“L’usurpatore!”. Elio non conosce ancora Oliver, ma sa che l’ospite gli soffierà la camera da letto. Scruta dalla finestra l’arrivo dello straniero, sospinto nella sua beltà corrusca da un’onda di Sole, e ignora che quel tizio misterioso lo stravolgerà…
La genealogia policefala di Chiamami col tuo nome suona come un inno al multiculturalismo e testimonia, al contempo, un decorso gestatorio lungo e faticoso. In principio era il verbo del romanzo eponimo, pubblicato nel 2007 e ambientato, per la gran parte, nel Golfo dei Poeti. André Aciman, l’autore, è un egiziano cosmopolita e girovago, cultore di Marcel Proust. Se il copione, poi, vanta la firma di James Ivory è perché il maestro californiano avrebbe anche dovuto dirigere, prima dell’elezione a regista di Luca Guadagnino, consulente della produzione fin dai primordi. E se il filmmaker siciliano, aduso allo studio di passioni travolgenti e alla visura di interni altoborghesi, ha trovato, nel soggetto, pan per i suoi denti, il dibattito intergenerazionale (e anglofono, come la picture derivatane) ha portato evidenti benefici. I frutti si sono lasciati cogliere: ovazioni al Sundance e alla Berlinale, due Gotham Award, tre candidature ai Golden Globe, sei agli Independent Spirit e quattro ai Bafta Award, altrettante agli Oscar, oltre a un lusinghiero terzo posto nella classifica dei migliori titoli del 2017 stilata da «Sight & Sound».
Elio e Oliver, si diceva. Il primo, figlio di un accademico statunitense, è un diciassettenne colto e gentile che trascorre l’estate nella sontuosa villa familiare ove Oliver, dottorando in lettere classiche fin troppo conscio del suo fascino, viene accolto per alcune settimane. Gli accadimenti del libro sono traslati nella campagna lombarda e retrodatati di qualche luna, tant’è che, nei discorsi dei personaggi, echeggiano commenti sul governo Craxi e il pentapartito. Come nel testo, invece, Elio e Oliver si innamorano. In una stagione di Bach e Satie suonati alla chitarra e al pianoforte, di passeggiate in bicicletta e bagni al fiume, di visite a siti archeologici e serate in discoteca, l’eros divampa implacabile, l’attrazione vince ogni timidezza e ritrosia, le affinità elettive sembrano alimentare nei due l’anelito di (con)fondersi l’uno con l’altro (da cui l’arcano del titolo). La felicità, tuttavia, si rivelerà effimera. L’atteggiamento opaco dell’amato rappresenta, per Elio, la diana di preoccupazioni e sospiri già di per sé indicativi della discrasia tra i desideri e la cruda realtà. L’allontanamento di Oliver coinciderà, poi, con la dolorosa comprensione di quanto decidua sia ogni gioia, pronta a cedere il passo al rimpianto e alla nostalgia, ma anche a quello struggimento che rinsana il cuore e ci rende umani.
Spesso Ivory, al seguito di forestieri, turisti, coloni, ha raccontato, tra occidentali in India o a Shangai, britannici nel Bel Paese, europei in America e viceversa, l’incontro e l’interazione tra differenti civiltà. Oliver giunge dal New England con i modi schietti e, talvolta, cafoni d’oltreatlantico e, senza dubbio, per lui l’Italia, terra in cui statue millenarie affiorano dalle acque lacustri e la sindrome di Stendhal si manifesta in attacchi acuti, ha qualcosa di inebriante, che eccita i sensi, che depista la ragione. L’asse portante della sceneggiatura è, tuttavia, il Bildungsroman di Elio. E, anche qui, la mano delicata ed esperta di Ivory si avverte. Una sapienza letteraria nutrita di Edward Morgan Forster e Henry James rifulge nella cura del dettaglio psicologico come nella registrazione delle impercettibili scosse sismiche dell’anima inquieta sotto la superficie di una normalità all’apparenza intonsa. Naturalmente, Elio non è Maurice Hall, vittima di retaggi e inibizioni sociali. Eppure, anche a lui toccherà apprendere quanto essere e affermare se stessi comporti dolore, solitudine, frustrazione. Sfiorando il coming out plot, con tanto di conversazione catartica con il padre (un po’ retorica, ma toccante), il copione traccia un itinerario coscienziale in cui non è tanto l’amore ad esercitare un ruolo epifanico, quanto la perdita, che investe, retrospettivamente, di significato il percorso pregresso. Non senza riempirci di tristezza, ma è questo il bello di un film elegiaco come Call by Your Name, che dal romanzo estrae il succo ma ne supera, anche, gli aspetti più discutibili. Nelle pagine di Aciman è, infatti, difficile non ravvisare una summa di tòpoi proustiani meccanica e compiaciuta: il cannibalismo sentimentale, la gelosia, la vacanza balneare, l’impertinenza delle fanciulle in fiore, il sospetto di una sodomia diffusa, le dotte discettazioni, il tempo fluito e rammemorato. Tutto un materiale che lo script asciuga o stempera, per dispensarci la classicità un po’ démodé di una narrazione che non sfida lo spettatore a snidare la citazione.
Guadagnino, dal canto suo, non sbava mai e, nell’affabulare la sessualità di un adolescente e le speranze giovanili infrante, pattina tra le lezioni di Bernardo Bertolucci, Alberto Lattuada, Valerio Zurlini, mentre lo sguardo si spinge oltralpe. Anche se, più che con Ai nostri amori di Maurice Pialat, modello dichiarato, Guadagnino sembra in debito con il buon vecchio François Truffaut. Sarà per un registro continuamente in bilico tra sentimental drama e mélo; sarà perché l’opera del dop Sayombhu Mukdeeprom nel (ri)creare una natura invitante e allusiva, seducente e maliarda, ma mai panica, ricorda il servizio reso da Néstor Almendros a Le due inglesi (a proposito di storie d’amore che si sviluppano tra lande agresti, di drammi a un passo dal melodramma, di separazioni colme di strazio). Paragoni a parte, Guadagnino vola alto. Più del solito. E se, definendo Chiamami col tuo nome “il più bel film italiano a tematica omosessuale di sempre”, Paolo Bertolin mancava, nel numero 204 di «Segnocinema», di tatto e cautela critici, non si discostava dal vero scrivendo che la pellicola “resterà anche come uno dei più bei film del nostro cinema sull’adolescenza, l’amore e il tempo che passa -e le tracce che lascia dentro di noi”.
Merito anche del cast: Thimotée Chalamet associa l’ingenuità e la sensualità primaticcia del Jacques Perrin degli anni Sessanta (Zurlini!) al perfezionismo prossemico di Daniel Day-Lewis, dimostrando, nel primo piano finale, una mirabile intensità; Armie Hammer ha, quanto meno, il physique du rôle; Michael Stuhlbarg una profonda, commovente umanità. Sì, mancano le Laura Betti, le Tilda Swinton, le Geraldine Chaplin, le Marisa Berenson e i Gabriele Ferzetti che, con la loro presenza, trasformano i film precedenti di Guadagnino in una gliptoteca della settima arte. Un po’ di pazienza: presta arriverà Suspiria e, tra Ingrid Caven, Jessica Harper e, ancora, Swinton, i collezionisti di icone avranno di che leccarsi i baffi. •
Dario Gigante
CALL ME BY YOUR NAME (Chiamami col tuo nome)
Regia: Luca Guadagnino • Soggetto: dal romanzo Chiamami col tuo nome di André Aciman • Sceneggiatura: James Ivory • Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom • Montaggio: Walter Fasano • Casting: Stella Savino • Scenografie: Samuel Deshors • Art Direction: Roberta Federico • Set Decoration: Sandro Piccarozzi, Violante Visconti di Modrone • Costumi: Giulia Piersanti • Seconda unità: Ferdinando Cito Filomarino • Canzoni originali: Sufjan Stevens • Produttori: Emilie Georges, Luca Guadagnino, James Ivory, Marco Morabito, Howard Rosenman, Peter Spears, Rodrigo Teixeira • Produttori esecutivi: Naima Abed, Margarethe Baillou, Tom Dolby, Sophie Mas, Francesco Melzi d’Eril, Lourenço Sant’Anna, Derek Simonds • Coproduttori: Susanne Filkins, Abdi Nazemian, Allan Neuwirth, Kim Surowicz • Interpreti principali: Timothée Chalamet (Elio), Armie Hammer (Oliver), Michael Stuhlbarg (prof. Perlman), Amira Casar (Annella), Esther Garrel (Marzia) • Produzione: Frenesy Film Company, La Cinéfacture, RT Features, Water’s End Productions, M. Y. R. A. Entertainment • Suono: Dolby Digital • Rapporto: 1.85:1 • Negativo: 35 mm (Kodak Vision3 500T 5219) • Processo fotografico: Digital Intermediate, Super 35 • Formato di proiezione: DCP • Paese: Italia, Francia, Brasile, Stati Uniti • Anno: 2017 • Durata: 132′