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Slaughter (Slaughter uomo mitra)
Regia di Jack Starrett (USA/1972)
recensione a cura di Leonardo Persia

Darius James considera Slaughter di Jack Starrett «il primo, vero film mondiale della blaxploitation». Un «James Bond economy class… che non mostra nessun’altra aspirazione, a parte quella di replicare la formula dei suoi predecessori commerciali». Le intenzioni puramente di mercato, sulla scia nera delle nuove tendenze (Sweetback, Shaft) sono dichiarate, nella sua biografia, dallo stesso produttore esecutivo Samuel Z. Arkoff (suoi altri titoli blax come i due Blacula, il pam-grieriano Coffy, l’«esorcistico» Abby, il nostalgico American Graffiti nero Cooley High).

Eppure, come in molti altri esempi del filone blaxploitation, la forte connotazione di genere (un action movie piuttosto regolare) non impedisce la proliferazione di segni ambigui. A buon diritto vi si scorge un subtesto atto a delineare un particolare tipo di estetica nera. Rivolta essenzialmente a un pubblico black, senza trascurare però le coordinate esteriori fondamentalmente bianche della confezione (regia, sceneggiatura, produzione e cast di attori: Jim Brown e Marlene Clark a parte).

Slaughter è soprattutto un tuffo onirico (e, vedremo, letterale) nella percezione che il bianco ha del nero. Tale percezione si esplica attraverso le lenti della corporeità e, della forza fisica, con tutto ciò che ne consegue a livello di proiezione e teorizzazione. Resistenza muscolare, macchina (iper)produttiva, corpo che uccide (paura), corpo che fotte (desiderio), corpo ibridante (la contaminazione sessuale con le donne bianche): questo è il nero Slaughter (nomen omen!), interpretato dal super-campione di football americano Jim Brown. Macchina da guerra, ex berretto verde sul quale non è difficile ravvisare il consueto sguardo colonialista e razzista indeciso tra la repulsione e l’attrazione, concretizzato infine nello sfruttamento di corpo e anima.

È palese tuttavia anche la partita essenzialmente omologa che il black power riassorbe e mutua dallo sguardo bianco per risemantizzarla in termini di conflittualità e orgoglio razziali. Il film di Jack Starret è quindi un film in bianco e nero, non sceglie l’una o l’altra direzione di sguardo, piuttosto alterna o delocalizza i punti di vista razziali, li accumula e li coagula, piegando le forti connotazioni centralizzate in punti di fuga sovversiva. O, viceversa, ritrasformando il meccanismo di ribellione in duro enunciato psicotico, ossessivo e ultra-conservatore.

Il plot è modellato da un gioco simbolico che si articola man mano che la storia arriva alla conclusione. Anzi, il finale (l’attuazione di una vendetta secondo la legge del taglione) è immediatamente correlato alla scena iniziale: un’auto che, all’avvio, esplode, bruciando i corpi della coppia che contiene. La vittima, il padre del protagonista, viene vendicato dal figlio che, dopo un inseguimento spericolato dell’assassino bianco, Dominick Hoffo (Rip Torn), lo porta a sfracellarsi con l’auto, a cui, con un colpo di pistola, dà fuoco. Fiamme finali e fiamme iniziali: il cerchio si chiude (e si riavvia) segnando l’irredimibilità scontata del racconto. Ma la figura del cerchio è evocata sin dai titoli di testa, dandosi come pertinenza simbolica del testo. Un bersaglio con quattro linee concentriche semoventi che costituiscono la cornice di alcune immagini fisse del film che stiamo per vedere.

Il cerchio, segno di indiscernibilità, nemesi, realizzazione, rimanda pure ad alcuni luoghi analogici del film: la roulette del “casino” di Mario Felice, l’altro cattivo; i tavoli da gioco; le fiches; i cappelli messicani. Le piscine. L’ultimo elemento definisce e dispiega l’orizzonte simbolico del tutto. In effetti nel film l’acqua diventa l’elemento chiave contrapposto al fuoco. Il cerchio è già di per sé un anello di congiunzione tra sole (fuoco) e luna (acqua), quindi tra elemento maschile ed elemento femminile, tra concretezza e astrazione. Il terreno di scontro su cui si coniuga il concatenamento di sguardo bianco/nero è difatti proprio quello con l’altro sesso, con la donna, sempre evocata attraverso la piscina.

Liquido amniotico, grembo universale, prima materia, somma (non quantificabile) delle potenzialità, schermo del divenire, flusso, battesimo, intuizione, illuminazione, inconscio. È in questo luogo di immanente trascendenza che fa la sua prima apparizione il personaggio di Ann (Stella Stevens). La donna di Hoffo con la quale Slaughter andrà a letto. L’anello di congiunzione tra il protagonista e l’assassino del padre, tra Slaughter e il mondo bianco. Tra l’odio e l’amore.

Invece, nella prima scena di scontro bianco/nero, cattivo/buono, quella di Slaughter all’aeroporto che con l’auto impedisce di far decollare il piccolo aereo con l’assassino del padre, il cattivo è costretto a scendere dal velivolo in fiamme provocate dal rivale, dopo un inseguimento auto/aereo. Se s’intuisce subito la sua natura di diavolo bianco, che appare letteralmente tra le fiamme, dando connotazione simbolica alla sua origine diegetica, in questa scena si manifesta soprattutto il ruolo maschile, il fuoco, tema centrale del film.

Il fuoco sono le armi, le esplosioni, l’esaltazione violenta, la bile, lo stesso genere del film. Sin da subito esplorato in chiave di confronto, rivalità, scontro, differenziazione. Hoffo, lo ricordiamo, è l’uomo di Ann, e l’assassino del padre di Slaughter. Quest’ultimo era un anziano e asciutto uomo di colore, frequentatore dell’underworld, aderente alla figura di rolling stone sessualmente promiscuo (amanti nere e bianche, molto più giovani della moglie), di cui il figlio costituirà un’immediata replica. Tale connotazione allarga il conflitto, riveste l’antagonismo di intime emotività, di passioni sessuali. È proprio una delle amanti del padre, Jennifer, che sarà uccisa per questo, a dare al protagonista la prima traccia per trovare l’assassino, l’aeroporto di Warrensville. Trattandosi di una bianca, il delitto evoca irresistibilmente le stimmate della colpa emblematica, della giusta punizione del peccato. Un luogo comune presente anche nella blaxploitation a direzione nera (vedi Gordon’s War di Ossie Davis).

Dietro la storia puramente banale e pretestuosa si nasconde un percorso d’iniziazione del protagonista all’interno della whiteness (oltre che dello spettatore bianco dentro una mitizzata blackness). L’accesso di Slaughter nella camera 614 dell’hotel Camino Real (nome simbolico), in Messico, è preceduto da una scena silente e spettrale di attraversamento del corridoio spoglio e bianchissimo dell’albergo. Si può pensare per riflesso ironico a Kubrick, considerato anche che il movente delle uccisioni è una specie di Hal 9000, un computer su cui sono inseriti tutti i dati e tutti i nomi dell’organizzazione malavitosa, e che il padre di Slaughter era riuscito a localizzare.

L’incontro con il socio bianco Marcus alias Harry Bastolli (Don Gordon), che si trova nella stanza, avviene attraverso uno scontro, una scazzottata conclusa con un accidentale tuffo in piscina (dalla finestra della camera), a sancire l’amicizia battesimale con quello che era stato erroneamente considerato un nemico. Qui si rinnova un legame classico della tradizione americana, da Huckleberry Finn ad Arma letale. Fuoco spento nell’acqua, interazione razziale non priva di conflittualità varie non del tutto sopite. Si riaffaccia inevitabilmente il tema donna.

Non è un caso che Marcus, al contrario di Slaughter, si riveli un fallimentare playboy, sbeffeggiato per questo dalla nera Kim (Marlene Clark), e che, verso il finale, aderisca totalmente ma sgraziatamente al mood di Slaughter, finendo per fare l’autoritario con Kim. Il pubblico nero vi legge l’inadeguatezza e l’inferiorità dei bianchi (ancora in termini di forza fisica e potenza sessuale), quello bianco il proprio complesso sublimato.

L’altro uomo bianco fondamentale del film, A. W. Price (Cameron Mitchell), è il federale che chiede l’aiuto di Slaughter per risolvere il caso, ma lo fa attraverso un patto ricattatorio. È il prezzo a cui il massacratore dovrà sottostare. Nella sua ansia vendicativa, Slaughter ha ucciso l’uomo sbagliato e, per il tramite di una collaborazione imposta e coattiva, da svolgersi secondo le regole poliziesche ortodosse, l’altro metterà a tacere tutto. Ma Price, prima ancora del patto e dell’uccisione erronea, ha cercato di catturare la collaborazione dell’uomo attraverso l’esca sessuale di Kim, falsa reporter, che Slaughter si troverà in camera nuda. È lei, nera già dentro le regole bianche, a ricordargli che d’ora in poi, muovendosi all’interno della legalità, Slaughter rinuncerà a far fuori qualsiasi cosa che si muova. E dovrà necessariamente agire in compagnia di Marcus, il bianco. Si esplicita una linea addomesticatrice della negritudine, dello stato selvaggio. Dove il sesso persegue il diritto, la legge. Davvero un price.

Scorrettezza coloniale (Price), emulazione sessuale (Marcus), attrazione (Ann) e complesso d’inferiorità (Hoffo) sono gli elementi “bianchi” che Slaughter viene quindi a conoscere. L’ultimo elemento, soprattutto, si avvale esplicitamente del rifiuto razzista. Hoffo lo definisce a più riprese stinking black nigger o black ape. Ma anche Price, al primo incontro con l’eroe, non risparmia il consueto nigger.

Scrive Mikel J. Koven: «Il più interessante sottotesto del film, ancora secondo una prospettiva bianca, è, del film, e si suppone del pubblico, la paura della sessualità maschile nera, in particolare del desiderio che il maschio nero nutre nei confronti della donna bianca. La virilità nera viene mostrata in una maniera piuttosto feticistica. Si presume che tutti noi vogliamo essere come Slaughter (duro uomo d’azione che è un asso con tutte le donne) e allo stesso tempo lo rifiutiamo in quanto diverso (cioè nero). La contraddizione si rivela dalle scene del corpo muscoloso di Brown, nudo dalla cintola in su, mentre questo corpo è contemporaneamente percosso e ferito nelle scene di violenza e tortura».

Ma tale contraddizione sfuma nel solito spazio ibrido di rappresentazione, tipico dell’estetica nera (sia pure ricreata da bianchi). Ci sono i crossroads dell’inseguimento finale, un must african-american, come le croci delle locations messicane (borderline per eccellenza), che giustificano il mix tra la musica soul del sound-track (di Luchi de Jesus) con il latin groove. E, ancora, il senso rovesciato, l’esplorazione del contrario all’interno delle cose. Una chiesa è sottostante alla tenuta da gioco dei malviventi. E risulta ancor più ironico vedere Ann confessare a Slaughter di essere una schiava (di Hoffo) con lui a rispondergli «I’ll set you free». Capovolgimento della dialettica schiavo nero-padrone bianco, nuovamente su un piano allusivamente sessuale.

Leonardo Persia

 

Slaughter (Slaughter uomo mitra)
Regia: Jack Starrett
Sceneggiatura: Mark Hanna, Don Williams
Fotografia: Rosalio Solano
Montaggio: Clarence C. Reynolds, Renn Reynolds
Musiche: Luchi de Jesus
Stunts: Paul Nuckles, Ronald C. Ross
Produttore: Monroe Sachson
Produttore associato: Don Williams
Produttore esecutivo: Samuel Z. Arkoff
Interpreti: Jim Brown (Slaughter), Stella Stevens (Ann), Rip Torn (Dominic Hoffo), Cameron Mitchell (A.W. Price), Don Gordon (Harry), Marlene Clark (Kim), Robert Phillips (Frank), Marion Brash (Jenny), Norman Alfe (Mario Felice), Eddie Lo Russo (Little Al), Buddie Garion (Eddie), Roger Cudney (Gio), Lance Winston (Intern), Juan José Laboriel (zio), Francisca López de Laboriel (zia)
Case di produzione: American International Pictures (AIP), Slaughter
Distribuzione: American International Pictures (AIP)
Paese: USA
Anno: 1972
Durata: 91′

 


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