzi, questi ultimi non riescono a resistere e cadono sotto la forza tellurica. Finalmente quelle 4 mura che fanno eco alla colpa franano, ai carcerati non pare vero. Manuel quindi si disperde, riesce a evadere e finalmente torna ad essere un uomo libero… ma quello che ha dentro di se, la distruzione e il senso di colpa, sembrano esprimersi al di fuori, nel paesaggio che lo circonda… un paesaggio di macerie, dove niente si è salvato, squarci enormi dentro a quali case intere vengono inghiottite insieme alle vite che contenevano. Manuel cerca allora di ritrovare qualche affetto, ma se non trova traccia della figlia e della compagna, trova invece il corpo della madre senza vita. In questo clima apocalittico uno squarcio, una visione che appare salvifica: una gabbia è stata scaraventata probabilmente al di fuori di un circo, al suo interno una tigre magnifica, che appare stanca e prostrata dal terremoto e dalle visioni perpetue di distruzione che le stanno attorno. Manuel rimane abbagliato dall’animale, la cui visione immagina sia un messaggio. Comincia infatti qui il viaggio di redenzione dell’ex galeotto, col gesto caritatevole con cui Manuel apre la gabbia alla tigre per ridonarle la libertà, la stessa libertà che lui sta assaporando ma che sente di non meritarsi. Ma l’uomo non smette mai di deludere le aspettative e la tigre viene uccisa da un fattore border line alcoolista, che in una notte veramente psichedelica ammette che la sua vita è inutile e prega dio di portarlo a sé… cosa a cui pensa Manuel la mattina seguente uccidendolo, riuscendo così in un colpo solo a vendicare la tigre che tanto lo aveva fatto sperare per la propria redenzione e anche aiutando l’uomo a cessare una vita di stenti e bassezze morali… in pratica altro gesto caritatevole da parte dell’ex galeotto. Ma la terra di Caná è ancora lontana a venire e mentre Manuel prosegue nel suo girovagare incontra segni di devozione sempre crescente verso un dio che invece non pare ascoltare, che non sembra intenzionato ad aiutare e nemmeno a piegarsi ad alcun tipo di clemenza. Compresa l’impossibilità della redenzione, Manuel digrigna i denti alla vista di un passeggino semidistrutto in mezzo a una strada. Preso atto di ciò comincia a sbattere questo simbolo dell’innocenza per ricordare a dio, o a chi per lui, che Manuel ha tentato, ma di fronte alla sordità non è riuscito a modificare il proprio destino. I gendarmi lo portano di nuovo in galera mentre lo sguardo di Manuel si perde fra case distrutte e ascesi infrante. Commozione. Con due lire Lelio ci sbatte in faccia una storia semplice, potente, colma di simboli. Nel mio piccolo parto felice, mi aspetta una ascesi sino ai colli di Senigallia, dove farò vedere una piccola rassegna che ho organizzato, del titolo Messia Selvaggio, in onore di  Ken Russell… le prime pendici strappano, i muscoli si tendono, mi trovo felice su un bel 15%, sicuro che l’ascesi, per oggi, andrà a buon fine.
Del doman, invece, non v’è certezza… per fortuna! •

Francesco Selvi

 

CREDITI ESSENZIALI DEI FILM CITATI

Lido
di Mirko Santi (Italia/2000-2003)

Halley
di Sebastian Hofmann (Messico/2012)

Dolgaya Schastlivaya zhizn (A Long and Happy Life)
di Boris Khlebnikov (Russia/2013)

Nostalgia de la luz
di Patricio Guzmán (Francia-Germania-Cile-Spagna-USA/2010)

Môj pes Killer (My Dog Killer)
di Mira Fornay (Slovaccia-Repubblica Ceca/2013)

L’estate sta finendo
di Stefano Tummollini (Italia/2013)

La Chupilca del Diablo
di Ignacio Rodríguez (Cile/2012)

El año del tigre (The Years of the Tiger)
di Sebastián Lelio (Cile/2011)

 

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I REPORT DI FRANCESCO SELVI PER RAPPORTO CONFIDENZIALE

Cronache e impressioni dal 24° Trieste Film Festival

Cronache e impressioni dal 23° Trieste Film Festival

Cronache e impressioni dal 22° Trieste Film Festival

 

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Cover image: campagne 1910-1911 French soldiers and bicycles by Martin Freiherr von Hagen [Fonte: http://bit.ly/1aWhH8L]

 



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